Quel maestro di doppiezza che unì Napoli all’Italia
Liborio Romano usò anche la camorra per aiutare Garibaldi
Il suo giorno di gloria don Liborio Romano, protagonista quasi sconosciuto dell’Unità d’Italia, lo ebbe il 7 settembre 1860, a Napoli, seduto in carrozza alla destra di Garibaldi che entrava trionfalmente nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Egli stesso, nelle memorie, così ricorderà l’episodio: «E Garibaldi, spettacolo sublime ed indescrivibile, entrava in Napoli, solo inerme e senza alcun sospetto; tranquillo come se tornasse a casa sua, modesto come se nulla avesse fatto per giungervi! ». Eppure quel momento di gloria, sarebbe stata anche la sua dannazione. E lo avrebbe inchiodato, più o meno giustamente, all’ immagine del voltagabbana.
Nato a Patù, un paesino che non contava neppure mille abitanti, nei pressi del capo di Santa Maria di Leuca, Romano era il frutto di una contraddizione clamorosa: dopo un apprendistato politico nelle sette anti- borboniche, era stato nominato poche settimane prima, da Francesco II, ministro degli Interni. Una nomina decisa il 14 luglio 1860, quando Garibaldi, sbarcato a Marsala l’11 maggio, occupava già una parte considerevole del regno delle Due Sicilie. E voluta dal re di Napoli, presumibilmente, per lanciare un segnale estremo di svolta riformatrice.
Era stata molto difficile la vita di Liborio Romano. Figlio di famiglia che vantava la discendenza da un ramo dei Romanov, nel Regno di Napoli egli si fece la reputazione di avvocato «principe». Aveva avuto perfino l’ardire di difendere interessi vicini alla corte britannica contro i Borbone, costringendo il sovrano napoletano a un compromesso oneroso. Per le sue idee liberali, Romano aveva patito molti anni di prigione, e poi di esilio in Francia. Rientrato in patria, venne tenuto sotto vigilanza. Ma riuscì ugualmente a portare avanti l’attività forense. A corte, di lui, si guardava sempre con preoccupazione al grande ascendente sul popolo.
Francesco II salì giovane al trono. Mentre il Regno di Napoli si avviava allo sfacelo, egli attuò una mossa ardita, nominando (14 luglio 1860) ministro di polizia proprio Romano. Il disegno del re sarebbe stato quello di schierare un oppositore dalla propria parte.
Un aspetto importante della sua capacità politica, Romano lo mostrò da ministro borbonico. Prima di tutto nei rapporti col popolo, mediante l’attenzione quotidiana agli umori della gente e la comunicazione diretta. Fece affiggere continuamente dei manifesti che davano conto delle attività del ministero. Questo per le esigenze istituzionali. Al tempo stesso dette sfogo alla doppiezza politica che lo caratterizzava. Da ministro borbonico, condusse infatti un gioco politico tutto suo, operando su tre fronti diversi. Mentre serviva Francesco II, si tenne in segreta corrispondenza con Cavour; al tempo stesso volle mettersi in rapporti anche con Garibaldi. Vincendo le fondate resistenze del sovrano, era riuscito a fare installare nel proprio gabinetto un’apparecchiatura telegrafica, e proprio di questa si servì per i suoi contatti segreti.
Mentre Garibaldi avanzava, Cavour in una lettera dette atto al ministro borbonico «del suo illuminato e forte patriottismo» e della sua «devozione alla causa» nazionale italiana. Roba da mandare don Liborio davanti alla corte marziale; ma anche titolo di gloria nel processo unitario. In quel gioco, Romano riuscì a salvare la testa; ma vedremo che non potrà invece far valere i suoi meriti patriottici.
Sotto Francesco II, il ministero di Romano durò molto poco, eppure realizzò passi avanti nel regime delle prigioni. Poiché ebbe il problema di una forza pubblica insufficiente a fronteggiare la malavita, col consenso del re assunse perfino qualche camorrista a rinforzare la polizia.
