Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

SIAMO BRIGANTI DI PINO APRILE

Posted by on Dic 26, 2019

SIAMO BRIGANTI DI PINO APRILE

Al Sud c’erano i briganti; i piemontesi li eliminarono (grazie, nè?). È quello che avevo sempre creduto e mi era stato insegnato, ma quasi di sfuggita e malavoglia, pure a scuola, come non fosse il caso di rinnovare un’antica vergogna. E non mi dispiaceva: avevo visto le foto seppiate dei cadaveri di malandrini e delle loro donne, nudi come selvaggi (ma denudati dai civilizzatori); le teste mozzate da inviare a lombrosiani ricercatori di caratteri e fisionomia del perfetto delinquente (meridionale, ovvio, per natura). Nel film ci era toccata la parte del cattivo.

Avvertivamo, noi studentelli del Sud, il fastidio di aver risposto alla gloriosa epopea garibaldina, con una masnada di grassatori e tagliaborse, dai cappellacci a cono, come le streghe, e schioppo a trombone in spalla: trogloditi alti uno e cinquanta, scuri di pelle e di negro crine, fronte bassa, occhio torvo e spento (succede, se fotografi i morti); un po’ Barabba, un po’ Giuda (31 scudi: uno in più, fu la buonuscita che l’Italia unita diede ai garibaldini meridionali, quando se ne liberò, perché non le servivano più). Vuoi mettere lui? Un Gesù Cristo armato, il biondo capello al vento dei vincitori, con l’eccentricità del poncho, bianco destriero, barba dorata e occhio ceruleo che mira oltre l’orizzonte, a quel futuro tricolore illuminato dai riflessi della sua spada (l’arma dei cavalieri) puntata contro il… sole. Quello è un uomo! E se il libro di storia ti chiede da che parte vuoi stare, tu che gli dici: sono meridionale come il brigante o “italiano” come Lui?
Eppure, avrei potuto capire molto prima come stavano davvero le cose, perché non c’erano condanna e vergogna nel tono con cui mio padre mi indicò il luogo in cui era stato esposto, a Gioia del Colle, il corpo del Sergente Romano http://it.wikipedia.org/wiki/Sergente_…, nostro compaesano. Pareva narrasse quasi di un eroe, non di un brigante; e io non compresi il valore di quella incongruenza. Non feci domande, tanto ero lontano dall’idea che ci fosse qualcosa da aggiungere o correggere riguardo a quel che ci era stato consegnato come verità. Né mio padre disse altro: era restìo a parlare di cose truci. Della guerra, del campo di concentramento, per dire, mi confidò poche cose solo alcuni anni prima di morire.
E non aveva torto sul Sergente Romano. Lo scoprii quando le letture non scolastiche di storia fecero sapere anche a me che l’Unità d’Italia a spese del Sud non debellò il “brigantaggio”, ma lo generò, quale fioritura opportunistica di delinquenti in una stagione di grande illegittimità e confusione; come guerra civile, fra i cafoni derubati delle terre demaniali liberamente coltivabili e i galantuomini che le avevano usurpate; e come guerriglia di ex militari napoletani, patrioti e cittadini che non accettarono la fine delle libertà, del benessere e dei diritti (pur criticabili per quantità e qualità, come sempre, ovunque) goduti sotto il re Borbone delle Due Sicilie e sostituiti da un regime di terrore, spoliazione e arbitrio: quel «sistema di sangue», secondo Nino Bixio, il vice di Garibaldi, «inaugurato nel Mezzogiorno» da occupanti che parlavano francese o dialetti mai uditi.
Soldati del re napoletano, sudditi legittimisti, cafoni impoveriti e veri briganti finirono insieme e questo li rese, per l’invasore e i suoi libri di storia, tutti briganti. E tale fu considerato chiunque fosse sospettato di simpatia, conoscenza, consanguineità (brigante lui? Brigante il padre, brigantessa la madre, brigante il figlio della sorella, brigantessa pure quella…). Perché non si mantennero distinti soldati e ladroni? Nel 1979, per un reportage, raggiunsi i guerriglieri khmer rossi nella giungla. Al pranzo “ufficiale”, con il governo alla macchia della Cambogia invasa dai vietnamiti, ebbi accanto il ministro della Scienza e tecnologia: ex imprenditore, era stato l’Agnelli o il Moratti del suo paese. L’intera sua famiglia era stata soppressa dai comunisti-terroristi a tavola e al governo con lui. «Ma come fa a starci?» gli chiesi. «L’alternativa sono i vietnamiti che sterminano quel che resta del mio popolo, dopo il massacro condotto da chi ha ucciso i miei» rispose (in perfetto italiano, oltretutto).
