Alta Terra di Lavoro

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RISORGIMENTO ITALIANO E DIALETTICA STORICA IN GRAMSCI

Posted by on Dic 19, 2020

RISORGIMENTO ITALIANO E DIALETTICA STORICA IN GRAMSCI

1.La Chiesa e gli intellettuali nella storia d’Italia. – Le note su Machiavelli sono, in Gramsci, un esempio alto di riflessione teorico-politica e contengono un audace sguardo retrospettivo sulla storia d’Italia per rintracciare le radici di ritardi e debolezze che si prolungarono nellíItalia del periodo risorgimentale e nei problemi sociali e politici ancora irrisolti al tempo di Gramsci.

La formazione dell’Italia moderna, egli scrive nei Quaderni del carcere – non ha ricevuto impulsi adeguati né dalla Riforma protestante né dalla Rivoluzione francese. Con il loro “cosmopolitismo”, mutuato dalla Chiesa cattolica, gli intellettuali italiani hanno anticipato alcuni sviluppi progressivi dell’Europa moderna ma hanno anche coltivato, in germe, alcuni mali protrattisi fino al Risorgimento e oltre. L’umanesimo o il rinascimento italiani assumono spesso, nei Quaderni il valore emblematico di una intellettualità di tipo “tradizionale” quasi alla maniera del clero, ossia distaccata, disimpegnata e aliena dalle urgenze pratiche di quella mondanità che pure lo stesso umanesimo aveva saputo scoprire, o riscoprire. La controriforma o riforma cattolica, dal canto suo, non ha prefigurato nessun moto progressivo nel nostro o in altri paesi e ha portato con sé un’aggravata corruzione della vita morale, specie per la presenza pervasiva dello spirito gesuitico (in ciò Gramsci recepisce i giudizi dell’idealismo di ispirazione democratica che si ritrovano nella storiografia civile e letteraria di Francesco De Sanctis). Dopo il Concilio di Trento, il cattolicesimo fu più accomodante nei confronti dei popolani, tollerando un certo loro paganesimo misto a superstizione (che Gramsci vorrebbe fosse più manifestamente un tema, tra gli altri, negli studi sul folklore); ma fu ben più vigilante nei confronti degli intellettuali, i quali rischiavano invece di essere accusati di eresia, se non si mostravano indottrinati e passivamente allineati come i tempi (e le gerarchie cattoliche) esigevano. Anche quando apparivano più attivamente coinvolti nelle vicende del loro Paese, gli intellettuali italiani, con la loro storia e con la loro “boria” (derivate, dicevamo, dall’umanesimo letterario e dall’ipocrisia o dal lassismo controriformistici), erano soliti concepire “se stessi come gli arbitri e i mediatori delle lotte politiche reali”. Essi si agitavano, in tal caso, come “mosche cocchiere”, mentre altri erano effettivamente i maggiori protagonisti dei processi reali, ad esempio quando, nel XIX secolo, le forze economiche urbane del nord cercavano di far comprendere ai ceti urbani meridionali (peraltro largamente soverchiati dagli agrari locali) che, per poter dirigere in qualche modo le masse contadine, dovevano accettare di essere a loro volta diretti da quelle stesse forze settentrionali. Gramsci, infine, contrappone all’intellettuale di tipo tradizionale gli intellettuali “organici” che cominciano ad operare realmente, nei processi e tra le forze reali, come una componente dellíazione propriamente politica affidata soprattutto all'”intellettuale collettivo” ovvero al partito quale si configura nel Novecento, quando prendono forma più consistente le lotte del lavoro.

