ROBERTO IL GUISCARDO e gli altri Normanni in Campania Felix
I Normanni comparvero per la prima volta in Italia nel 1009, come soldati al servizio di Melo di Bari, duca di Puglia.
In seguito, nel 1016, si narra che fecero tappa a Salerno dopo un pellegrinaggio in Terrasanta, trovando la città sotto la minaccia dei Saraceni, e che, non tollerando una tale situazione, si fossero offerti di scacciare gli infedeli (è probabile che invece li abbia chiamati il principe). Erano solo in 40 e il principe di Salerno Guaimario III li avrebbe salutati vittoriosi: “Miles quadraginta … salve!”.
La consistente emigrazione di Normanni in Campania avvenne qualche tempo dopo, perché chiamati dal Duca di Napoli Sergio IV, nella guerra contro il longobardo Pandolfo IV di Capua. I Napoletani, infatti, si opposero sempre fieramente alle mire espansionistiche dei Longobardi, rimanendo sempre indipendenti e, solo nominalmente, sotto il governo bizantino.
Rainulfo di Drengot, in cambio dell’aiuto dato, ebbe in premio Aversa nel 1030 (secondo alcuni nel 1028), e sposò poi la sorella del duca Sergio. Nel 1038 la sua investitura fu riconosciuta ufficialmente dall’imperatore Corrado II, grazie anche all’intercessione del principe di Salerno Guaimario IV. Da qui comincia una dinastia di normanni “campani”: la contea di Aversa, più le conquiste successive, furono divise in sette feudi tra quelli che furono i successori di Rainulfo.
I sei fratelli Drengot venivano dal villaggio francese di Quarrel; il maggiore, Giselberto, era ricercato, per ordine del conte di Normandia Rolf, per omicidio.
Verso il 1030 erano scesi in Italia dalla penisola del Cotentin i cinque figli di Tancredi di Hauteville: Guglielmo Braccio di Ferro, Drogone e Umfredo (avuti dalla prima moglie, la normanna Muriella), e Roberto e Ruggero, figli della seconda moglie, la nobildonna Fresinda.
Guglielmo si era insignorito di alcune zone del Cilento (a quei tempi i confini tra Calabria, Basilicata e Campania non erano quelli odierni, e neppure ben definiti, per cui alcuni testi riportano, in luogo del Cilento, la Calabria o Basilicata occidentale). Drogone era a capo dei Normanni di Puglia ed aveva sposato una figlia del principe di Salerno Guaimario IV (per qualcuno V). Fu ucciso il 10 agosto del 1051 mentre era in chiesa. Meno di un anno dopo una congiura poneva fine alla vita del suocero Guaimario e, di conseguenza, allo splendido periodo del principato di Salerno. Umfredo, che aveva preso il posto di Drogone, accorse a Salerno per scacciare, con l’intervento di Guido di Conza, l’usurpatore al trono di Salerno, Pandolfo, e permettere al figlio di Guaimario, Gisulfo II, di succedere al padre.
Roberto si era attestato in Sila con un gruppo di fedeli. Era lì che Drogone lo aveva mandato, forse anche per non averlo troppo vicino. Del resto, per poter aspirare a qualche possedimento, i Normanni dovevano dar prova di forza, valore e decisione, in pratica dovevano dimostrarsi degni della ormai leggendaria ferocia normanna. E Roberto se ne dimostrò subito all’altezza. In Calabria, assieme probabilmente a gruppi di autoctoni, compiva scorrerie, ruberie, stragi. Con uno stratagemma riuscì a sequestrare un nobile di Cosenza e a farsi corrispondere un notevole riscatto. Pare che proprio questo episodio gli abbia guadagnato il soprannome di Guiscardo coniato, forse, da Gerardo di Buonalbergo. E fu proprio questo nobile di origine francese a fornire a Roberto truppe per conquistare la Calabria e, per meglio stringere i rapporti con l’ambizioso giovane normanno, gli diede in moglie una sua zia: Alberada da cui nacque Marco Boemondo, il primo figlio maschio del Guiscardo.
