Renato Cirelli, La Questione Romana
In senso proprio, di Questione Romana si inizia a parlare quando al conflitto fra potere temporale della Chiesa e Rivoluzione italiana viene posto definitivamente termine da parte del neonato Regno d’Italia con la breccia di Porta Pia del 1870. Soluzione unilaterale e brutale, che violava in maniera clamorosa i diritti della Santa Sede, essa creava uno strappo enorme nelle relazioni fra Stato e Chiesa.
La storia della Questione Romana è la storia dei tentativi fatti dal governo italiano — in un contesto internazionale tutt’altro che neutro e disinteressato — per sanare giuridicamente tale lacerazione, cosa cui si arriverà soltanto nel 1929, con i trattati lateranensi.
Ma Porta Pia è soltanto l’ultimo atto di una vicenda che si apre ai tempi delle repubbliche giacobine e del dominio napoleonico in Italia e che conosce la sua fase cruciale negli anni 1859-1870, quando la base territoriale del potere temporale della Chiesa viene, per tappe successive, soppressa.
Questa prima fase della Questione Romana è il tema de La Questione Romana. Il compimento dell’unificazione che ha diviso l’Italia, ricerca di Renato Cirelli intesa a offrire una prima introduzione al problema e una serie di indicazioni per chi intenda approfondirlo.
L’autore, nato a Ferrara il 26 ottobre 1948, milita in Alleanza Cattolica dalla metà degli anni 1970 e coltiva la storia moderna e contemporanea, di cui scrive in Cristianità e sul Secolo d’Italia; ha inoltre collaborato al volume Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte» (Cristianità, Piacenza 1997).
Lo studio — articolato in diciotto brevi capitoli (pp. 19-104) e in una conclusione (pp. 105-110) — prende le mosse dagli anni 1859-1861, nei quali si compie l’unità della Penisola sotto la dinastia sabauda, unità ottenuta a prezzo di un primo decisivo attentato al principio e alla realtà della sovranità temporale del Papa conquistando militarmente e incorporando nel Regno d’Italia le Legazioni emiliano-romagnole, le Marche e l’Umbria (pp. 19-26).
Nel 1860 (pp. 27-29), come risposta alle occupazioni dell’anno precedente, Papa Pio IX commina la scomunica al sovrano sabaudo. Il Pontefice — sottolinea Cirelli — è ben consapevole «[…] di non avere davanti a sé un semplice progetto politico diverso dal proprio, ma, al contrario, un progetto filosofico, etico, religioso e solo successivamente politico radicalmente nemico del cattolicesimo» (p. 27), che si era già palesato nella vicenda della Repubblica Romana del 1849 e nella legislazione laicistica del Regno di Sardegna negli anni 1850. Con questo intervento, il Pontefice inizia a porre pubblicamente il problema e a indicarne la radice in un terreno eminentemente religioso: come può la Sede Apostolica avere garantita l’autonomia necessaria alla sua missione universale se viene privata di una base temporale e istituzionale?
Al problema della libertà della Sede Apostolica si sovrappone il problema altrettanto grave della libertà della Chiesa in Italia, cui viene in quegli anni gradualmente estesa la legislazione laicistica già in vigore nel regno sabaudo, provocando reazioni da parte delle popolazioni, tanto più violente quanto più si scendeva verso il Meridione della Penisola. Il neonato potere liberale, conscio di governare su una base elettorale percentualmente irrisoria un paese totalmente cattolico, inizia a porsi il problema del consenso popolare e a considerare aperture verso la Chiesa.
