Pontelandolfo e Casalduni Polibio redivivo!
Ho appena letto il nuovo msg [in cui si parla di un recente testo che minimizzerebbe l’entità degli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni – N d. R.] della rete delle Due Sicilie, ecco come zittire il “grande studioso” !!!
E’ inutile citare uno storico contemporaneo per smentire un altro storico (o presunti tali), se non conoscessi le fonti dell’evento storico in questione, penserei “‘a parola mia, contra ‘a toia, chissà addò stà a’ verità!”
Ma a me risulta, benché non abbia mai scritto alcun libro di storia, che la storia la si fa consultando i documenti dell’epoca che vogliamo trattare, valutandone preventivamente l’attendibilità. Qui riporto alcune testimonianze dirette degli eccidi di Pontelandolfo e Casaladuni. Sottolineo che Melegari, Negri e Margolfo avevano tutto l’interesse a minimizzare l’accaduto, ma se pure avessero raccontato la verità oggettiva, il nostro “Polibio” avrebbe scritto una marea di menzogne, giacché il bersagliere Margolfo ammette: “subito incominciato a fucilare preti e uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava”.
Nemmeno un prete fu ucciso ? Caro Polibio redivivo, credo proprio che il nostro abbia personalmente fucilato almeno un prete… in fondo lo ammette candidamente !!!
“Briganti arrendetevi” Anonimo (Carlo Melagari), Edizioni Osanna Venosa, 1996, pp. 22-33.
[…] “quando si parlava e si leggeva sui giornali che gli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo, unitisi a 400 briganti, dopo le più crudeli sevizie, avevano infamemente massacrato una mezza compagnia e ufficiali del 36°reggimento di linea.”
[…] “Persuaso che nulla poteva accadere d’importante, alla sera mi recai all’adiacente teatro San Carlo, prevenendo il capitano più anziano che, in caso di bisogno, mi avesse fatto chiamare. …e mi compiacevo di poter assistere ad un magnifico spettacolo, come se ne soleva rappresentare in questo gran teatro; la numerosa e buona orchestra cominciava ad accordare gli strumenti, quando, volgendo lo sguardo al fondo della platea, vidi un tenente del battaglione che, alzando la destra, indicava volere parlarmi. Lasciata la poltrona, l’incontrai nel vestibolo: “ II generale Cialdini, mi disse, la vuole subito al Comando”.
[…] “Accorsi e trovai invece il generale Piola-Caselli, che, un poco contrariato per il mio ritardo, mi riceve con queste parole: « Ella avrà senza dubbio udito parlare del doloroso ed infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo; orbene, il generale Cialdini non ordina, ma desidera che di quei due paesi non rimanga più pietra sopra pietra… Ella è autorizzata a ricorrere a qualunque mezzo, e non dimentichi che il generale desidera che siano vendicati quei poveri soldati, infliggendo la più severa punizione a quei due paesi. Ha ella ben capito?“
“Generale, risposi io, so benissimo come si devono interpretare i desiderii del generale Cialdini: ho fatto la campagna della Crimea e quella del 1859 sotto i suoi ordini, e so per prova come egli sia uso a comandare e ad essere ubbidito”. Ciò detto m’accomiatai e ritornai al teatro, ove potei ancora godere di due atti degli Ugonotti e del grande ballo“[…]
“Spuntava appena il giorno che il battaglione si trovava schierato di fronte a Casalduni. Immantinenti ordinai di circondare il paese, posto in basso, e di aprire il fuoco di fila fino al mio segnale di cessate-il-fuoco; quindi d’entrare, baionetta in canna, di corsa, compagnia per compagnia per i diversi sbocchi, onde concentrarsi sulla piazza del paese vicino alla chiesa. Le campane suonavano tristemente a stormo, pochi colpi di fucile partivano dai campanili e dai terrazzi…. Fui sorpreso di trovare le vie deserte ed un silenzio sepolcrale nelle case. I briganti e gli abitanti, avvertiti dell’avvicinarsi dei bersaglieri….