«Finora avevamo i briganti» scrisse Vincenzo Padula, cronista dell’epoca, liberale, favorevole all’impresa unitaria, in Calabria. Prima e dopo l’unità, «ora abbiamo il brigantaggio; tra l’una e l’altra parola corre grande divario. Vi hanno briganti quando il popolo non li ajuta, quando si ruba per vivere o morire con la pancia piena» (ma questo non avveniva solo al Sud); «e vi ha il brigantaggio quando la causa del brigante è la causa del popolo.» E se non è così, il ribelle non dura, faceva osservare, nel 1865, un legittimista, Tommaso Cava de Guéva (lo riferisce Francesco Mario Agnoli in Dossier Brigantaggio): nel 1849, in un mese, Garibaldi rimase solo e in fuga, negli Stati pontifici; Pisacane e i suoi trecento giovani e forti furono fatti a pezzi con roncole e forconi dalla popolazione; i fratelli Bandiera e compagni, in quattro giorni erano dinanzi al plotone d’esecuzione. E sulla qualità dei briganti, il marchese di Villamarina avvertiva Cavour che «le masse» erano guidate da «ufficiali e sottufficiali» borbonici. (Da duecento ex militari napoletani era composta la “Squadra Ciccone”, che rimase imprendibile per otto anni; nel 1868, un’imponente formazione piemontese la circondò e sterminò.)
Il Sergente Romano fu a un passo dal divenire un Garibaldi alla rovescia: era accolto da liberatore nelle cittadine che conquistava, sconfiggendo guardie nazionali, carabinieri e soldati piemontesi; riuscì a inquadrare militarmente, al suo comando, le principali formazioni irregolari che battevano la Puglia, e condusse operazioni con quelle di altre regioni; ai suoi ordini (a proposito di briganti) c’erano Michele Clericuzio, per anni istruttore nei reggimenti borbonici, e tanti altri provenienti dalle disciolte armi napoletane: soldati di linea, cacciatori, granatieri, gendarmi reali, dragoni, lancieri. All’inizio, Romano arruolò solo ex commilitoni, ma sapeva di non poter scegliere i suoi uomini; l’impresa che tentò, e quasi gli riuscì, fu di trasformare il brigantaggio in vera guerra civile e legittimista. Nel suo diario, racconta che «un dì si presentarono meco tredici masnadieri», sedicenti «difensori di Francesco II e della santa Chiesa». Salvo scoprire che «si permettevano pure fare i furti senza la mia conoscenza dove io ordinava di andare ordinatamente e militarmente con educazione»; e che borbottavano: «Siamo chiamati ladri e dobbiamo rubare». Lui, per darsi alla macchia, spese i suoi risparmi: mille piastre.
Gli occupanti dovettero impiegare migliaia fra soldati, carabinieri e guardie nazionali, per riuscire a isolare l’ex ufficiale, catturarlo e ucciderlo.
Un cronista della «Gazette de France» raccontò, mesi dopo: «A Gioia, un contadino mi indicò il luogo dove i vincitori esposero con orgoglio, per otto giorni, il cadavere fatto a pezzi. Tutti gli abitanti del paese vollero contemplare un’ultima volta gli avanzi irriconoscibili dell’eroico brigante; si andava là, come a un pellegrinaggio santificato dal martirio; gli uomini si scoprivano, le donne si inginocchiavano, quasi tutti piangevano: egli portava nella tomba il cordoglio e l’ammirazione dei suoi conterranei».
Il popolo non credette alla sua morte. C’era chi giurava di averlo incontrato nei boschi: «È vivo. Tornerà». Come re Artù. La leggenda dice che a morire fu un altro; lui era invulnerabile e immortale, per la speciale medaglia mandatagli dal papa, come scrisse ai propri genitori Carlo Gastaldi, che disertò l’esercito piemontese per unirsi a lui (non fu il solo “soldato blu” a passare con gli “Apache”) e ne divenne miglior amico e segretario-luogotenente. Da atti processuali dell’epoca si apprende che «nell’esaltata immaginazione delle moltitudini», il Sergente Romano «sarebbe vissuto, per molti anni ancora, occulto, solitario e ramingo».
E mio padre ne doveva aver udito parlare in quei termini: da messia, non da delinquente. A lui, persone vicine ai fatti narrarono il coraggio di un uomo; a me, i libri di storia, il disonore di troppi ribaldi e del popolo che li espresse. Dall’orgoglio alla vergogna. Sono sempre più numerosi, al Sud, quelli che ripercorrono questo rio all’incontrano, per ritrovare, con la verità sull’origine della loro storia unitaria, la ragione di esserne fieri. E uscire dallo stato di minorità.