Prende così corpo, alla fine del 1860, una prima missione, guidata da parte italiana da don Carlo Pazzaglia e da Diomede Pantaleoni (pp. 33-39). Il Regno d’Italia intende ottenere dal Papa — che ha delegato ai colloqui i cardinali Girolamo D’Andrea e Vincenzo Santucci — l’abbandono totale e definitivo della sovranità statale, nonché l’assenso a una radicale ristrutturazione della Chiesa italiana; in cambio, propone notevoli concessioni economiche, concede uno status giuridico particolare al Magistero papale e afferma la sua non ingerenza nella vita ecclesiastica. Le trattative tuttavia si arenano dopo poco tempo e la missione s’interrompe nel marzo del 1861. Perdurando infatti un clima civile nel quale le violenze anticattoliche e la dura politica laicistica imperversavano senza tregua, il Vaticano formula legittimi dubbi sulla reale volontà conciliatoria del governo italiano, presieduto ancora per pochi mesi dal conte Camillo Benso di Cavour.
Ma, parallelamente alla missione Pazzaglia-Pantaleoni, una trattativa segreta — sembra, impostata a una minore intransigenza da entrambe le parti — viene condotta direttamente da Cavour e dal cardinale segretario di Stato Giacomo Antonelli. Una bozza di dispositivo in tredici articoli prevedeva «[…] l’abolizione di tutta la legislazione anticattolica, la salvaguardia economica della Chiesa italiana e l’entrata in Senato di diritto dei cardinali italiani, […] il riconoscimento dell’alta sovranità del Papa sui territori dell’ ex-Stato Pontificio con la cessione dei poteri civili e militari al Re d’Italia costituito vicario del Papa. Il re d’ Italia viene incoronato dal Papa e promosso generalissimo delle guardie nobili papaline» (p. 36). La morte improvvisa di Cavour interrompe però anche questo canale segreto con il quale la Santa Sede si prefiggeva forse — per così dire — di «deiacobinizzare» la Rivoluzione italiana per potere poi benedire il nuovo regno.
La Convenzione di Parigi del 15 settembre 1864 (pp. 41-43) fra governo italiano e Impero francese — che prevede l’abbandono di Roma da parte delle truppe francesi a difesa della Santa Sede dal 1849 —«[…] si rivela — a giudizio dell’autore — un equivoco gioco delle parti. L’Italia la sottoscrive con riserva mentale poiché nessun esponente politico italiano si pone il problema di rinunciare a Roma, ma vuole solo prendere tempo in attesa di congiunture più favorevoli all’ annessione. Napoleone III accetta la Convenzione con spirito machiavellico, nell’intento di sottrarsi a una situazione imbarazzante […]» (p. 43). Il Papa viene tenuto all’oscuro di tutto, mentre i cattolici francesi insorgono vedendolo completamente abbandonato ai suoi avversari.
In questo frangente, l’8 dicembre 1864, viene pubblicata l’enciclica Quanta cura con l’annesso Sillabo degli errori moderni (pp. 45-48). La massima istanza del cattolicesimo ribadisce la sua condanna delle dottrine della modernità religiosa e filosofica — il che non significa opporsi al portato delle scienze moderne, ma alla matrice gnostica della Rivoluzione — e descrive il quadro che sta alla base del progetto laicista e anti-temporalista del Risorgimento italiano. Il documento provoca reazioni feroci nel mondo ufficiale e negli ambienti anticlericali italiani e lo scontro fra i due mondi raggiunge il suo apice.
Ciononostante (pp. 49-52) matura un altro tentativo di mediazione, particolarmente indirizzato a risolvere il problema delle sedi vescovili italiane vacanti o prive di pastore — centosettanta su duecentoventinove — in conseguenza del mancato exequatur da parte del Governo o di sanzioni legali, quali l’esilio o la carcerazione. Nata per iniziativa di don Giovanni Bosco, viene iniziata dal deputato Saverio Vegezzi e dall’avvocato Giovanni Maurizio una trattativa che coinvolge direttamente il re e il Papa. Essa termina con l’ottenimento del rientro in sede di trentasette presuli, ma s’ infrange contro l’intransigenza di influenti membri del Governo — in particolare di Quintino Sella —, più «realisti» del re stesso.