2. Cattolici, moderati e “giacobini” nell’Italia del Risorgimento. – Anche il processo tardivo di unificazione nazionale e, dopo, il permanere di spinte centrifughe verso i particolarismi locali e verso interessi corporativi tradizionali sono in parte riconducibili al ruolo della Chiesa cattolica nel nostro paese. È vero che il peso di taluni gruppi (o corpi) separati, come i quadri piemontesi dell’esercito, il nerbo (o la massa) meridionale dei burocrati, dei funzionari o degli impiegati statali, non può essere disgiunto da quello che, di fronte all’unità statale, conservavano alcuni fattori pre-unitari. Ed è vero che l’assorbimento di intellettuali meridionali nella burocrazia fu diretto anche a decapitare i contadini (le cui sommosse caotiche divennero pertanto affare di polizia). Ma anche il clero, dopo l’unità d’Italia, non apparve talvolta una sorta di Stato nello Stato, se diamo ascolto al Gramsci delle note sulla “questione vaticana”? Gramsci giudica infatti che è necessario “uno studio organico sulla storia del clero come “classe-casta” ” e sulla “situazione giuridica e di fatto della chiesa nei vari periodi e paesi”. Vi è un nesso tra il rapporto nord-sud, la questione contadina e l’atteggiamento dei cattolici o del clero. Linfluenza del clero si diversificava, non soltanto tra nord e sud, ma anche tra le regioni del nord: prevalevano i clericali tra gli strati rurali del Lombardo-Veneto, i laici in Piemonte. Con il suo neoguelfismo e con il suo libro sul Primato italiano, Vincenzo Gioberti attrasse gli ingegni timorosi, il giovane clero e (grazie al clero) il popolo, in specie contadino: così leggiamo nel Carducci tratteggiante una tormentata vicenda che dal Parini doveva svolgersi fino all’Andreoli e al Tazzoli (entrambi spietatamente giustiziati), attraverso il Cesarotti, il Barbieri e poi il Di Breme e infine lo stesso Gioberti e il Rosmini. Più risolutamente della filosofia giobertiana, d’altra parte, la pedagogia laica di Capponi, Aporti ecc. fu rivolta contro la scuola gesuitica, ma influì anche sul clero liberaleggiante. Si consideri, a tal proposito, che allora la scuola ebbe una funzione culturale molto importante (anche perché non v’erano ancora né l’odierno giornalismo diffuso, né i partiti politici in senso proprio, come “centro direttivo sugli intellettuali”). I “cattolico-liberali” (sorti per l’attrazione esercitata su di essi dai laici moderati) allarmarono il papato e lo spinsero ad attestarsi più a destra. In seguito, modernismo e popolarismo (sorti per indiretta attrazione del movimento operaio) ebbero esiti diversi: fu da Pio X avversato il primo e fu invece incoraggiato il secondo. Dopo il 1890, fino al patto Gentiloni, il non expedit, che vietava ai cattolici di partecipare alla vita politica del Regno d’Italia, fu temperato e reso più blando. Con il patto Gentiloni, d’altra parte, Giolitti si propose di integrare il blocco “urbano” con quello tra industriali e popolazioni rurali cattoliche nel Nord (suscitando effetti propagatisi anche nel Sud, soprattutto dopo l’allargamento del suffragio). Se la fondazione del Partito Popolare apparve legata anche al suffragio universale, l’Azione cattolica sorse quando la Chiesa, da istituzione totalitaria qual era stata in passato, divenne la parte soltanto di un tutto più articolato e quindi avvertì l’esigenza di poter contare su un proprio “partito”. La Chiesa rimase allora sulla difensiva anche sul terreno sociale. Le encicliche papali difesero la proprietà (specialmente la proprietà della terra), considerata un diritto naturale, e lessero la questione sociale soltanto come un caso di obbligazione morale (come carità innanzi tutto). Lasceremo sulla terra almeno due poveri, ripeteva perciò un popolano francese di fede socialista, quando gli si faceva notare che Cristo aveva considerato naturale l’esistenza di ricchi e poveri. Gramsci annota altri casi di arretratezza culturale nei comportamenti delle gerarchie cattoliche locali (una donna cristiana sposata a un ebreo rapita per ordine del vescovo; rapiti fanciulli ebrei che avessero minacciato di farsi cristiani durante un momentaneo battibecco con i genitori; nel 1799 pogrom di ebrei ad Acqui; saccheggio del ghetto nel 1848, anno che fu deplorato, da una parte del clero, come “invenzione” degli ebrei). E i “laici”? Si consideri, nel Risorgimento, la condotta del Partito d’Azione. Esso non seppe mobilitare, in