Serra, chiuse le chiese, esiliati i preti. La vendetta di Manhés
Narrano le cronache che, nell’anno 1811, allorquando in Calabria faceva conoscere la sua arrogante alterigia il poco clemente potere installatosi all’ombra della tricolore coccarda transalpina, nella tranquilla cittadina bruniana sia accaduto un avvenimento singolare. Quel piccolo paese immerso trai i boschi delle Serre, già all’epoca conosciuto per la sua Certosa, peraltro distrutta dal terribile terremoto del 1783, era alle prese con un fenomeno tipico di quegli anni tenebrosi e tormentati dalla spietata dominazione straniera.
Nelle foreste circostanti avevano stabilito, infatti, la loro dimora decine di briganti, figure a metà strada tra il delinquente ed il patriota che tenevano in ambasce le dure guarnigioni napoleoniche. Un dettaglio, inserito nel contesto generale di quello che la storiografia ha chiamato il “Decennio francese”, il periodo storico iniziato, nel 1806, con l’invasione napoleonica del Regno di Napoli e concluso, nel 1815, con la cattura e la fucilazione di Gioacchino Murat. Un periodo nel corso del quale la Calabria fu travolta dalla potenza delle dirompenti forze in campo. Da una parte, la soldataglia francese che si muoveva con lo spirito tipico dell’esercito d’occupazione, dall’altra gli agenti borbonici, sostenuti dall’oro inglese, che dalla Sicilia alimentavano l’ansia di rivincita di re Ferdinando e della regina Carolina. Le continue vessazioni e gli oltraggi finirono per scatenare il risentimento della popolazione. In una situazione del genere, molti andarono ad alimentare il fenomeno del brigantaggio. In mezzo rimase la “zona grigia” quella che, più di ogni altra, subì gli effetti nefasti di una lotta spietata nella quale, il più delle volte, non si facevano prigionieri. Fu in questo contesto, che anche la paciosa Serra si trovò travolta dagli eventi. Ricorre, proprio oggi il duecento-quattresimo anniversario di quello che, forse, è l’episodio più noto, accaduto durante il “Decennio francese”. Tutto avvenne nel volgere di pochi giorni, a partire dal 2 marzo 1811, quando tre briganti, nella speranza di ottenere un salvacondotto, si rivolsero a tale “Raffele Timpano del Paparello”. In assenza del comandante Voster che aveva ai suoi ordini la guarnigione serrese, i soldati francesi erano, momentaneamente, sottoposti al tenente Gerard. Il “Paparello”, accompagnato dal giudice di pace, Bruno Chimirri, dal comandante della guardia civica, Domenico Peronacci e dal civico Giuseppe Amato, raggiunse l’alloggio del comandante francese dove c’era anche il maresciallo Ravier. L’intenzione della delegazione era di fare da tramite tra i briganti ed i militari transalpini. L’operazione, però, si complicò quasi subito. I due soldati, infatti, avevano alzato il gomito. Avvinti al trono di Bacco, anziché, cercare di capire la situazione, consegnarono una pistola, ciascuno, a Peronacci ed a Chimirri e si misero in marcia. La situazione precipitò, quando, Gerard e Ravier provarono a fare irruzione nella baracca nella quale si trovavano i tre briganti, che li freddarono senza pensarci troppo. Lanciato l’allarme, sul posto arrivò la Guardia civica che, nel corso della sparatoria in cui ci rimise la pelle il povero Domenico Jorfida, uccise i briganti. Un ufficiale ed un sottufficiale morti erano un’onta troppo grande da sopportare. Così, un gendarme francese salì in groppa ad un cavallo per andare, a Nicastro, ad avvisare dell’accaduto lo spietato generale Manhés, cui Gioacchino Murata aveva affidato il compito di reprimere il brigantaggio. Da Serra partì, anche, una delegazione con l’intento di presentare un circostanziato rapporto. «Ricevuta una lettera stilata dall’intendente – si legge nella “Platea” – il generale che “ non era un uomo ma un diavolo vestito di