Alla fine dell’anno 1866 (pp. 53-55) i contatti vengono ripresi dal governo di Urbano Rattazzi attraverso il professor Michelangelo Tonello. Ma le impreviste dimissioni del primo ministro interrompono i colloqui. Le sconfitte patite nella guerra contro l’Austria — a Custoza e a Lissa —, d’altro canto, vedono il governo italiano propendere sempre più per una soluzione militare nei confronti dello Stato Pontificio, che rialzi il prestigio del Regno d’Italia.
Nel 1867, dopo che (pp. 59-63) l’apparato militare pontificio rafforzato riesce ad aver ragione del brigantaggio criminale che — talora come riflusso della seconda fase della guerriglia legittimistica del Meridione (pp. 65-67) — infestava alcune zone del Lazio, viene annunciata la prossima convocazione di un concilio generale in Vaticano. Viene anche attuata l’alienazione dei beni ecclesiastici, che inizia a provocare gravi conseguenze di carattere economico e sociale (pp. 69-71). Lo stesso anno si assiste a un primo tentativo delle formazioni repubblicane, mazziniane e garibaldine, d’invadere il Lazio. «Il piano di Garibaldi — scrive Cirelli — è quello di provocare una insurrezione popolare a Roma e nel Lazio, appoggiata al momento opportuno da un intervento di volontari guidati da lui stesso e organizzare infine un plebiscito che chieda, secondo lo schema già collaudato, l’annessione all’Italia, in modo da rendere giustificabile l’ intervento del regio Esercito» (p. 74). Mentre l’insurrezione, nonostante l’infiltrazione di numerosi guerriglieri in Roma stessa, non scoppia, i volontari garibaldini vengono affrontati dalle truppe pontificie del generale Hermann Kanzler e, dopo varie vicissitudini, davanti allo sbarco di ventimila francesi avvenuto a Civitavecchia, si ritirano e sono intercettati dai pontifici a Mentana, dove il 3 novembre 1867 subiscono una dura sconfitta.
Una ripresa di sondaggi da parte italiana (pp. 85-86) si ha nel 1868, con l’invio a Roma del conte bresciano Alessandro Fé d’Ostiani su incarico del governo di Luigi Federico Menabrea. Inaffti, «le trattative riprendono in settembre, ma quando il cardinale Antonelli fa capire che la Santa Sede è più interessata a risolvere una serie di problemi concreti piuttosto che discutere una proposta di modus vivendi, Menabrea decide di richiamare a Firenze Fé d’Ostiani, stupendo tutti per questa brusca interruzione dei colloqui» (p. 86).
Frattanto, la pressione dell’anticlericalismo (pp. 87-90) si fa parossistica al momento della condanna a morte, alla fine del 1868, dei due esecutori materiali di un grave attentato perpetrato l’anno precedente e, soprattutto, in coincidenza con l’apertura — l’8 dicembre 1869 — del Concilio Vaticano. Contemporaneamente, lo scoppio della guerra franco- prussiana — destinata a terminare con la sconfitta e con la caduta di Napoleone III Bonaparte — interrompe il Concilio. I rovesci francesi hanno come effetto la definitiva partenza da Roma dei francesi e il Papa resta così difeso solo dal suo piccolo esercito e dalle milizie internazionali degli zuavi e della legione di volontari francesi detta di Antibo. Davanti a chiari segnali della volontà italiana — venuto meno lo scudo francese all’indomani di Sedan — di occupare lo Stato della Chiesa (pp. 91-100), Papa Pio IX decide di non fuggire ma di subire l’occupazione, rifiutando di accettarla positivamente, come peraltro richiestogli in extremis dal governo italiano. Così, «l’11 settembre, il Governo italiano rompe gli indugi e le truppe, senza dichiarazione di guerra, forti di circa sessantacinquemila uomini, iniziano l’invasione dello Stato pontificio agli ordini del generale Raffaele Cadorna» (p. 93). Le