Napoli, 2009: l’esercito di Franceschiello marcia su palazzo reale, per il cambio della guardia. È il 23 maggio, centocinquantesimo anniversario della morte di re Ferdinando II di Borbone. «Siamo tornati!» dice Alessandro Romano, 54 anni, funzionario del ministero dell’Interno (si occupa di emergenza e protezione civile), che ha ricostituito, con divise e armi d’epoca, le forze armate delle Due Sicilie. Nelle rievocazioni storiche, marcia alla loro testa. La potenza di fuoco, nonostante la momentanea e pretenziosa riconquista della ex capitale, non impensierisce: «Ci sono i trentacinque del Reggimento lucano, da Potenza, con fucile ad avancarica e baionetta, due tamburi, tamburino rullante e tromba; i ventidue dell’Armata di mare: dodici dalla Sicilia, con sei fucili, cannoncino navale, tamburino, due vivandiere e dieci da Savona (meridionali fuorisede); il Primo Reggimento esteri, da Cassino (si rifà ai reparti svizzeri dei Borboni): sei, con fucili».
Lui, fatto capitano dalla principessa Urraca di Borbone, brandisce un cimelio: «La spada di Pietro Quandel, eroico difensore di Gaeta assediata dai piemontesi. Ne sono il custode; a suo tempo, dovrò affidarla a chi merita. L’esercito delle Due Sicilie era cattolico e aveva doppia sovranità, sulle armi e sullo spirito. Le armi non ci sono più, lo spirito incarnava gl’ideali della cavalleria. Contro il nemico sei costretto a usare violenza, non crudeltà: disarcionato, diventa un fratello da soccorrere». È un uomo mansueto e onesto, Alessandro, ma il dubbio gli viene: «Per questo perdemmo…». Nella decisiva battaglia del Volturno, decine di soldati borbonici si tuffarono nel fiume, per salvare i garibaldini in fuga, travolti dai vortici. E, per questo, «un caporale, Gianfrancesco Agostino del Sesto Cacciatori, venne addirittura promosso sergente e decorato» rammenta Gigi Di Fiore in I vinti del Risorgimento. Sorge persino il sospetto, almeno in Vincenzo Gulì (Il saccheggio del Sud), che «Francesco II volesse perdere il trono». Se così fu, lo fece con dignità, persino con coraggio; e un’umanità vietata a chi regge un paese. Lo fece da buon cristiano. Ma lo fece. E verso l’esilio, nel manifesto Ai popoli delle Due Sicilie, scriverà che «al momento in cui la rovina dei miei nemici era sicura, ho fermato il braccio dei miei generali».
Di cimeli, capitan Romano ne ha altri, ricomprati dal parente che li acquistò, nel 1930, a Torino, all’asta dei corpi di reato, e appartenuti al leggendario Sergente, suo avo: coccarda, binocolo e pugnale (li conserva in una teca che sa di tabernacolo. Casa sua è un archivio infinito di documenti, fotografie, testi legali, riproduzioni di immagini d’epoca).
L’alfiere del Quinto reggimento borbonico, Pasquale Domenico Romano, dopo l’invasione savoiarda delle Due Sicilie, guidò commilitoni e “briganti” alla riconquista di mezza Puglia, prima d’esser preso. «Finitemi da soldato» chiese, ormai circondato e solo. «No, muori da brigante» gli negò Michele Cantò, sergente pure lui, ma lombardo. Trafitto e “sciabolato”, «fu miseramente spogliato della divisa borbonica e issato come una preda a un palo sopra un carretto» si legge in Briganti e partigiani, e poi finì a marcire nel centro della sua Gioia del Colle. Era il 9 gennaio 1863. Dopo un secolo e più, con il lento recupero della memoria, un pellegrinaggio commemorativo onora quella data, nel bosco (una volta davvero tale) di Vallata. C’è un obelisco.
Ogni residuo bosco, al Sud, è «il Bosco dei briganti»; ogni grotta è «la Grotta dei briganti» e ogni anfratto inesplorato o mozzicone di masseria, abbazia, castello in rovina cela il luogo, mai scoperto, del «Tesoro dei briganti» (anche se qualche improvviso benessere è stato spesso spiegato con il contrario).
«A nove anni,» ricorda Chiara Curione, discendente e biografa di Romano (Un eroe dalla parte sbagliata) «mia nonna mi disse che il Sergente era suo zio. “Non un brigante, ma un eroe che si batteva per il suo re.” Negli anni, ho approfondito. Era vero.»