Era giunto finalmente il momento di vendicare i nostri compagni d’armi, era giunto oramai il momento del tremendo castigo. Chiamati a me gli ufficiali delle tre compagnie che si trovavano riunite sulla piazza, ove s’ergeva anche la casa del Sindaco, ordinai loro di far atterrare le porte e di appiccare il fuoco alle case, a cominciare da quella del Sindaco. In breve dense nubi di fumo s’elevavano al cielo e l’incendio divampava in diverse parti del paese.
Nella casa del Sindaco già le fiamme, irrompendo dai vani del pian terreno, a guisa di serpenti s’allungavano ed invadevano il piano superiore. Alcuni bersaglieri, udendo strepiti e nitriti, entrati nella scuderia ne tiravano fuori due cavalli furiosi dallo spavento; altri, saliti al primo piano, buttavano giù dalle finestre bandiere borboniche, uniformi, razioni di pane, armi, e fra queste i fucili con le cinghie bianche insanguinate appartenenti ai poveri soldati sopraffatti a tradimento e trucidati barbaramente.”
[…] “ L’incendio continuava l’opera sua di distruzione e da una casa si propagava facilmente all’altra “[…]
Abstracts, presi dal web, tratti da: L’invenzione dell’Italia unita di Roberto Martucci
[…] “All’alba del 14 agosto 1861 i soldati, che nel frattempo hanno preso posizione sulle alture circostanti, ricevono l’ordine di aprirsi a ventaglio per investire da più lati l’abitato, con i suoi cinquemila abitanti immersi nel sonno. Come ci conferma il diario del bersagliere Margolfo, i soldati avevano ricevuto l’ ordine di “entrare nel comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi ed incendiarlo” […]
[…]
«Entrammo nel paese – scrive il bersagliere Margolfo – subito incominciato a fucilare preti e uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava».
Come non manca di ricordare, assaporandone empio il ricordo, l’ufficiale Angiolo De Witt che, pur non essendo presente ai fatti, ricostruisce la strage grazie al racconto dei commilitoni:
“Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari dell’ieri, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette di scendere per la via, ivi giunti vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro.
Molti mordevano il terreno; altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati di prendere ogni specie di strame per incendiare con quello le loro stesse catapecchie.
Questa scena di terrore guerresco duro una intiera giornata; il gastigo fu tremendo, ma fu più tremenda la colpa. Donne oltraggiate, malgrado lo spavento e il terrore che saetta dagli occhi, subiscono violenza da molti, pensando, forse, di averne salva la vita fino a che, pietosa, una baionetta mette fine ai loro giorni. Alle vecchie, solenni negli abiti neri, si strappano dalle orecchie i monili: poi per tutte un gesto di morte, rapida per le più fortunate, lunga e straziante per le altre.
Nella mozione che gli fu impedito di svolgere alla Camera, Marzio Proto, duca di Maddaloni, aggiunge particolari agghiaccianti; vi sono donne che, temendo lo stupro, preferiscono rimanere nelle case in fiamme: Nei vortici di fiamme che divoravano il vecchio ed adusto Pontelandolfo udivansi alcune voci di donne cantanti litanie e miserere.
Certi Uffiziali si avanzarono verso l’abituro onde veniva quel suono, ed apersero l’uscio, e videro cinque donne che scapigliate e ginocchioni stavano attorno di un tavolo su cui era una Croce con molti ceri ivi accesi. Volevano; ma quelle gridando: Indietro… maledetti! indietro… non ci toccate, lasciateci morire incontaminate, si ritrassero tutte in un cantuccio, e tosto profondò il piano superiore e furono peste le loro ossa, e la fiamma consumò le innocenti. “
Il legittimista Giacinto De Sivo si dirà incapace di descrivere «lo spavento tra la morte e le fiamme di quella città infelice, bruttata da italici rigeneratori» che «impotenti co’ tedeschi, con gli inermi son prodi».
