RERUM NOVARUM LETTERA ENCICLICA DI S.S. LEONE XIII (parte quarta)
Casi particolari d’intervento
a) difesa della proprietà privata
30. Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari di maggiore importanza. Principalissimo è questo: i governi devono per mezzo di sagge leggi assicurare la proprietà privata. Oggi specialmente, in tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna che le popolazioni siano tenute a freno;
perché, se la giustizia consente a loro di adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la giustizia né il pubblico bene consentono che si rechi danno ad altri nella roba, e sotto colore di non so quale eguaglianza si invada l’altrui. Certo, la massima parte degli operai vorrebbe migliorare la propria condizione onestamente, senza far torto ad alcuni; tuttavia non sono pochi coloro i quali, imbevuti di massime false e smaniosi di novità, cercano ad ogni costo di eccitare tumulti e sospingere gli altri alla violenza. Intervenga dunque l’autorità dello Stato e, posto freno ai sobillatori, preservi i buoni operai dal pericolo della seduzione e i legittimi padroni da quello dello spogliamento.
b) difesa del lavoro
1) contro lo sciopero
31. Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A questo disordine grave e frequente occorre che ripari lo Stato, perché tali scioperi non recano danno solamente ai padroni e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui d’ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più efficace e salutare, si é prevenire il male con l’autorità delle leggi e impedire lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere il conflitto tra operai e padroni.
2) condizioni di lavoro
32. Molte cose parimenti lo Stato deve proteggere nell’operaio, e prima di tutto i beni dell’anima. La vita di quaggiù, benché buona e desiderabile, non è il fine per cui noi siamo stati creati, ma via e mezzo a perfezionare la vita dello spirito con la cognizione del vero e con la pratica del bene. Lo spirito è quello che porta scolpita in sé l’immagine e la somiglianza divina, ed in cui risiede quella superiorità in virtù della quale fu imposto all’uomo di signoreggiare le creature inferiori, e di far servire all’utilità sua le terre tutte ed i mari. Riempite la terra e rendetela a voi soggetta: signoreggiate i pesci del mare e gli uccelli dell’aria e tutti gli animali che si muovono sopra la terra (Gen 1,28). In questo tutti gli uomini sono uguali, né esistono differenze tra ricchi e poveri, padroni e servi, monarchi e sudditi, perché lo stesso è il Signore di tutti (Rom 10,12). A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all’acquisto della vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera elezione potrebbe l’uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura, ed accettare la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di diritti dei quali sia libero l’esercizio, bensì di doveri verso Dio assolutamente inviolabili. Di qui segue la necessità del riposo festivo. Sotto questo nome non s’intenda uno stare in ozio più a lungo, e molto meno una totale inazione quale si desidera da molti, fomite di vizi e occasione di spreco, ma un riposo consacrato dalla religione. Unito alla religione, il riposo toglie l’uomo ai lavori e alle faccende della vita ordinaria per richiamarlo al pensiero dei beni celesti e al culto dovuto alla Maestà divina. Questa è principalmente la natura, questo il fine del riposo festivo, che Iddio con legge speciale, prescrisse all’uomo nel Vecchio Testamento, dicendogli: Ricordati di santificare il giorno di sabato (Es 20,8) e che egli stesso insegnò di fatto, quando nel settimo giorno, creato l’uomo, si riposò dalle opere della creazione: Riposò nel giorno settimo da tutte le opere che aveva fatte (Gen 2,2).
33. Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima di tutto è dovere sottrarre il povero operaio all’inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna discrezione delle persone come fossero cose. Non è giusto né umano esigere dall’uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura, così l’attività dell’uomo è limitata e circoscritta entro confini ben stabiliti, oltre i quali non può andare. L’esercizio e l’uso l’affina, a condizione però che di quando in quando venga sospeso, per dar luogo al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino le forze. Il determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa complessione e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei minatori che estraggono dalla terra pietra, ferro, rame e altre materie nascoste nel sottosuolo, essendo più grave e nocivo alla salute, va compensato con una durata più breve. Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un’altra o del tutto insopportabile o tale che sí sopporta con difficoltà. Infine, un lavoro proporzionato all’uomo alto e robusto, non é ragionevole che s’imponga a una donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli nelle officine prima che l’età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano simili all’erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così, certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per í lavori domestici, í quali grandemente proteggono l’onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l’educazione dei figli e il benessere della casa. In generale si tenga questa regola, che la quantità del riposo necessario all’operaio deve essere proporzionata alla quantità delle forze consumate nel lavoro, perché le forze consumate con l’uso debbono venire riparate col riposo. In ogni convenzione stipulata tra padroni e operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa dell’uno e dell’altro riposo; un patto contrario sarebbe immorale, non essendo lecito a nessuno chiedere o permettere la violazione dei doveri che lo stringono a Dio e a sé stesso.
3) la questione del salario
34. Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga l’intera mercede o l’operaio non presta tutta l’opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l’intervento dello Stato. A questo ragionamento, un giusto estimatore delle cose non può consentire né facilmente né in tutto; perché esso non guarda la cosa sotto ogni aspetto; vi mancano alcune considerazioni di grande importanza. Il lavoro è l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione: Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte (Gen 3,19). Ha dunque il lavoro dell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura. Ora, se si guarda solo l’aspetto della personalità, non v’è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente sí riducono al salario del proprio lavoro. L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale si intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla necessità o per timore di peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta. Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono l’orario di lavoro, le cautele da prendere, per garantire nelle officine la vita dell’operaio, affinché l’autorità non s’ingerisca indebitamente, specie in tanta varietà di cose, di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservare la decisione ai collegi di cui parleremo più avanti, o usare altri mezzi che salvino, secondo giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed appoggio.
c) educazione al risparmio
35. Quando l’operaio riceve un salario sufficiente a mantenere sé stesso e la sua famiglia in una certa quale agiatezza, se egli è saggio, penserà naturalmente a risparmiare e, assecondando l’impulso della stessa natura, farà in modo che sopravanzi alle spese una parte da impiegare nell’acquisto di qualche piccola proprietà. Poiché abbiamo dimostrato che l’inviolabilità del diritto di proprietà è indispensabile per la soluzione pratica ed efficace della questione operaia. Pertanto le leggi devono favorire questo diritto, e fare in modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari. Da qui risulterebbero grandi vantaggi, e in primo luogo una più equa ripartizione della ricchezza nazionale. La rivoluzione ha prodotto la divisione della società come in due caste, tra le quali ha scavato un abisso. Da una parte una fazione strapotente perché straricca, la quale, avendo in mano ogni sorta di produzione e commercio, sfrutta per sé tutte le sorgenti della ricchezza, ed esercita pure nell’andamento dello Stato una grande influenza. Dall’altra una moltitudine misera e debole, dall’animo esacerbato e pronto sempre a tumulti. Ora, se in questa moltitudine s’incoraggia l’industria con la speranza di poter acquistare stabili proprietà, una classe verrà avvicinandosi poco a poco all’altra, togliendo l’immensa distanza tra la somma povertà e la somma ricchezza. Oltre a ciò, dalla terra si ricaverà abbondanza di prodotti molto maggiore. Quando gli uomini sanno di lavorare in proprio, faticano con più alacrità e ardore, anzi si affezionano al campo coltivato di propria mano, da cui attendono, per sé e per la famiglia, non solo gli alimenti ma una certa agiatezza. Ed è facile capire come questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere la produzione del suolo e la ricchezza della nazione. Ne seguirà un terzo vantaggio, cioè l’attaccamento al luogo natio; infatti non si cambierebbe la patria con un paese straniero, se quella desse di che vivere agiatamente ai suoi figli. Si avverta peraltro che tali vantaggi dipendono da questa condizione, che la privata proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della proprietà privata deriva non da una legge umana ma da quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso e armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte.
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