Romano aveva 21 anni quando il suo paese fu invaso: un ritratto lo mostra bello e fiero in divisa, barba curata, capelli folti. Figlio di un ricco allevatore della Murgia, nell’esercito crebbe in cultura, stile, grado. Era una persona perbene e lo riconoscevano persino i compilatori dei bollettini di guerra piemontesi. Il suo comportamento nell’esercito borbonico era stato esemplare e quello di cittadino «italiano», dopo la conquista piemontese del Sud, non fu da meno: la sua fedina penale rimase immacolata, in un tempo in cui un debole entusiasmo per il nuovo re bastava per ritrovarsi in carcere, senza necessariamente essere accusati di qualcosa. Tanto che lo storico Antonio Lucarelli, suo principale biografo, scrive che fra la “ciurmaglia” degli altri oppositori armati all’invasione, il Sergente si distingueva per «naturale ingegno, pertinace volontà, indole intraprendente» ma soprattutto «per una certa rudimentale cultura e per assenza di precedenti penali» (Il sergente Romano. Brigantaggio politico in Puglia dopo il 1860).
Da partigiano, fu imprendibile, coraggioso; e spietato, se occorreva. Nel 1862, nel Brindisino, due squadriglie di guardia nazionale di Cellino San Marco e San Pietro Vernotico e un plotone di carabinieri intercettarono i “briganti” e andarono all’assalto. Salvo fuggire, appena videro che si trattava del Sergente Romano. Una dozzina furono presi e “processati” dall’ex ufficiale borbonico, che aveva una efficientissima rete di informatori («Giuseppe Mauro, tu avevi quattro carlini al giorno come spia, sotto Francesco, e ora ne hai tre sotto Vittorio Emanuele.» Fucilato). Un milite, Vitantonio Donadeo, invocò la Madonna del Carmine e l’arma che doveva finirlo s’inceppò. «Alzati, che tu sei salvo» lo graziò Romano, anche lui devoto della Vergine del Carmine, per la quale scriveva preghiere.
Era abile in campo aperto, ma più in azioni da commando. Le guardie civiche di Alberobello, «perlustrando le finitime selva», scoprirono una sua polveriera, la sequestrarono, catturarono il guardiano. Lui, con una trentina dei suoi, assaltò la caserma, liberò il prigioniero, recuperò le munizioni sequestrate, portò via bandiere, tamburo e armi delle guardie. E le guardie. Che liberò fuori paese. Lo stupore partorì un esclamativo nel rapporto del prefetto: tutto «in un quarto d’ora!».
Ma l’impresa che ne aveva rivelato le capacità e l’audacia era stata la riconquista di Gioia del Colle, ventimila abitanti. Un paese, il suo (e il mio), che cova furori (oggi, parrebbe, e per fortuna, sedati). Ogni sessant’anni circa, la passione politica vi partoriva una strage intestina. Lucarelli, nato in un paese vicino, scrive che gli abitanti di Gioia arrivano a tali macelli, per «risolutezza di carattere, insofferenza ai soprusi (…) l’impulso dell’animo impetuoso e ribelle» e «sostengono i loro principi e la loro fede con acerrima gagliardia». Nel 1799, lo scontro fu fra giacobini e sanfedisti; a capo degli opposti partiti, due fratelli, Pasquale (giurista e letterato) e Cesare Soria: avversari cercati casa per casa, saccheggi, uccisioni, persone arse vive, danze degli assassini. Un sabba di sangue. Nel 1861, l’opposizione era fra legittimisti borbonici e unitaristi, con tutte le sfumature del caso: molti, favorevoli all’idea dell’Italia una, ne ebbero disgusto quando videro che si riduceva a oppressione e rapina del Sud («Bella è l’unione nazionale,» ebbe la disgrazia di dire ad alta voce il mite barone e giurista Gianantonio Molignani «ma noi saremo i pezzenti dell’Italia unita». E si guadagnò il carcere).
Dopo l’uccisione di un caporale della guardia nazionale, il Comitato di sicurezza di Gioia decise di farla finita con Romano e i suoi uomini; d’accordo con il prefetto, unì le proprie forze (militi e cittadini armati) a quelle di altri quattro popolosi centri e mosse sul bosco di Vallata. Il Sergente seppe tutto subito, grazie al suo servizio di spionaggio. E, pressato dai suoi, invece di fuggire, attaccò Gioia, aggirando la colonna che gli dava la caccia. Il paese era ben difeso, anche da un cannone che sparava a mitraglia, ma l’impresa riuscì e il popolo seguì il libertador al grido di «Viva Francesco II! Abbasso Vittorio!». Dall’altra parte, soprattutto professionisti, proprietari, artigiani, persino preti che impugnavano fucili. Si combatté strada per strada, più o meno: borghesi contro cafoni.