Qualora i giudizi espressi da un borbonico possano risultare ancora oggi sospetti, proviamo a leggere cosa scrive nel suo diario inedito, con una prosa zoppicante ma efficace, il bersagliere Margolfo:
«quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore: e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case»
Ma questa partecipazione al dolore è quasi certamente frutto di una rielaborazione successiva, dato che, quasi a voler sottolineare l’estraneità dei soldati al loro massacro di donne, bambini, vegliardi, Carlo Margolfo sente di dover aggiungere: «noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava», a parte 1’appetito, distrutto «per la gran stanchezza della marcia di 13 ore»
I morti? La strage non ha una contabilità ufficiale, ma considerato che Pontelandolfo e Casalduni nell’insieme contavano circa 12.000 abitanti, non ci sbaglieremmo di molto ipotizzando che le vite stroncate siano state parecchie centinaia, forse anche un paio di migliaia.
Il tenente Gaetano Negri parlò dell’eccidio in una lettera indirizzata al padre:
“Probabilmente anche i giornali nostri avranno parlato degli orrori di Ponte Landolfo. Gli abitanti di questo villaggio commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò nel paese, uccise quanti vi erano rimasti, saccheggiò tutte le case e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne completamente distrutto. La stessa sorte toccò a Casaldone i cui abitanti si etano riuniti a quelli di Ponte Landolfo.”
Lo storico legittimista Giacinto De Sivo, pochi anni dopo i fatti, scrive: “quattrocento piemontesi da San Lupo, con seguito di mascalzoni, guidati da quel tristo del Jacobelli, credendo sorprendere la popolazione, entrarono da più parti in Casalduni, sparando all’aria, spaventando quei pochi di vecchi e donne e fanciulli rimasti. Un Tommaso Lucente da Sepino […] precedeva i soldati, indicando le case da ardere, prima quella del sindaco Ursini.
In ogni parte sacco, lascivia, incendi; nudi i cittadini fuggivano dalle fiamme; chi bastonato era, chi ammazzato.
Un Lorenzo d’Urso, là venuto per faccende, fattosi sull’uscio a salutare i soldati, è spento; e poi la casa col cadavere sono arsi. Il vecchio arciprete fugge in camicia, e ne more indi a poco. Un malato, rizzandosi sul letto per ispavento è ucciso.
Ugual ruina che a Ponte Landolfo, ma meno sangue, perché quasi, deserto il luogo, e più pochi gli assassini. Stigmatizzata dal «Times» di Londra in una corrispondenza del settembre 1861, denunciata con parole roventi alle cancellerie europee da Pietro Calà d’Ulloa duca di Lauria, ministro di Francesco II nell’esilio romano, della strage non si sarebbe mai saputo nulla – vista la mancata iscrizione all’ordine del giorno dell’interpellanza Proto de120 novembre – se la questione non fosse stata sollevata alla Camera dei deputati da Giuseppe Ferrari.
Prende la parola il 2 dicembre 1861… :
Nel turbinio degli avvenimenti […] la confusione giunge a tal punto che io a Napoli non poteva sapere come Ponte Landolfo, una città di 5.000 abitanti fosse stata trattata. Io ho dovuto intraprendere un viaggio per verificare il fatto cogli occhi miei. Ma io non potrò mai esprimere i sentimenti che mi agitarono in presenza di quella città incendiata. Mi avanzo con pochi amici, e non vedo alcuno; pochi paesani ci guardano incerti; sopravviene il sindaco; sorprendiamo qualche abitante incatenato alla sua casa rovinata dall’amore della terra, e ci inoltriamo in mezzo a vie abbandonate. A destra, a sinistra le mura erano vuote e annerite, si era dato il fuoco ai mobili ammucchiati nelle stanze terrene e la fiamma aveva divorato il tetto; dalle finestre vedevasi il cielo. Qua e là incontravasi un mucchio di sassi crollati; poi mi fu vietato il progredire; gli edifizi puntellati minacciavano di cadere ad ogni istante.