I Normanni erano agitati da varie discordie tra di loro, ma si ricompattavano e facevano fronte comune contro minacce esterne. E così fecero quando Papa Leone IX con l’aiuto del catapano Argiro e dell’imperatore Enrico III, organizzò, nel giugno 1053, una reazione all’invadenza normanna. A Roberto toccò il compito di affrontare i mercenari svevi inviati dall’Imperatore. Gli Svevi urlavano che avrebbero fatto scempio di quei Normanni piccoli e neri, segno che tra le truppe di Roberto dovevano esserci molti individui originari del posto. E non dovevano essere meno determinati dei compagni Normanni, perché ebbero la meglio sugli Svevi.
La battaglia di Civitate si concluse con la prigionia del papa Leone IX che fu però rilasciato a patto che legittimasse le loro conquiste. Per questa operazione in Puglia i Normanni avevano chiesto aiuti e denari a Gisulfo II, ma questi, che aveva tenuto sempre in odio i Normanni, ritenendoli complici della congiura contro il padre e, preoccupato, ne vedeva avanzare il potere, si era rifiutato e si era tenuto sempre fedele al Papa. I Normanni non dimenticarono il rifiuto.
Dopo Civitate Roberto si diede alla conquista della Calabria e, nel 1057, alla morte di Umfredo, si pose anche alla guida di quel feudo ereditato dal giovane e ancora troppo debole Abagelardo.
Intanto Ruggero, che prima era al seguito di Roberto, veniva alla ribalta ormai più forte e indipendente e così il fratello maggiore lo allontanò, come Drogone aveva fatto con lui, incaricandolo di proseguire la conquista della Calabria. Non mancarono le invidie tra i due fratelli che spesso si fecero vere e proprie guerre, ma guai se terzi prendevano iniziative contro l’uno o contro l’altro.
Nel 1059 papa Nicolò II durante il concilio di Melfi riconosce come suoi fedeli vassalli Riccardo di Capua e Aversa e Roberto il Guiscardo Duca di Puglia e Calabria.
La capitale del ducato era Melfi, mentre Ruggero, conte di Calabria, aveva posto la capitale del suo feudo a Mileto.
Conquistata la Calabria i due fratelli Altavilla fanno una puntata in Sicilia, dove Roberto lascia il fratello minore per correre in Puglia a fronteggiare un’invasione bizantina.
Dopo la conquiste dei Normanni, il principato di Salerno aveva perso molti domini e potere. Il Guiscardo mirava ormai ad Amalfi e Salerno. Sichelgaita, figlia di Guaimario IV, capì che l’unica speranza di salvezza era in un’alleanza con i nuovi potenti, da concretizzarsi mediante le sue nozze con Roberto, ma il fratello Gisulfo rifiutava ogni apertura verso coloro che vedeva come predoni ed invasori. Dobbiamo ricordare che i Longobardi, specie quelli del Sud, si erano enormemente raffinati nei costumi e nella cultura. Erano ormai da quattro secoli nell’Italia meridionale e ne avevano assorbito la civiltà al punto da poter essere considerati i continuatori della latinità dando, anzi, nuovi impulsi a quel mondo romano ormai in decadimento. Gisulfo, poi, era discendente di una lunga generazione di principi [1]. Quindi non voleva acconsentire alle richieste di matrimonio di Roberto ed aveva cercato in tutti i modi di dilazionare una risposta motivandola con l’impossibilità economica di quel momento di dotare adeguatamente la sorella.
Ma il Guiscardo, spazientito e sentitosi preso in giro, non volle sentir ragioni e disse che avrebbe dato lui la dote alla sposa. E fu così che a Melfi nel ‘58 si celebrarono le nozze tra il rude, gigantesco, prode e affascinante guerriero e la raffinata principessa longobarda di vari anni più giovane di lui. Tempo addietro Roberto aveva provveduto a far annullare il matrimonio con Alberada con la scusa che era un matrimonio tra consanguinei: era la prima volta che si ricorreva a tale motivazione per sciogliere un contratto matrimoniale. Ovviamente Alverada fu adeguatamente dotata e ricompensata per essersi fatta da parte.
Anna Comnena descrive Roberto: “maestoso di volto, di statura alta, largo di spalle, perfetto di forme, di chioma e barba fulve, d’occhi vivaci e penetranti: pronto e scaltro d’ingegno, ambizioso oltre misura, maturo nei consigli, provvido nelle imprese, ardimentoso ed esperto nelle cose di guerra, rigoroso e prudente nel governo civile”. Oltre al fatto che avesse un tono di voce simile al tuono dice anche che firmasse con un segno di croce.