Il peggio accadde nelle retrovie: gli oppressi di ieri andarono a caccia dei loro pari e vicini di casa divenuti oppressori o presunti tali. Giovani garibaldini e guardie nazionali furono tratti dalle loro abitazioni e linciati in strada. Un’orgia di violenza, seppur contenuta nei numeri, visto quel che accadde dopo: in sette vennero macellati dalla folla. Ma su Gioia, ormai, convergevano dalle cittadine prossime e dal capoluogo, centinaia di uomini di rinforzo per gli assediati: carabinieri, militari, milizie locali, cittadini di buona volontà e buona fucileria. Il Sergente riuscì a sgusciare, con i suoi, dalla tenaglia in cui le truppe sopraggiunte chiusero il paese.
Di quel che accadde dopo, le cronache narrano poco, perché lo fecero i vincitori, ma potrebbero bastare le cifre: l’orgia ricominciò, con aggressori e vittime a ruoli invertiti; i militari fucilavano su semplice indicazione dei cittadini, a lotti di decine o singoli; altri “civili” provvedevano da soli (mentre nel Regno delle Due Sicilie non solo era sacro il diritto alla difesa dell’imputato, ma da quasi cento anni c’era già l’obbligo, per i magistrati, di motivare le loro sentenze). Quei sette linciati dal popolo furono vendicati dal resto del popolo, con qualche eccesso, se alla fine della mattanza si contarono oltre centocinquanta cadaveri. Una rappresaglia venti a uno: manco i nazisti alle Fosse Ardeatine.
Passata un’altra sessantina di anni, nel 1920, il mio paese rispettò la sua turbolenta tradizione: quaranta proprietari terrieri tesero un agguato ai braccianti che chiedevano il pagamento del lavoro fatto, ma non richiesto («Chi vi mandò?» chiese il giudice a un bracciante, nel processo che seguì. «L’appetito» rispose quello). I padroni spararono nel mucchio, uccisero sei operai agricoli, ne ferirono cinquanta. La sera, superstiti e altri contadini strapparono dalle case cinque possidenti, li linciarono in piazza; due morirono, tre sopravvissero. Mio padre era un bambino di nove anni; da quattro lavorava come aiutante del padre fabbro. Vide. Mi raccontò del colpo inferto da una donna a uno degli agrari, creduto morto, ma tradito da un rantolo dell’agonia: «Gli schiacciò la testa con una pietra del marciapiede: “Maledetto, ancora campi?”». Il 1980 (1920 + 60) è passato liscio: a Gioia non hanno linciato nessuno. A volte, la perdita delle tradizioni ha i suoi lati positivi…
La ferocia è la prima arma delle guerre civili: i familiari dei ribelli venivano incarcerati, sequestrati, uccisi, come la fidanzata del Sergente Romano, Lauretta D’Onghia (aspettavano «la novella di esser nel treno il nostro re», le aveva scritto lui, per tornare “liberi” e sposarsi). I guerriglieri/briganti conducevano la lotta con metodi brutali, «comunque non più di quelli praticati dai piemontesi, ma perseguivano un fine politico, esattamente come i loro avversari e con in più la buona ragione di essere non gli aggressori, ma gli aggrediti» scrive in Dossier Brigantaggio, il bolognese Agnoli, già nel Consiglio superiore della magistratura e presidente di sezione di Corte d’appello.
E nella relazione della Commissione d’inchiesta sul brigantaggio, letta in seduta segreta alla Camera, il 3 maggio 1863, del Sergente Romano si dice che «non era abbietto come gli altri; aveva coraggio, e morì combattendo; (…) né la consuetudine del delitto gli aveva soffocato ogni senso di onestà»; scriveva bene e «soleva far celebrare, pagandola, una messa nella cappella della Masseria detta dei Monaci». Indosso non gli trovarono denaro o gioielli, ma «poesie, preghiere per la Vergine (cui lo legava una devozione profonda), il suo famoso diario e l’ancor più famoso giuramento cui sottoponeva i suoi affiliati» («Promettiamo e giuriamo di difendere gli stendardi del nostro re Francesco II (…) e per non vedersi più abbattuta la nostra Chiesa cattolica romana»).
«Nella mia famiglia» narra oggi il bis-bisnipote Alessandro «era vergogna persino nominarlo “zio Domenico”, il Sergente. Ancora adesso, la maggior parte dei miei parenti preferisce non avere nulla a che fare con il “brigante”. Noi Romano, sradicati da Gioia del Colle, finimmo fra Campania e Calabria. Il ramo da cui provengo da tre generazioni ha messo radici nell’isola di Ponza. Io non sapevo nulla del Sergente. Fu il fratello di mio nonno, Salvatore, a parlarmene: “Guagliò, t’aggi’ ‘a di’ ‘na cosa”. Era un navigante, aveva visto il mondo e sapeva più degli altri. “Quello che sta nei libri di storia so’ bugie: i piemontesi non hanno unificato l’Italia, hanno allargato il Piemonte e a noi Romano c’hanno rovinato”.