carne umana”, strappò la missiva senza neppure leggerla». Del resto, Manhés era un ufficiale dai modi spicci, un soldato forgiato nella dura temperie delle campagne napoleoniche. Proprio lui che aveva ricevuto la Legion d’onore, dopo la battaglia di Austerlitz, non poteva tollerare l’oltraggio di aver perso due uomini in uno sperduto paese della Calabria. Così, lasciati trascorre un paio di giorni, prese con sé una ventina di dragoni e mosse alla volta di Serra, intenzionato a risolvere la questione a modo suo. Appena arrivato, senza perder tempo, fece impiccare il povero Raffele Timpano “del Paparello”, poi il 10 marzo, mise in atto una misura inattesa, chiuse le chiese e fece “deportare” la numerosa “guarnigione” di preti acquartierata nel borgo di san Bruno. Il bando con il quale vennero preclusi i luoghi di culto non lasciava dubbi interpretativi. «Le chiese tutte del comune di Serra saranno serrate, e le campane legate, poiché il culto sarà sospeso in esso comune fino alla distruzione del brigantaggio. In conseguenza non vi sarà amministrazione di sacramenti, e perciò i preti tutti del comune di Serra si porteranno a Maida finché i loro briganti saranno distrutti». Certo, fosse accaduto oggi, un bel ricorso al Tar avrebbe vanificato il provvedimento prima che venisse pubblicato. Ma quelli non erano tempi per legulei o azzeccagarbugli. Così, nel paese definito da Norman Douglas “il più bigotto della Calabria”, il proclama non tardò a manifestare gli effetti sperati. Alla partenza di Manhés, i serresi colpiti dall’inusitata misura, scelsero da che parte stare. Senza perdere tempo, con un raro esempio di efficienza teutonica, si misero immediatamente sulle tracce dei briganti. Accerchiati, impossibilitati a ricevere rifornimenti, gli uomini alla “macchia” furono costretti, uno alla volta, ad alzare bandiera bianca. Il “cordone sanitario” stretto attorno ai boschi fu così serrato da spingere qualche brigante al cannibalismo, come conferma il rinvenimento del “ cadavere di un capo brigante al quale era stata asportata la carne delle cosce”. Alla fine di marzo, i briganti erano stati uccisi, catturati o scacciati. Gli unici due sui quali sembrava impossibile mettere le mani erano, Pasquale Ariganello e Pasquale Catroppa, detti “i due Pasquali”. Come spesso accade in situazioni del genere, dove non possono le armi, possono i denari. “I due Pasquali”, avevano lasciato le montagne di Serra per spostarsi sul versante sud orientale del massiccio delle Serre, nei boschi compresi tra Bivongi e Pazzano, dove avevano trovato rifugio nella capanna di due pastori pazzanesi. Ma la notte del 12 aprile 1811, i due anfitrioni, in cambio della taglia di 200 ducati, li uccisero nel sonno. Secondo alcuni, pare che i due “Pasquali” sarebbero stati assassinati in un podere denominato “Areto” dove avevano sostano prima di raggiungere una barca che da Monasterace avrebbe dovuto condurli lontano dalla Calabria. A tal proposito, narra un aneddoto, ma forse è solo una leggenda popolare, che uno dei due briganti portasse con sé un giacca. Com’era costume, all’epoca, l’assassino prendeva all’ucciso tutto ciò che gli potesse tornate utile. Così, uno dei pastori, s’impossessò della giacca e la portò ad un sarto di Bivongi per farla accorciare in maniera tale da poter esser indossata dal figlio. Durante le operazioni sartoriali, ben occultata sotto la fodera, sarebbe saltata fuori una gran quantità di banconote, che permise al sarto di cambiar vita. Lasciati da parte gli aneddoti, quel che è certo è che, una volta informati della cattura dei “Pasquali”, i serresi, non persero tempo ed il 14 aprile, reclamarono ed ottennero la restituzione delle chiavi delle chiese e con esse il ritorno di tutti i sacerdoti proscritti da Manhés.
Mirko Tassone
fonte il redattore.it