Ma parlava anche il greco e forse il segno di croce era solo un simbolo che usava per sigillare i patti. Pare tenesse molto in conto i consigli della colta moglie longobarda. Era lei che curava i rapporti con la Chiesa ed era in relazione di grande amicizia con il vescovo di Salerno, Alfano, e con gli abati di Cava, di Montecassino e con Ildebrando di Soana, poi Gregorio VII, antichi compagni di cenobio di Alfano.
Nella questione tra papato e l’imperatore Enrico IV, Roberto preferì schierarsi col Papa pur essendo in precedenza venuto in contrasto con la Santa Sede per avere egli occupato i territori di Benevento. Nel frattempo aveva affidato a Ruggero il compito di portare a termine le conquiste in Sicilia.
Intanto, il fratellastro Guglielmo con le sue invasioni si era spinto in territori alle porte di Salerno. Questo preoccupava Gisulfo, ma anche il Guiscardo che aveva dato alla moglie il compito di mediare. Ma Guglielmo non intendeva ragione e non aveva voluto dare ascolto al Papa che nel 1° agosto 1067 aveva indetto un concilio proprio a Melfi nella speranza di risolvere la questione normanna. Guglielmo fu scomunicato. Ma fu fatto partecipare alle Assise che papa Alessandro II poco dopo tenne a Salerno e a cui era accorso anche il Guiscardo. Guglielmo venne a più miti consigli e fu perdonato.
Nel 1072 Roberto accorse a dare man forte al fratello e riuscì ad espugnare Palermo. Probabilmente lo raggiunse anche Sichelgaita e il 10 gennaio 1072 Roberto, Sichelgaita, Ruggero, seguiti dagli altri normanni impegnati in quella spedizione, entrarono trionfalmente nella basilica di Santa Maria che i musulmani secoli prima avevano trasformato in moschea. Roberto era ora effettivamente anche Duca di Sicilia, non ancora tutta conquistata. In seguito il fratello, a sorpresa, si fece nominare dal Papa Gran Conte di Sicilia, diretto feudatario del Papa.
Roberto aveva una certa età e si presentava il problema della successione al Ducato: il primogenito era Boemondo, valoroso ed instancabile guerriero, somigliantissimo al padre e figlio di una normanna, cosa di non poco peso per i normanni più intransigenti; la seconda moglie di Roberto voleva a tutti i costi la designazione al trono del suo primogenito Ruggero detto Borsa, anche perché ciò avrebbe accontentato il partito di quei nobili ancora legati ai longobardi. Fu così che a seguito di una malattia di Roberto, che aveva fatto temere per la sua vita, anzi si era già diffusa la notizia della sua morte, Sichelgaita si era decisa a risolvere la questione in maniera definitiva: secondo Orderico Vitale, storico e compositore della Historia Ecclesiastica del XII secolo, avrebbe fatto propinare del veleno a Boemondo (Sichelgaita si intendeva di erboristeria ed altre arti mediche avendo appreso tali dottrine a Salerno). Il marito, saputolo, si precipitò da lei giurando di ucciderla se non avesse salvato Boemondo. Fu così che al giovane Boemondo in fin di vita fu somministrato l’antidoto (o gli furono dedicate cure più sollecite ed appropriate. E forse era questo di cui Roberto accusava la moglie e non di avvelenamento). Da allora, però Boemondo conservò sempre un colorito pallido.
Nel 1074 il Guiscardo aveva stipulato un’alleanza col Basileus di Bisanzio, rafforzandolo con un patto matrimoniale tra la sua giovanissima figlia Olimpia, ed il successore, ancora bambino, al trono di Bisanzio. Ed è in quel periodo che l’erede al trono del ducato di Puglia, Calabria e Sicilia risulta essere stato designato Ruggero Borsa: il padre aveva dovuto conferire la dignità di “curopalata” ad uno dei suoi figli e questi risultava essere Ruggero; e nell’Exultet della Cattedrale di Bari, dopo i nomi di Michele VII, del suo erede, il figlio Costantino, e della sua fidanzata Olimpia, erano subito nominati Roberto, Sikelgaita e Ruggero Borsa. Ma nel 1078 la destituzione di Michele sconvolse l’alleanza e Roberto attese il momento propizio per una vendetta.
Nel ’74 il Papa scomunicava Roberto per aver invaso i possedimenti della Chiesa in quel di Benevento e riconfermò la scomunica nel ’75.