particolare, i contadini meridionali e non fece, nei confronti della Chiesa, quel che fecero i moderati, ad esempio con la loro azione contro i beni ecclesiastici. I garibaldini guidati da Nino Bixio repressero a Bronte, in Sicilia, i contadini ribelli contro i grossi agrari (sappiamo che si fecero eco letteraria di quei fatti dolorosi sia G. C. Abba che G. Verga) e, pertanto, il brigantaggio meridionale divenne spesso, in seguito, la forma dell’aspirazione contadina alla proprietà della terra. La riforma “religiosa” di Mazzini (come già quella di Robespierre) fomentò reazioni contadine di carattere sanfedista, anziché allargare il consenso nelle campagne. Se è vero che Vittorio Emanuele diceva di avere “in tasca” il Partito d’Azione, dobbiamo constatare che i moderati riuscirono a dirigerlo anche dopo il 1870. Trasformismo e parallela azione “molecolare” furono gli aspetti di quella “rivoluzione passiva” che, secondo Gramsci, si caratterizza anche in quanto “decapita” gli oppositori. Costoro, peraltro, nella mancata rivoluzione democratica italiana, non compresero quel che ora apprendiamo da un’altra regola eminentemente gramsciana: che è possibile essere dirigenti già prima di conquistare il potere, ossia prima di diventare anche dominanti. Fece parzialmente eccezione Pisacane, che (come già Machiavelli) guardò al progettato coinvolgimento dei contadini da un punto di vista precipuamente militare: politica democratica e esercito nazionale furono da lui considerati, infatti, obiettivi congiunti. Poiché nel Partito d’Azione fu assente il giacobinismo di tipo francese, il Risorgimento poté essere definito (da Missiroli, Gobetti, Dorso) una conquista regia. Da qui la particolare incidenza dei fattori internazionali: Cavour temette l’azione dei garibaldini anche per le possibili ripercussioni in altri Stati europei. Il termine “giacobino” è stato frainteso, talvolta, come sinonimo di “energico”. Questo significato improprio può essere rintracciato, dopo l’approdo della “sinistra” al governo con Agostino Depretis, nel presunto “giacobinismo” ostentato, ad esempio, dal siciliano Francesco Crispi. Il moderato Crispi, riguardato e spacciatosi per “giacobino”, come capo del governo ricorse alla stato d’assedio (già saggiamente deprecato, a suo tempo, dal Cavour) contro i suoi conterranei. Stroncò con la forza i Fasci siciliani, dopo averli accusati di connivenze con l’Inghilterra. Dichiarò la guerra delle tariffe contro la Francia e, poiché i contadini meridionali volevano pur sempre lottare per conquistare la terra sulla quale si affaticavano in condizioni di soggezione quasi feudale, provvide ad accontentarli con le imprese coloniali, riuscendo, per questa via piena di insidie per il futuro del Paese, a porre un freno, temporaneamente, al malcontento delle popolazioni rurali subalterne. La politica di Crispi verso il Sud accentuò oggettivamente i pregiudizi settentrionali contro la presunta incapacità (o la presunta barbarie) innata dei meridionali e fomentò così anche la generale incomprensione delle ragioni storiche dell’arretratezza nel Mezzogiorno Di qui le successive polemiche tra denigratori e difensori del Sud (Ferri, Orano e simili da un lato, Colajanni dall’altro). Gramsci ci ricorda che a Torino, in una circolare industriale del 1920, si ordinò alle industrie dipendenti di non assumere operai nati sotto Firenze. È vero, egli aggiunge, che la famiglia Agnelli invece, nel 1925-26, chiamò 25.000 siciliani; ma, per i reati commessi da chi fuggiva dalle fabbriche (dalla loro ferrea disciplina interna, dalle case-caserme ecc.), fu ancora rinfocolato il convincimento che i siciliani fossero briganti quasi per natura e per elezione, convincimento derivante anche dal ricordo dell’intervento di truppe piemontesi contro il “brigantaggio” siciliano, nel periodo dal 1860 al 1870.
