Regno delle Due Sicilie: storia di un sovranismo negato
La retorica riguardante il Risorgimento italiano dimentica di riportare le ingerenze con cui gli inglesi perseguirono i propri interessi di politica estera a discapito della sovranità del regno di Ferdinando II. Alcuni saggi di notevole valore storiografico fanno luce su vicende colpevolmente tralasciate.
Dopo un secolo di storiografia scolastica e retorica celebrazionistica, che hanno perpetuato l’immagine del Risorgimento, dell’impresa dei Mille e della conquista del Sud quale mito fondativo della nazione italiana, momento di riscossa patriottica e popolare – non facendosi mancare talvolta evidenti mistificazioni a scopo legittimista – hanno preso piede dagli anni ’90 correnti neoborboniche con coloriture ideologiche, e talvolta deformazioni, altrettanto mendaci. Negli ultimi due decenni in particolare, è venuto in soccorso un piccolo numero di pubblicazioni che gettano luce e fanno chiarezza riguardo un mito ancora oggi difficilmente scalfibile, ma che andrebbe necessariamente ridimensionato, se non riscritto secondo tutt’altre prospettive, per una ricostruzione precisa e, per quanto scomoda,attendibile.
Merita di essere menzionato il recente studio del professore romano Eugenio Di Rienzo, raccolto nel suo “Il Regno delle due Sicilie e le potenze europee”, una
ricerca meticolosa svolta negli archivi europei che contestualizza la politica, invisa alle grandi potenze, dei Borbone negli anni immediatamente precedenti all’unità e che ricondurrebbe la campagna di conquista del Sud addirittura a un momento dell’imperialismo britannico, oltre a darci delle indicazioni per riflettere sui risvolti delle odierne politiche europee. Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire qual era la situazione del Sud Italia negli anni antecedenti alla sua fine.
Lo storico torinese Gianni Oliva, nel suo “Un regno che è stato grande”, tratteggia il profilo storico del Sud al tempo di Ferdinando II:
In opposizione ad una storiografia post-risorgimentale che ha descritto il Sud borbonico irrimediabilmente statico ed incapace di percorrere la via del progresso, si può affermare che il periodo 1830-48, pur con alcuni limiti, sia stata una stagione positiva di rinnovamento, in cui Ferdinando II, attento a mantenere il bilancio in pareggio e a non pesare in maniera eccessiva sui cittadini attraverso il prelievo fiscale, si fa promotore di molte iniziative (le varie linee ferroviarie dopo la Napoli-Portici, l’erezione di ponti, la bonifica di paludi, costruzione di bastimenti mercantili, investimento nei porti, costruzione di strade, le fabbriche di lana ed in misura minore di metalmeccanica.
L’eminente ricerca del professor Di Rienzo esordisce con una premessa rilevante: quella di non voler creare una “storia affettuosa” del regno borbonico e di non portare acqua al mulino di quell’anti-Risorgimento vecchio e nuovo, con fuorvianti clamori e semplicismi, ma che bisogna tuttavia constatare come la più importante potenza sullo scacchiere mediterraneo, e cioè la Gran Bretagna, abbia sancito la fine delle velleità autonomistiche di un piccolo stato della penisola, giustificando una delle prime e più gravi violazioni del diritto pubblico europeo della storia contemporanea.
La relazioni internazionali della Gran Bretagna di epoca vittoriana erano guidate dalla tenace politica estera del ministero Palmerston, tutta tesa a salvaguardare, con metodi leciti e non, gli interessi economici nazionali, tanto da dichiarare che “le amicizie e le ostilità nella politica internazionale non dipendevano dai principi, ma dall’utilità che avrebbero per la Gran Bretagna ed il rafforzamento del suo potere”. L’importanza che rivestivano l’Italia, la Grecia e il regno ottomano nell’ottica delle rotte marine della British Navy le avrebbero poste, in questo contesto di spregiudicatezza, in una condizione di crucialmente delicata. In particolare la Sicilia, sicuro bastione e base logistica di estrema importanza per far fronte all’avanzamento della Russia e per il controllo dello stretto e del canale di Suez.