Cavour intanto fece clandestinamente arrivare a don Liborio un carico di fucili, affinché fossero utilizzati per la conquista di Napoli; per sbarcare quelle armi, servirono i camorristi che il ministro aveva assunto. Ma tutta questa disinvoltura, al nostro sarà fatta pagare nella futura attività politica e perfino nella postuma reputazione.
Per realizzare la conquista di Napoli, il nostro non volle però utilizzare i fucili di Cavour, ma scelse un’occupazione pacifica con l’ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli (7 settembre 1860) e la camorra in funzione di ordine pubblico. Anche questa operazione, descritta dallo stesso Romano nelle memorie, venne utilizzata per spezzargli la carriera nel Regno d’Italia. A lui non servì neppure l’elezione alla Camera dei Deputati, ottenuta in ben nove collegi (1861), né la rielezione (1865).
Due possono considerarsi i meriti di Liborio Romano. Il primo, lo abbiamo visto, quello di avere reso possibile la conquista del Regno di Napoli senza spargimento di sangue. Il secondo, quello di avere indicato a Cavour, con un lungo memoriale, le caratteristiche peculiari e i problemi gravi dell’Italia meridionale. Egli avvertì che, se di quelle cose non si fosse tenuto conto per tempo, sarebbero sorti problemi molto gravi. Soltanto poco prima di morire, Cavour gli concesse un’udienza. L’artefice dell’unità d’Italia dovette sentirsi spiegare da un politico di provincia, che per di più veniva da un regno conquistato, che non sarebbe stato né giusto né opportuno ignorare i problemi del Mezzogiorno. Almeno questo lo si sarebbe dovuto ricordare come un punto importante della visione politica del nostro. A proposito della fiducia riposta in Cavour, Liborio Romano scrisse: «fatale illusione, inescusabile e tanto più grave errore», quello di avere creduto «di poter continuare a servire il Paese, attuando un indirizzo governativo di conciliazione e di concordia».
Cavour morì il 6 giugno 1861. Ma a Romano non daranno ascolto neppure i suoi successori. Egli ebbe una presenza assidua al parlamento unitario; ma non si può dire che essa sia stata incisiva. Commise, il nostro, un peccato imperdonabile, quando per stizza rese pubblici gli arricchimenti illeciti che si erano realizzati dopo l’Unità intorno alla liquidazione del debito pubblico borbonico. La visione costruttiva e ampia dei problemi del Mezzogiorno che egli aveva illustrato a Cavour, continuò invece a caratterizzare la sua azione parlamentare.
Romano non aveva attitudine per le alchimie politiche e neppure per le semplici mediazioni. Soprattutto non seppe capire la necessità, affinché le sue analisi fossero almeno conosciute, di inserirsi in uno schieramento politico. Ebbe l’incapacità di capire le posizioni diverse dalle sue, sognando un ruolo di leader indiscusso, che non poteva essergli consentito.
I suoi critici non vollero mai affrontare in modo spregiudicato il problema della doppiezza di Romano. La doppiezza è stata studiata, talvolta giustificata, soltanto con riferimento ai personaggi che raggiunsero vette molto elevate. Non fu il caso dell’ex ministro borbonico. Condannato, e perciò espunto: questo successe a Liborio Romano. Grande fu invece la complessità della sua figura politica: disconoscerlo, non è stato né giusto né utile. L’averlo cancellato ha avuto la conseguenza di negare alla conoscenza una parte importante della storia nazionale.
Nel Parlamento italiano Romano fu isolato; nei suoi interventi dovette perciò ripiegare su questioni sempre più secondarie. Se ne tornò in quel paesetto nel quale era nato, e vi morì. Dimenticato in Italia, in Francia invece ha ottenuto l’attenzione di un’intera colonna sulla grande enciclopedia Larousse.
professore di Storia all’Università di Bari e all’Università danese di Roskilde, autore de «L’inventore del trasformismo» dedicato a Liborio Romano
Nico Perrone
fonte
http://www.corriere.it/cultura/speciali/2010/visioni-d-italia/notizie/29-il-salento-perrone-liborio-romano-garibaldi_373f7f88-d151-11df-b040-00144f02aabc.shtml
segnalato da
Domenico Tagliente