I rapporti con i Drengot non erano stati propriamente idilliaci. Ma in quel periodo Riccardo Drengot era tornato dalla parte di Roberto e insieme tentavano l’assedio di Napoli. Mentre Giordano di Capua che aveva sposato Gaitelgrima, sorella di Sighelgaita e di Gisulfo, col quale aveva stretto alleanza contro Roberto.
Ma Roberto non era ancora contento delle sue conquiste, o forse si sarebbe accontentato di avere il principe di Salerno come alleato, ma Gisulfo non faceva che agitarsi in cerca di alleanze e accordi contro il cognato. Fu così che i timori del principe divennero realtà: nei primi di maggio del 1076 il normanno iniziò l’assedio a Salerno. Fu lungo e penoso; nonostante la popolazione fosse allo stremo, il principe non voleva cedere all’evidenza. Nel 1077 consegnò la città agli invasori rifugiandosi prima a Nocera e poi a Roma (ma prima, di nascosto aveva fatto un’altra tappa in Campania cercando alleanze presso altri nobili che però lo allontanarono per non guastare i rapporti con Roberto), dove il Papa accolse paternamente lui e la sua famiglia affidandogli incarichi di ambasciatore della Santa Sede. Infatti Gisulfo tornerà a Salerno in tale veste a seguito di Gregorio VII.
Poco tempo prima della conquista di Salerno, Amalfi, temendo le continue mire di Gisulfo, si era assoggettata al normanno Roberto. A Salerno i Duchi fecero erigere (costruzione iniziata nel 1077) una nuova cattedrale ed una nuova reggia, più a oriente rispetto all’antico insediamento longobardo. Diedero nuovo vigore alle industrie della città ed in particolare alla Scuola Medica, accogliendo il medico Costantino l’Africano, che in seguito Roberto elevò a proprio segretario. Il Guiscardo fece costruire anche altri monumenti nel suo ducato: la cattedrale di Aversa, di Melfi, la chiesa della SS. Trinità di Venosa.
Verso il 1078 Giordano e Gaitelgrima riuscirono a far insorgere alcuni feudatari di Puglia impegnando così il Guiscardo, Boemondo e Sighelgaita alla quale il marito, dovendosi spostare a Castellaneta, affidò il controllo militare di Trani.
Nel 1080, con la pace di Ceprano, al Normanno furono riconosciuti dal Papa Gregorio VII i suoi possedimenti nell’Italia meridionale, tranne quelli di Amalfi, Salerno, e della Marca Fermana. Motivo per cui, a differenza dei principi Longobardi, i Normanni non furono mai chiamati principi di Salerno. “Io Gregorio, investisco te Roberto duca, di quella Terra, che ti concessero i miei predecessori Niccolo II, Alessandro II di buona memoria; dell’altra terra poi, che tu tieni ingiustamente, come è Salerno, Amalfi e una parte della Marca Fermana, Io soffro le tue conquiste, fidando in Dio onnipotente, e nella tua rettitudine, che tu fra poco ti regolerai in quel modo per onor di Dio e di San Pietro, che a te e a me parrà convenire, senza pericolo dell’anima tua, e mia” [2]. Roberto giurò formalmente obbedienza alle richieste del Pontefice.
Roberto non aveva dimenticato l’affronto subito dai bizantini e con questa scusa organizzò una spedizione nei Balcani a bordo di una notevole flotta. Per la verità per giustificare la spedizione pare si servisse di un altro dei suoi ‘astuti’ espedienti: in Calabria lo aveva raggiunto un monaco bizantino che egli disse essere lo spodestato imperatore d’oriente che si era rifugiato presso di lui chiedendo aiuto contro l’usurpatore nell’interesse proprio e del duca normanno. Con la moglie e i figli Boemondo e Ruggero conquistò Durazzo, Corfù e Avlona. Grandi successi conseguì Boemondo e anche Sikelgaita si distinse per coraggio e intraprendenza secondo quanto racconta Anna Comnena: mentre il marito era impegnato a combattere in una zona distante, lei durante la battaglia fu colpita ad una spalla, ma vedendo che le truppe si stavano disperdendo, si strappò la freccia dalla spalla e continuò a combattere arringando i militi, riuscendo così a riguadagnare una posizione di vantaggio.