Primo campanello d’allarme, in questo contesto, è la paradigmatica questione dell’Isola Ferdinandea: un isolotto di 4 km emerso per soli sei mesi a seguito di un’esplosione subacquea. Il Regno Unito e lo Stato borbonico si contesero l’isola. Il primo, infatti, inviò una corvetta e issò la Union Jack sull’isola, atto che venne considerato una violazione del diritto internazionale da parte di Ferdinando II, strenuo difensore della propria sovranità, dato che la terra si trovava chiaramente in acque borboniche. Nettuno pose fine direttamente al grottesco dissidio facendo sprofondare di nuovo l’isola nei fondali marini.
Ma la vera scintilla che avrebbe portato all’insanabile attrito tra le due potenze emerse con un episodio che la storiografia anglosassone tramanda come Sulphur War. A inizio ‘800, grazie a vantaggiosi atti commerciali derivanti da una posizione subordinata del Sud Italia nei confronti della Gran Bretagna, che aveva tenuto in custodia il piccolo regno durante gli anni napoleonici, i britannici avevano instaurato in Sicilia un’egemonia in virtù della quale commerciavano con bassi dazi d’importazione, e soprattutto avevano il monopolio sull’estrazione dello zolfo.
Lo zolfo aveva all’epoca quasi l’attuale valore del petrolio o dell’uranio, in quanto essenziale per la produzione della polvere da sparo, e la Sicilia ne offriva il 90% della richiesta mondiale. Le condizioni svantaggiose per il regno, con cui il monopolio inglese teneva soggiogati gli operai siciliani e sulle cui spalle fondava la propria ricchezza, spinsero Ferdinando II ad assegnare il monopolio dello zolfo a un’impresa francese di nome Taix-Aycard, violando il trattato del 1816.
L’Inghilterra reagì a dir poco energicamente, spingendosi verso l’inizio di un conflitto: vennero inviate navi britanniche battenti bandiere napoletane e austriache ad assaltare la marina borbonica, e la flotta inglese nel golfo di Napoli bloccò l’entrata e l’uscita dai porti. Il conflitto venne sventato anche grazie alla diplomazia delle altre corti europee e Ferdinando II fu costretto a firmare un trattato che riportava lo status quo ante, che mise da parte la questione ma che aprì una ferita ormai irricucibile, mostrando quanto la sovranità del regno borbonico fosse condannata a orbitare secondo i progetti delle potenze europee, e soprattutto della “Perfida Albione”.
Da quel momento stampa e letterati da Londra e Torino fecero partire la macchina del fango e la strumentalizzazione dell’opinione pubblica, dipingendo FerdinandoII come la personificazione del diavolo e il peggior tiranno d’Italia. Lord Gladstone pubblicò un presunto rapporto sulle carceri borboniche e sul trattamento deiprigionieri con una certa enfasi e non poche esagerazioni, salvo poi ammettere di averlo scritto senza averne mai visitata una. Il primo ministro Palmerston finanziò, attraverso il Tesoro britannico, una spedizione per liberare Luigi Settembrini, Silvio Spaventa e Filippo Agresti, intellettuali anti-borbonici in carcere a Santo Stefano. Quel tentativo dimostrò quale fosse il rispetto di Londra per la sovranità degli altri Stati e come, in assenza di reali giustificazioni, per agire si servisse di motivazioni completamente strumentali, tutte concentrate sulla critica della politica interna delle Due Sicilie.
Marx d’altronde descrisse il popolo inglese come totalmente all’oscuro della politica estera attuata dal proprio Paese, poichè amministrato dall’aristocrazia, mentre la stampa pensava al posto della gente. Palmerstone utilizzó coscientemente la stampa nella convinzione che l’opinione pubblica potesse dominare perfino la volontà di sovrani autocratici.
L’epoca di Ferdinando II puó essere considerata essenzialmente una fase di sovranismo ante litteram. Il sovrano borbonico era tutto teso, in contrasto con la docilità e la sottomissione dei suoi predecessori, a difendere l’indipendenza del proprio regno, rifuggendo il sostegno delle potenze europee. Una politica che si riassume nel suo motto “amico con tutti e nemico di nessuno”, insegnato al figlio Francesco sin dalla sua giovinezza, affinché anche il suo successore non si facesse mai coinvolgere in questioni al di fuori dei suoi confini. Una filosofia che si sarebbe resa reale attraverso il mancato appoggio alla Guerra di Crimea nel 1853 e il conseguente divieto all’asse anglo-francese di utilizzare il porto di Brindisi. Come ci riferisce Gianni Oliva, Ferdinando II aveva ereditato dalla tradizione familiare una concezione assolutista del potere, che lo portò ad attivare una politica economica finalizzata alla crescita della classe media ma non concedendole alcuna
possibilità di partecipazione politica. Si trovò di fatto a dover difendere un ruolo dinastico ormai assediato dalla storia. Appare evidente, in quest’ottica, quanto
scomoda potesse apparire una simile autorità politica agli occhi dell’imperialismo britannico e di Lord Palmerston.