3. Cenni sull’elaborazione gramsciana di una dialettica filosofico-politica– Dalla storia, ripercorsa criticamente e insieme appassionatamente, Gramsci ricava alcuni concetti generali di impronta filosofico-dialettica. La rivoluzione passiva è, in una prima specificazione, trasformismo, ossia “l’assorbimento graduale [… degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari”. Ed è anche, in una seconda e più esauriente accezione, “riformismo” o processo di restaurazione che ha “accolto una qualche parte delle esigenze dal basso”, in asseéza peraltro di iniziative consapevolmente innovatrici insorgenti “dal basso”; l’ha accolta, per solito, all’indomani di una dura “reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico, elementare, disorganico delle masse popolari”. È “riformismo” introdurre “piccole dosi” del nuovo per salvare il vecchio e per evitare “esperienze politiche” popolari (di tipo giacobino ecc.). Da una rivoluzione passiva concepita quasi come espediente o raggiro (“trasformismo” appunto) ad opera della conservazione ci spostiamo dunque a una rivoluzione passiva concepita, in quanto “riformismo”, come necessità storica, per la parte conservatrice, di tentare una sua “sintesi”. Per contrapposizione a una tale sintesi, Gramsci elabora il nuovo concetto di una forza realmente rivoluzionaria che non si caratterizzi più per il semplice intento di “distruggere” l’avversario (intento peraltro irrinunciabile nella fase della lotta più dura, anche se condotta come “guerra di posizione”), ma che, pur non rinunciando a fronteggiare l’avversario, soggettivamente, con un proprio “programma “estremo”” – possa oggettivamente, ossia storicamente, approdare a una sintesi diversa e conforme alla sua, diversa, vocazione egemonica. L’approfondimento concettuale che ho qui richiamato consente di intendere in maniera più appropriata anche lo stesso concetto gramsciano di una “guerra di posizione”. La guerra di posizione consiste in un “reciproco assedio” in virtù del quale la parte conservatrice avverte la necessità di promuovere talvolta mutamenti e riforme, così come la forza rivoluzionaria muove alla graduale conquista di sia pur parziali posizioni egemoniche ancor prima di farsi Stato. Ed è falso che al prevalere dell’elemento restaurazione debba attribuirsi, come propongono i moderati e Croce, con una “mutilazione dell’hegelismo e della dialettica”, significato positivo. Significato positivo ha, invece, il prevalere della sintesi rivoluzionaria. È forse lecito leggere con questa chiave il seguente passo, nel quale si ribadisce il giudizio severo sulla mancanza di una linea politica egemonica nel Partito d’Azione: “mentre Cavour era consapevole del suo compito in quanto era consapevole criticamente del compito di Mazzini, Mazzini, per la scarsa o nulla consapevolezza del compito di Cavour, era in realtà anche poco consapevole del suo proprio compito”. Né è da dire che per ottenere questi risultati storici fosse necessaria perentoriamente l’insurrezione armata popolare, come pensava Mazzini fino all’ossessione, cioè non realisticamente, ma da missionario religioso”. Una duplice “sintesi” è anche quella teorizzata da Gramsci per ogni “blocco storico” organicamente consolidatosi che, in modo difforme da quanto accade nei processi storici di transizione dalla vecchia alla nuova società, tende a rendersi “omogeneo” nella sua complessa articolazione strutturale e superstrutturale. Nel blocco storico i luoghi della sintesi sono i suoi diversi “livelli”, strutturali e superstrutturali appunto, non più le opposte forze della conservazione e della rivoluzione. Già nelle società capitalistiche sviluppate, in particolare, si forma un intreccio di funzioni o di momenti orientati, ad esempio, verso la socializzazione della politica (mediante i partiti e gli altri centri organizzati della “società civile”) e verso la politicizzazione della società (in specie, nella classe che lotta per “farsi Stato”). I limiti della rivoluzione democratico-borghese, in Italia, e le “questioni” che la borghesia italiana non ha saputo risolvere durante e dopo il Risorgimento (questione meridionale, questione contadina, questione vaticana) richiederanno nel Novecento, da parte del movimento operaio italiano di avanguardia potenzialmente proteso a dar vita a un nuovo blocco storico, analisi e strategie che, pur giovandosi di alcuni insegnamenti di Lenin e della rivoluzione sovietica (in specie, per quanto concerne l’alleanza tra operai e masse rurali sfruttate), tuttavia dovranno percorrere strade nuove, suggerite dalle peculiarità del nostro contesto nazionale o dai limiti storici, appunto, del processo risorgimentale di unificazione politica e, soprattutto, indotte dalla condizioni oggettive che caratterizzano, in Europa (o in “Occidente”), le società capitalistiche avanzate.

Giuseppe PRESTIPINO

http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/Prestipino.htm

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