Ma il Papa a Roma, assediato dalle truppe dell’Imperatore, aveva bisogno di aiuto.
Intanto Ermanno, Abelardo ed Enrico di Conversano si erano ribellati al Duca. Roberto lasciò le operazioni militari in territorio bizantino nelle valide mani di Boemondo, e tornò in Italia.
Sconfisse le truppe imperiali sottoponendo Roma ad una feroce devastazione e portò con sé a Salerno Gregorio VII.
Un mese dopo la Cattedrale di Salerno veniva aperta al culto e consacrata proprio dal Papa.
Nell’ottobre ’84 i Duchi salernitani partirono per Brindisi nuovamente diretti alla conquista dei territori bizantini. Il 25 maggio moriva a Salerno Gregorio VII. Pochi mesi più tardi dopo la vittoria a Cefalonia, il 17 luglio moriva Roberto il Guiscardo. Fu sepolto nella cattedrale della Santissima Trinità a Venosa come molti altri suoi familiari e la prima moglie Alberada. Anche in questo caso, secondo Orderico Vitale, Sichelgaita fu sospettata di aver avvelenato il marito. A Roberto succedette Ruggero Borsa e a Boemondo fu lasciata Taranto e pochi altri possedimenti, più quelli che fosse riuscito a conquistare [3]. Boemondo non accettò di buon grado tale posizione e tra i due fratellastri ci furono aspre contese, finché non intervenne lo zio il gran conte Ruggero.
Alla fine Boemondo (come molti nobili spodestati ed in cerca di fortuna) organizzò una spedizione in Terrasanta cui parteciparono con valore (ma nel caso delle crociate è il caso di dire anche con crudeltà e ferocia) anche il nipote Tancredi e Roberto di Buonalbergo, oltre a molti altri nobili. Alla spedizione parteciparono cavalieri campani ed un notevole gruppo di calabresi. Boemondo fu insignito del principato di Antiochia ed estese i suoi domini anche in Siria Cilicia e Armenia. Tentò anche di tornare alla conquista della Grecia, ma, dopo una disfatta a Durazzo, morì nel 1111 mentre, ferito, cercavano di riportarlo a Salerno sperando in opportune cure. Fu sepolto nella Cattedrale di Canosa. Di Boemondo parla Anna Comnena nella Alessiade.
E se prima ne fa una descrizione che potremmo definire ammirata («Ora [Boemondo] era uno, per dirla in breve, di cui non s’era visto prima uguale nella terra dei Romani, fosse barbaro o Greco (perché egli, agli occhi dello spettatore, era una meraviglia, e la sua reputazione era terrorizzante). Lasciate che io descriva l’aspetto del barbaro più accuratamente: egli era tanto alto di statura che sopravanzava il più alto di quasi un cubito, sottile di vita e di fianchi, con spalle ampie, torace possente e braccia poderose. Nel complesso il fisico non era né troppo magro né troppo sovrappeso, ma perfettamente proporzionato e, si potrebbe dire, costruito conformemente ai canonici Policleto… La sua pelle in tutto il corpo era bianchissima, e in volto il bianco era temperato dal rosso. I suoi capelli erano biondastri, ma egli non li teneva sciolti fino alla vita come quelli di altri barbari, visto che l’uomo non era smodatamente vanitoso per la sua capigliatura e la tagliava corta all’altezza delle orecchie.
Che la sua barba fosse rossiccia, o d’un altro colore che non saprei descrivere, il rasoio vi era passato con grande accuratezza, sì da lasciare il volto più levigato del gesso… I suoi occhi azzurri indicavano spirito elevato e dignità; e il suo naso e le narici ispiravano liberamente; il suo torace corrispondeva alle sue narici e queste narici… all’ampiezza del suo torace. Poiché attraverso le sue narici la natura aveva dato libero passaggio all’elevato spirito che gli traboccava dal cuore. Un indiscutibile fascino emanava da quest’uomo ma esso era parzialmente contrassegnato da un’aria di terribilità… Era così fatto di intelligenza e corporeità che coraggio e passione innalzavano le loro creste nel suo intimo ed entrambi lo rendevano incline alla guerra. Il suo ingegno era multiforme, scaltro e capace di trovare una via di fuga in ogni emergenza. Nella conversazione era ben informato e le risposte che dava erano fortemente inconfutabili.