Mi spiegò che avevamo subito spoliazioni tremende, ma che un nostro parente era morto da eroe, da partigiano. Io ero ragazzo, non capii bene; credevo parlasse della Seconda guerra mondiale. E quando compresi, mi domandai perché mi narrasse di cose tanto lontane e con toni così misteriosi (“Io te lo dico, ma tu non ne parlare in giro, nemmeno in famiglia”). “Non è vero che Garibaldi fu accolto come liberatore” mi spiegava. “Non è vero che i Borbone erano tiranni. Non è vero che al Sud c’erano fame e miseria: dal Sud non se ne andava nessuno. Allora.” “E perché non si deve dire?” gli chiedevo, ogni volta, incuriosito: “Non è ancora tempo. Non è il tempo” rispondeva lui. “L’importante è che tu sappia come stanno veramente le cose.” A me pareva che esagerasse. E ne parlai con mio padre. Lui si arrabbiò molto. “Lascialo perdere zio Salvatore, dice un sacco di sciocchezze.” Ma suo fratello, zio Luigi, mi confermò che era la verità. E un disonore.
Seppi, così, che la mia famiglia custodiva un segreto ambiguo, che induceva alcuni alla vergogna, altri all’orgoglio. Al liceo lessi La conquista del Sud, di Carlo Alianello poi un articolo di Denis Mack Smith, così snobisticamente british con gli italiani, ma diceva proprio quello che mi aveva raccontato zio Salvatore. Che aveva ragione anche quando mi consigliava di non parlarne “ché ancora non è tempo”. A scuola distribuii centinaia di fotocopie dell’articolo di Mack Smith, fra incredulità o dileggio. Ormai volevo sapere com’era andata davvero: vivo per raccogliere documenti, libri, fare sopralluoghi. L’assunzione al ministero degl’Interni mi agevolò nelle ricerche in archivi e biblioteche di stato. Ricordo il primo verbale di “processo” che mi capitò fra le mani: l’ufficiale piemontese chiedeva a un pastorello lucano di 17 anni come mai avesse quelle scarpe. Il ragazzo non capiva, quello parlava un’altra lingua. L’ufficiale gli comunicò che lo condannava per brigantaggio, perché erano scarpe in dotazione all’esercito “italiano”. E il poveraccio ancora non capiva di dover spiegare che ne era entrato in possesso senza ammazzare nessuno. Immaginai il suo sperdimento, la paura, la rabbia di non rendersi nemmeno conto di cosa volesse da lui quella gente e perché lo trattassero male. Poi comprese: gli fecero cenno di girarsi dinanzi al plotone d’esecuzione schierato. Udì che caricavano le armi. Fucilato alle spalle. Mi misi a piangere.»
Quest’ansia di memoria perduta divenne ragione di vita per Alessandro Romano: «I sorrisini, le prese in giro che suscitavo al liceo, quando raccontavo cosa mi aveva confidato zio Salvatore… Decisi: avrei trovato le prove che era tutto vero».
Così, il pronipote del brigante iniziò a ripercorrere un’epopea dimenticata, a partire dal suo stesso nome e dal suo sangue.
«Dal 1979 batto i paesi del Sud, archivi comunali, notarili, ecclesiastici, biblioteche. E ho incontrato altri come me. Ci siamo divisi i compiti: io mi occupo soprattutto di brigantaggio e resistenza; Argentino d’Arpino del recupero dei cippi confinari fra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio; Antonio Ciano degl’intrighi politici e delle stragi dei Savoia al Sud; Gennaro De Crescenzo dei primati del Regno duosiciliano nell’arte, nella scienza, nell’industria, nei commerci; Lorenzo Terzi della ricerca dei documenti perduti: ha un fiuto sovrumano, come se sapesse già dove scavare nella montagna di faldoni con sopra più di un secolo di polvere; Luca Esposito del recupero dei nomi degli eroi caduti nelle ultime roccheforti, Gaeta e Civitella, e dei luoghi in cui furono sepolti: Gaeta fu bombardata mentre si firmava la resa; a Civitella fucilarono i prigionieri dopo che si erano arresi!
Noi siamo per l’Italia una e indivisibile: è nata con i soldi che ci hanno preso e col nostro sangue. La federazione andava fatta prima, non dopo che ci hanno fregato tutto.
Ma la verità la voglio; il rispetto per la nostra storia, per i nostri simboli ci è dovuto. Negli Stati Uniti si onorano la memoria degli Stati del Sud, i loro eroi nella guerra civile. Zio Salvatore diceva che non è ancora il tempo. Io credo che di tempo degl’inganni, degl’insulti, delle bugie ne sia passato pure troppo: si deve sapere come eravamo e come ci hanno ridotti. Se rinnego la mia storia rinnego me stesso.