colonne italiane giungono ben presto, dopo aver disperso sporadiche resistenze pontificie, sotto le mura di Roma. Il Papa, in una lettera al generale Kanzler, darà queste istruzioni ai suoi ultimi difensori: «In quanto poi alla durata della difesa, sono in dovere di ordinare che questa debba unicamente consistere in una protesta, atta a contestare la violenza e nulla più, cioè di aprire trattative per la resa ai primi colpi di cannone» (p. 96). Alle 10 e 30 del 20 settembre, dopo tre ore di cannoneggiamento — protratto dopo la resa —, i pontifici si arrendono e le truppe italiane entrano in Roma da Porta Pia. «Pio IX, il 1° novembre 1870, con l’ enciclica Respicientes ea dichiara non validi tutti gli atti che hanno portato alla spoliazione dei beni pontifici e commina la scomunica maggiore contro tutti i responsabili dell’usurpazione e i partecipanti all’ occupazione, specialmente quelli che l’hanno voluta e preparata» (p. 100). Lo Stato italiano, poi, il 13 maggio 1871 promulga unilateralmente la legge delle Guarentigie (pp. 101-104).
Con la conquista di Roma e la rottura fra Stato e Chiesa in Italia si apre una pagina di storia, densa di conseguenze per le sorti dell’Italia e del mondo cattolico — si pensi al non expedit, che vieta ai cattolici la lotta per il potere politico, la conseguente mancata formazione di una classe politica integralmente cattolica, il monopolio conquistato dai cattolico-democratici in campo politico —, che si chiuderà formalmente solo sessant’anni dopo.
Il testo — introdotto da Marco Invernizzi, che colloca il problema e lo studio su di esso in una prospettiva storica più ampia — è preceduto da un quadro dei principali avvenimenti degli anni 1859- 1870 (pp. 11-18) ed è completato da tre appendici, che riportano i principali documenti relativi alla vicenda — rispettivamente, la Convenzione di Settembre 1864 (pp. 111-112), la lettera di re Vittorio Emanuele II a Papa Pio IX e la risposta di questi, rispettivamente dell’8 e dell’11 settembre 1870 (pp. 113-116), e il testo della legge delle Guarentigie (pp. 117- 122) —, poi da schede sui protagonisti (pp. 123-134); sono quindi forniti orientamenti bibliografici per l’ approfondimento (pp. 135-140).
La semplicità del volume — non disgiunta dall’ampiezza dell’indagine e dalla sicura interpretazione dei fatti — ne fa lettura particolarmente raccomandabile per chi studia — gli «studenti» appunto sia delle scuole superiori che dell’università — e per chi dovrebbe studiare — gli uomini politici e i cittadini tutti —, in quanto sulla Questione Romana — così come su tutto il Risorgimento — corrono stereotipi ideologici che è bene correggere, se si vuol comprendere veramente la storia d’Italia e contribuire — ciascuno nel suo ruolo e nella misura delle sue capacità — a un’autentica restaurazione della politica.
Renato Cirelli, La Questione Romana. Il compimento dell’unificazione che ha diviso l’Italia, con una introduzione di Marco Invernizzi, Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1997, pp. 144, £. 15.000
Oscar Sanguinetti
fonte
alleanzacattolica.org
Un bel bousillis “libera Chiesa in libero Stato”!… col tempo la soluzione si trovo’…perché è chiaro che nessuno dei due poteva rinunciare a Roma, che fu caput mundi come eredità’ dell’impero romano, ma anche e forse per questo sede di Pietro, l’apostolo investito da Cristo come capo della cristianita’… decantandosi col tempo i contrasti, si trovo’ un modus vivendi regolamentato per garantire l’autonomia dei poteri, anche perché, al di la’ della libertà degli individui, non c’è dubbio che i rispettivi patrimoni arricchiscono l’intera penisola e sono attrattiva del mondo. caterina