Quest’uomo del tutto simile all’Imperatore per valore e carattere, era inferiore a lui solo per fortuna, eloquenza e per qualche altro dono di natura»), poi (Alessiade [10:11]), lo descrive irriconoscente verso le gentilezze mostrategli dall’Imperatore di Bisanzio e sospettoso oltre ogni limite. Da parte nostra possiamo dire che in un epoca ed in una corte in cui gli intrighi e gli avvelenamenti erano assai frequenti, il comportamento di Boemondo non è altro che uno specchio di quelli che erano i tempi.
Di lui parla anche il cronista Romualdo che scrive: «egli sempre cercava l’impossibile». Era l’unico uomo al mondo – assicurano le fonti, e racconta Cesare Brandi – che potesse permettersi in quel tempo di radersi il volto, senza pericolo di apparire un castrato. A lui successe il figlio Boemondo II, prima sotto la reggenza della madre Costanza, figlia del re di Francia Filippo I, che invano cercò di controllare le rivolte in Puglia. Fu più volte catturata. Morì in prigionia. Ad Antiochia successe poi la figlia di Boemondo II, Costanza, e poi il di lei figlio, Boemondo III. Seguirono Boemondo IV, V, VI, e VII (+ 1287) e con lui finì il principato.
La capitale del Ducato di Puglia e Calabria fu spostata a Salerno [4]. Ruggero Borsa non aveva la stessa intraprendenza del padre e del fratellastro. Anche di fisico, pare, non avesse la stessa prestanza. Il suo regno fu segnato dall’impegno a mantenere i suoi domini. Sposò la danese Adala o Ada dalla quale ebbe il figlio Guglielmo. Ebbe alcuni contrasti con Boemondo riguardo il possesso di alcune zone della Puglia. Dopo che il primogenito del Guiscardo aveva cercato di impadronirsi di alcune città della Puglia, ci fu uno scontro nel beneventano, da cui il fratello maggiore uscì sconfitto, ma come riferisce Romualdo salernitano, in quella battaglia nessun combattente fu ucciso, tranne uno. Intanto il ducato di Amalfi, rimasto per alcuni anni, dalla morte del Guiscardo, ufficialmente senza un duca [5], era stato in seguito assegnato (forse anche per interessamento di Sichelgaita), allo spodestato principe di Salerno Giusulfo II [6]. In seguito (morta Sichelgaita), il duca Ruggero estese il proprio dominio su Amalfi, a scapito dello zio longobardo. Nel 1092 chiede a papa Urbano II, che era a Salerno dopo aver consacrato la Basilica benedettina di Cava, l’investitura del Ducato di Puglia dichiarandosi suo vassallo.
In cambio di aiuti militari si sarebbe impegnato a cedere allo zio Ruggero I Gran Conte di Sicilia una parte del suo ducato [7]. Ruggero morì a 50 anni, dopo oltre 25 anni di governo del ducato. Il duca Ruggero ebbe un corpo notevole, fu di nobili costumi, equilibrato (nel desiderare) la gloria, affabile, cordiale, guida delle chiese, si mostrò umile ai sacerdoti di Cristo, onorava con convinzione i chierici, riceveva tutti coloro che giungevano da lui e li congedava da sé contenti, sfamava la gente, amava la pace, era indulgente con chi sbagliava, benevolo con i suoi, pacato con gli estranei, premuroso con tutti e generoso nell’elargire moltissimi doni […] dopo la sua morte vi fu un lutto pubblico così generalizzato che tutti soffrivano come per una disgrazia personale [8].
Nello stesso anno morì della stessa malattia Boemondo col quale Guglielmo si era nel frattempo riappacificato. La pace tra i due fratellastri è rappresentata nel portale della cappella che custodisce le spoglie di Boemondo, adiacente la chiesa di San Sabino a Canosa.
A Ruggero Borsa succede, sotto la tutela della madre fino al 1114, Guglielmo il Buono: bello, buono e poco bellicoso “… di statura mediocre, di corporatura gracile, ma fu un cavaliere audace, esperto nell’arte della guerra, prodigo, umile, benevolo e tollerante, affabile con tutti, pio e misericordioso, era molto amato dai suoi uomini, onorava la chiesa di Dio e i suoi ministri” [9]. Il periodo del suo regno fu caratterizzato dalla lotta contro le pretese di indipendenza di alcuni feudatari. La sua investitura ebbe luogo a Messina con papa Gelasio (come risulta da recenti ricerche – secondo invece quanto ci ha tramandato Romualdo Guarna, l’investitura avvenne il 9 marzo 1118 a Gaeta).