Ricordo quando, ai miei colleghi del ministero, mostravo i documenti che avevo recuperato: il loro stupore, l’incredulità, la rabbia, la vergogna (“Hanno fucilato i bambini!” “Hanno stuprato le donne!” “Hanno distrutto il paese!” “Hanno chiuso le fabbriche!”). È lo stesso sguardo confuso che vedo negli occhi degli studenti, quando mi invitano a parlare delle mie ricerche nelle scuole. Per questo voglio che sia tutto documentato, che nessuno possa nutrire dubbi: le cose sono tanto diverse da come ce le hanno raccontate, che non puoi chiedere a chi ti ascolta di crederti e basta. Di tutto, anche dei più minuti dettagli devi fornire le prove. E non sempre è sufficiente: a volte, pur di fronte a documenti inoppugnabili, ottieni il silenzio, lo scetticismo. Quando non la chiusura, il rifiuto.»
Alessandro Romano fa trentacinquemila chilometri l’anno in auto, tiene conferenze, espone mostre dal brigantaggio all’economia preunitaria; a volte gli pagano la benzina; a volte l’albergo, o è ospite di “compatrioti”. Brucia fine settimana e ferie. Nel 2003 lanciò nel web la Rete di informazione delle Due Sicilie (comitato@legittimisti.it); otto collaboratori, migliaia di abbonati. La redazione è a casa: quattro computer fissi, due portatili; la figlia Alessia seleziona messaggi, è l’esperta informatica; mentre Francesca, laurea in scienze storiche («Disoccupata per disoccupata, a meno mi piace»), è in Francia, studia gli Angioini; la moglie Rosanna, insegnante, corregge le bozze. «Don Paolo Capobianco, figlio dell’ultimo nato nel Regno delle Due Sicilie, maestro di noi tutti, autore di tanti libri e mente acutissima sino alla morte, a 99 anni, diceva: “Siamo molti e non lo sappiamo”.»
Nel 1983, l’investigazione sulle proprie radici portò Alessandro Romano al paese d’origine, Gioia del Colle. «Ero il primo a tornare, della mia famiglia, dopo tre generazioni. Cercai la casa del Sergente, con una mappa dell’epoca: l’intreccio delle vie era rimasto quello. Ma qualcosa non quadrava, non rintracciavo la casa. Finché scoprii che, in quella che ne era stata la corte, avevano costruito un’altra abitazione, sbarrando la via. E finalmente identificai il portoncino: tremavo per l’emozione.»
Bussò. «Aprì un’anziana signora. “Lei è…?” chiesi. “Maria Carolina Savoia.” “Sa…?”, “…voia.” Solo omonima, non parente. E no…! Me ne andai».
Quel cognome (mi hanno spiegato miei parenti di Gioia) indicherebbe soltanto la provenienza della famiglia: Margherita di Savoia, il paese sull’Adriatico con le più grandi saline d’Italia, «il gioiello della mia corona», diceva Ferdinando II di Borbone. Il re che poi rubò il trono e il paese al figlio Francesco, volle privarlo pure di quel vanto e le Saline di Barletta (questo il loro vero nome) vennero dedicate alla prima regina dell’Italia unificata. I cani segnano il territorio conquistato con la loro urina, i vincitori con i loro nomi.
La casa che era dei Romano dista poche decine di metri da quella in cui sono nato. La storia del mio paese (l’Italia) e quella del mio paesello (Gioia del Colle) avrei potuto conoscerla da subito. Ma siamo stati educati a vergognarcene e a nasconderla. Gli sconfitti, in questo, spesso assecondano i vincitori: i primi per cancellare la sconfitta; i secondi, un crimine. Ma, per quanto profondo sia il mare del tempo in cui li fai affondare, i cadaveri, prima o poi, tornano a galla.
E quando riaffiora, la coscienza della propria storia vuole gridare, imporsi, pareggiare i conti.
«E c’è già chi vuole capitalizzarla in voti, in politica. Figurati!» commenta Romano, che crede molto prematura la cosa. «Prima bisogna ristabilire la verità; quindi, recuperare la memoria e mutarla in identità. Poi far evolvere l’identità in orgoglio, l’orgoglio in politica, voti, potere. E solo a quel punto, riequilibrare la storia.» È un romantico; sarà deluso.
Sono molti a voler accelerare i tempi: negli ultimi anni, sono sorte formazioni culturali e politiche per intercettare e incanalare il risorgente sentimento (e risentimento) meridionale. Il Partito del Sud fu tra i primi a nascere, per iniziativa di Antonio Ciano, di Gaeta, ex comunista, ex ufficiale di marina mercantile, autore di I Savoia e il massacro del Sud e Le stragi e gli eccidi dei Savoia
. Il partito è presente in Lazio, Campania e Sicilia; mentre in Lombardia è sorto Per il Sud; a Napoli era nata la Lega Sud, già alleata di Bossi, poi non più; infine ha preso corpo il movimento Io Sud, in Puglia, per iniziativa dell’ex ministro di Alleanza Nazionale, Adriana Poli Bortone; mentre il Movimento autonomista siciliano di Raffaele Lombardo conquista la presidenza della regione e buona parte del partito berlusconiano, in Sicilia, progetta di divenire “locale”.