La rivoluzione siciliana del 1848 non fu né casuale né spontanea: fu foraggiata dagli inglesi stessi che offrirono la loro protezione ai latifondisti siciliani,
rifornendoli di armi e munizioni, con l’obiettivo dichiarato di collocare la regione in una situazione di stretta dipendenza politica analoga a quella in cui si trovava il Portogallo. È da questo momento, dopo la repressione dell’assedio di Messina, che la stampa inglese cominciò a rivolgersi a Ferdinando II, con tono canzonatorio e diffamatorio, con il titolo di “Re Bomba”.
Anche il fallimento dell’impresa di Carlo Pisacane del 1857, che grazie anche all’ostilità del popolo meridionale si concluse con la cattura, da parte delle navi da guerra napoletane, del piroscafo Cagliari e dell’equipaggio. I macchinisti erano tra l’altro inglesi e la loro liberazione venne reclamata dal governo britannico insieme a un adeguato indennizzo economico che li risarcisse dell’“ingiusta detenzione”. Il miserabile fallimento portò comunque alla luce il fatto che, senza un’efficace destabilizzazione del Regno delle Due Sicilie, non ci sarebbero state possibilità di vittoria. Questa destabilizzazione sarebbe dovuta arrivare attraverso la sistematica corruzione di civili e di vertici militari.
Il Regno Unito si sentiva autorizzato a servirsi della spada e dell’intuito del grande bucaniere Giuseppe Garibaldi contro i suoi nemici, come nel passato aveva utilizzato Drake e Raleigh, che gli spagnoli giustamente chiamarono pirati. La vittoria dei Mille fu possibile attraverso la corruzione delle truppe borboniche: gli enormi denari delle corruttele vennero raccolti dalle logge dei frammassoni inglesi, cambiati poi in piastre turche, una sorta di euro del Mediteranneo ottocentesco.
L’ammiraglio Pesano avrebbe poi riconosciuto come il collasso del regime borbonico fosse stato in massima parte dovuto all’ammutinamento delle sue élite, al quale era rimasta estranea la maggior parte degli abitanti del Regno, chiamati poi a esprimere la propria adesione al dominio di Casa Savoia in plebisciti-farsa in cui votarono “analfabeti scemi e non galantuomini”.
Emerge dunque un Risorgimento per nulla simile a una rivoluzione nazionale o a decisioni condivise dalla maggioranza della popolazione. In occasione di una visita al ministro Palmerstone a Londra nel 1861, Garibaldi avrebbe riferito che:
Senza il vostro aiuto non avremmo deposto il Borbone… anzi io non sarei neppure riuscito a passare lo stretto di Messina.
D’altronde a Napoli Garibaldi aveva già dimostrato la propria gratitudine dando subito il consenso alla costruzione della cappella anglicana, mai concessa
precedentemente dai Borbone. A discapito di un’epopea molto più romanzata che analizzata, trasmessa e cementata dalla pomposa retorica nazionale post-unitaria, risulta evidente che ci troviamo davanti all’eliminazione di autorità statali ostili e all’insediamento di regimi collaborazionisti, che ben poco hanno di romantico e del leitmotiv della lotta in nome di principi morali o fini superiori.
La storia può dimostrare a noi contemporanei, come sosteneva l’economista Galiani, che il carattere di sovranità indipendente degli Stati – come quello in cui si troverebbero gli uomini viventi sulla terra – rimane solo sulla carta e che, nella realtà dei fatti, la legge del più forte obbliga sempre un piccolo-medio stato all’obbligo forzoso di diventare ausiliario della grande potenza di turno, che maschera quell’atto di prepotenza adducendo i doveri di una gratitudine obbligatoria derivante dalla passata “beneficenza”. L’Italia avrebbe poi ereditato quella debolezza geopolitica che aveva accelerato, se non addirittura provocato, la fine del Regno delle Due Sicilie. Un destino che si è compiuto sul nostro Paese arrivando fino ai giorni nostri.
di Christian Bonaventura – 21 Novembre 2019