Salito al trono papale Callisto II, Guglielmo ricevette il riconoscimento, da parte del nuovo Pontefice, nel palazzo di Benevento, mediante l’investitura con il vessillo, di tutti i territori che i precedenti Papi avevano donato a Roberto il Guiscardo e poi a Guglielmo [10]. In quello stesso periodo risulta che il duca Guglielmo, con Costanza (moglie di Boemondo) e Tancredi, ponevano assedio a territori lungo il fiume Basento, segno che la pace tra quelle famiglie continuava. Morì il 7 agosto 1127. Come suo padre, fu sepolto nel duomo di Salerno e si narra che quando la moglie Gaitelgrima, figlia di Roberto d’Airola (o Alife), secondo un’antica usanza normanna, si tagliò la chioma per deporla nel sarcofago con il marito, anche le altre nobildonne, in o afflitte per la perdita del loro buon principe, segno di lutto tagliarono i loro capelli e li misero nel sarcofago.
Appena apprese della morte del nipote salernitano Ruggero II di Sicilia si precipitò nella capitale del Ducato accampando diritti di eredità. Dopo varie lotte con i nobili del continente, nel 1130 fu eletto Re di Calabria Puglia e Sicilia per elezione dei maggiorenti.
Nel dicembre dello stesso anno fu ufficialmente incoronato nel duomo di Palermo da Riccardo di Capua, uno dei maggiori feudatari campani. Particolare significativo giacché fu grazie al riconoscimento dei nobili e dei maggiorenti salernitani che Ruggero fu proclamato Re. Ma la situazione non era calma e pacifica. In terraferma molte furono le rivolte. E Ruggero passava metà dell’anno a guerreggiare in questi territori, facendo capo a Salerno che nel 1139 si vide riconfermata dei suoi antichi diritti e del privilegio di funzionare da capitale dei domini di terraferma (continuerà ad esserlo per oltre cento anni). Fu proprio la vicinanza del re ai nobili di questa città che favorì i buoni rapporti della ricca e potente [11] società salernitana con la monarchia. In quello stesso anno, pochi mesi prima, Napoli fu conquistata e annessa al regno. Nel 1140, dopo una delle solite campagne di pacificazione operate ogni anno sui suoi territori con l’aiuto dei figli, Ruggero convocò tutti i suoi vassalli laici ed ecclesiastici ad Ariano ove promulgò una costituzione (in cui si ravvisano tradizioni longobarde, franche e normanne, bizantine e musulmane), per dare un nuovo ordine allo stato. Furono stabiliti quali dovevano essere i rapporti tra Re e feudatari, fu curata l’efficienza fiscale e militare e fu programmato un controllo della gerarchia ecclesiastica. I 44 paragrafi delle Assise trattano del diritto e delle giurisdizioni ecclesiastiche, di diritto pubblico, di potere regio, di diritto privato e di diritto penale. Alla fine con le nuove promulgazioni si avrà un accentramento dei poteri della monarchia, la struttura burocratica del regno risulterà improntata su una gerarchia piramidale che ha per vertice il sovrano. In questo lavoro di ristrutturazione politica di grande portata, lo assistette l’Ammiraglio Giorgio di Antiochia, un greco di Siria, poliglotta, assai colto, proveniente dalla corte del principe zîride di Mahddiyya (Tunisia), e assunto da Ruggero intorno al 1112. Fu primo consigliere del re per circa quarant’anni.
In Campania acerrimo nemico del re Ruggero fu Rainulfo d’Alife (alcuni lo indicano come Rainulfo II, altri, forse più correttamente, come Rainulfo III), che aveva sposato Matilde, sorella di Ruggero. Tra i due cognati ci furono lotte senza esclusione di colpi; Rainulfo fu una vera spina nel fianco, un osso duro, difficile da domare. Ruggero arrivò anche a sequestrargli la moglie e il figlioletto, portandoli in Sicilia e restituendoli in seguito ad un accordo raggiunto col cognato. Ma la guerra tra i due finì solo dopo la morte del Drengot, il 30 aprile 1138.