L’implacabile Giuseppe Ferrarii, impolitico e indignato, non aveva tregua e con pathos infinito rievocava una tragedia paradigmatica:
E quando Volli vedere più addentro lo spettacolo ce1ato delle afflizioni domestiche, mi trassero dinanzi il signor Rinaldi, e fui atterrito. Pallido era, alto e distinto della persona, nobile il volto; ma gli occhi semispenti lo rivelavano colpito da calamità superiore ad ogni umana consolazione.
Appena osai mormorare che non così s’intendeva da noi la libertà italiana.
Nulla io chiedo, disse egli, e noi ammutimmo tutti. Aveva due figli, l’uno avvocato, l’altro negoziante, ed entrambi avevano vagheggiato da lontano la libertà del Piemonte, ed all’udire che approssimavansi i piemontesi, che così chiamasi nel paese la truppa italiana, correvano ad incontrarli. Mentre la truppa procede militarmente, i saccomanni la seguono, la straripano, l’oltrepassano, e i due Rinaldi sono presi, forzati a riscattarsi, poi, dopo tolto il danaro, condannati ad istantanea fucilazione.
L’uno di essi cade morto; l’altro viveva ancora con nove palle nel corpo; e un capitano gittavasi a ginocchio dinanzi ai fucilatori per implorare pietà; ma il Dio della guerra non ascoltava parole umane e l’infelice periva sotto il decimo colpo tirato alla baionetta.
Rinaldi possedeva due case, e l’una di esse spariva tra le fiamme, e appena gli uffiziali potevano spegnere l’incendio che divorava l’altra casa. Rinaldi possedeva altre ricchezze, e gli erano rapite; aveva altro… e qui devo tacermi, come tacevano dinanzi a lui tutti i suoi conterranei. Quante scene d’orrore!
Qui due vecchie periscono nell’incendio; là alcuni sono fucilati, giustamente, se volete, ma sono fucilati; gli orecchini sono strappati alle donne; i saccomanni frugano ogni angolo; il generale, l’uffiziale non possono essere dappertutto: si è in mezzo alle fiamme, si sente la voce terribile: piastre! piastre! e da lontano si vede l’incendio di Casalduni, come se l’orizzonte dell’esterminazione non dovesse avere limite
Su quelle ed altre efferatezze, un alto magistrato, Pietro Calà d’Ulloa, già consigliere della Corte suprema di Napoli, poi a Gaeta e a Roma con Francesco II, avrebbe cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica europea, chiosando un lungo elenco di abusi con un richiamo alle vecchie e nuove pratiche coloniali: «non facevan le stesse cose gli inglesi in India, i francesi in Algeria, non avevano agito con la medesima accortezza gli spagnoli nel Messico e nel Perù contro i barbari.”
Cordialmente
FDV
- S.
Ci avete fatto caso? Melegari ha l’ordine di massacrare degli inermi mentre stava al San Carlo, dove poi ritorna subito dopo, come se niente fosse. Eppure qualcuno mi accusa di delirare, quando sostengo che certi personaggi hanno profanato la nostra Terra e i monumenti a loro dedicati, e continuano a farlo !!!
Per completezza di informazione, segnaliamo il libro a cui si fa riferimento:
Ferdinando Melchiorre Pulzella – “Storia dei fatti di Pontelandolfo” un testo che non conosciamo ma non crediamo sia in grado di smentire ciò che diverse fonti considerano ormai una verità acclarata: il massacro ci fu. E quello dei Piemontesi venne fatto in nome della libertà! |
fonte
https://www.eleaml.org/sud/briganti/polibio_redivivo.html