Il nobile campano era stato sepolto a Troia, ma Ruggero, non pago della vittoria che solo il caso gli aveva dato, lo fece disseppellire e ne trascinò il cadavere, legato ad un cavallo, per la strada [12]. Le lotte però continuarono tra Ruggero e Riccardo di Rupecanina, fratello di Rainulfo e Roberto di Capua. Valoroso fu anche Andrea di Rupecanina, figlio di Riccardo. Ma entrambi, sconfitti da Ruggero, dovettero riparare in Germania dove Riccardo morì. Andrea tornò nel 1155 (al seguito di Federico Barbarossa sceso a Roma per farsi incoronare), sperando in aiuti del Papa Alessandro IV. Nel 1156 Roberto di Aversa perse la città che passò definitivamente nelle mani dell’Altavilla.
Finisce così anche il potere dei Drengot in Campania.
Astrid Filangieri
Note
[1] Quando, nel 1067, Gisulfo si recò in Oriente in cerca di aiuti contro l’espansione dei Normanni, da Bisanzio ove s’era recato, ospite del nobile amalfitano Pantaleone, assai accreditato presso la corte, “mandò messaggeri all’Imperatore e chiese cosa che nessun altro domandò, perché voleva che gli fosse preparato il trono e fece annunziare il suo avvento come fosse un altro imperatore” (Amato, IV c. 37, p 208). Chiese quindi l’esonero dalla proschinesis e il diritto di parlare da pari a pari, stando seduto. L’Imperatore gli elargì doni e denaro.
[2] “Ego Gregorius, investio te Roberte Dux…” Epist. Greg.VII in to. 3 Decret. pag. 825.
[3] Secondo alcuni a Boemondo non era stato lasciato alcun possedimento in Italia.
[4] Secondo E. Cuozzo la capitale fu spostata a Salerno 4 anni dopo la morte del Guiscardo e la reggia fu completata da Ruggero II.
[5] Dai documenti di quel periodo non risultano né duchi normanni, né amalfitani.
[6] Secondo alcuni, Roberto aveva assegnato al primogenito di Gisulfo il feudo di Capaccio che rimase per anni in mano ai successori di questa famiglia.
[7] Nel 1096 avrebbe ceduto a Ruggero I metà della città di Palermo.
[8] Dal Chronicon di Romualdo II Guarna.
[9] ibidem
[10] L’investitura comprendeva, quindi, anche la Sicilia. Infatti, titolari del ducato di Sicilia erano ancora i signori di Salerno Roberto il Guiscardo e poi i suoi figli, sebbene a governarla fossero i conti Ruggero I e II.
[11] Nella società cittadina oltre ai nobili era ben radicata e con una certa influenza, una classe di giudici e funzionari. Non a caso l’elezione di Ruggero viene definita di ampio consenso, perché ad essa parteciparono non solo i feudatari, ma anche le altre classi sociali di rilievo. Alla morte di Ruggero II, venuto meno il contatto diretto con il re ed i privilegi dei Salernitani, si sviluppò il conflitto dei nobili con Guglielmo I.
[12] Secondo quanto scrive il Camera, fu il popolo a dissotterrare il cadavere e a portarlo per le vie della città per dimostrare di parteggiare per Ruggero II.
Bibliografia
Mito di una città meridionale; Paolo Delogu; Liguori Editore
Salerno, profilo storico cronologico; Gallo- Troisi; Palladio
Memorie Storico-Diplomatiche dell’antica Città e Ducato di Amalfi; Matteo Camera; Centro di cultura e storia amalfitana
Chronicon di Romualdo II Guarna; a cura di Cinzia Bonetti; Avagliano Editore
Errico Cozzo; Salerno e la ribellione contro re Guglielmo d’Altavilla nel 1160/62. Atti del convegno dell’associazione italiana dei paleografi e diplomatisti Napoli-Badia di Cava dei Tirreni ottobre 1991
Un santo nella tempesta- Gregorio VII dalle sue lettere; A. Sorrentino; tip. Europa, Salerno
Sichelgaita Signora del Mezzogiorno; Michele Scozia; Alfredo Guida Editore
Sichelgaita tra Longobardi e Normanni; Dorotea Memoli Apicella; Elea Press
Notizie storiche delle antiche città e de’ principali luoghi del Cilento; G. Volpe; Ripostes
IL PORTALE DEL SUD
segnalato da
Gianni Ciunfrini