Ma fu lo stesso una sorpresa quando, nel 2008, a Gaeta, città-simbolo della resistenza all’invasione piemontese, il Partito del Sud di Ciano e una lista civica vinsero le elezioni per il Comune e la città divenne l’unica, sopra i ventimila abitanti, non amministrata da uno dei due poli nazionali. «Dopo centoquarantasette anni ci siamo ripresi la fortezza» proclamò Ciano.
E cosa intendesse dire si capì subito.
«Per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta ha avviato le procedure per chiedere ai Savoia il risarcimento dei danni dell’assedio del 1861: duecentosettanta milioni di euro (pari a due milioni di lire dell’epoca). Vittorio Emanuele ed Emanuele Filiberto li volevano per i cinquantaquattro anni di esilio subito. Noi, per migliaia di morti e la città distrutta ci siamo tenuti bassi» spiega Ciano (assessore alla Toponomastica, per sua premeditata scelta), confortato dal parere di legali e giuristi. «Gaeta non aderì mai al Regno d’Italia; potrebbe pretendere l’autonomia, non applicare le leggi varate durante il regno dei Savoia; riprendersi i beni demaniali incorporati da questo stato. Se la nostra iniziativa legale avesse successo, divideremmo il risarcimento con le altre città “eccidiate” dai Savoia: decine.
Gaeta, dal 1861 al 1914, chiese più volte il rimborso delle devastazioni di quattro mesi di bombardamenti. Ancora dopo un secolo e mezzo» protesta Ciano «gran parte della città è demaniale, non ci appartiene. Per passeggiare sul lungomare (solo un quarto è comunale), si paga dazio allo stato; per far andare a scuola i bambini, gli dobbiamo versare un canone. Nel 2001 ci siamo ribellati. Non paghiamo: un milione di euro di arretrato.»
Tecnicamente, le richieste di risarcimento dei danni di guerra di Gaeta sono irricevibili, perché il Piemonte non dichiarò guerra al Regno delle Due Sicilie. Lo invase e basta. «E noi lo chiediamo a chi volle l’invasione e ne godette i benefici: i Savoia.» Che c’entrano i pronipoti? «Non hanno rinunciato all’eredità. Chi si tiene i vantaggi, si prende pure i debiti. Si può reclamare il sequestro dei gioielli della corona custoditi dalla Banca d’Italia; rifarsi sui beni personali.»
Che vuol dire che la città non aderì all’Italia dei Savoia? «Il generale Cialdini convocò gli amministratori per farlo,» spiega Ciano, con documenti. «Si presentarono cinque decurioni (consiglieri comunali) su venticinque. Per legge, ci voleva la maggioranza dei due terzi. Se ne accorse Cavour, che chiese un elenco di notabili della città. La “Gazzetta Ufficiale” pubblicò l’atto con quei nomi: un falso (storico) in atto pubblico.»
Cialdini, per assediare la fortezza, impose «a tutt’i gaetani che abitavano fuori dal forte, costituenti i quattro quinti della popolazione, lo sgombero della città in dieci ore», riporta una memoria del 1866, firmata da sindaco e giunta, per chiedere il rimborso dei danni. Passate le dieci ore «né persone, né cose potranno più asportarsi, e le persone saranno arrestate e trattate come agenti segreti del nemico». «Un gaetano ogni cinque fu bersaglio dei cannoni» enumera Ciano. «Gli altri auattro divennero nullatenenti e mendicanti.»
«Quel che fé truppa di quel conio, meglio è che si taccia» si legge nella memoria.
Ciano non tace: «A Terracina sorse un mercato nero per la roba che “i fratelli del Nord” rubavano a Gaeta» (anche nel 1849, quando l’esercito piemontese punì la Genova ribelle, i danni delle bombe furono dieci volte inferiori ai furti commessi dai soldati). «Per accamparsi, devastarono metà dell’intero territorio coltivato, giardini millenari. L’inverno fu siberiano, quell’anno, e per scaldarsi distrussero centomila ulivi. Di trecento frantoi, non ne rimane uno: smontati e rimontati altrove; alcuni, ho scoperto, sono finiti sul lago di Garda.»
«Le vegete campagne restarono tosate e le case crivellate» dice la memoria del 1866.
«Divisero la città in tre zone militari,» continua Ciano, «e il commercio marittimo fu stroncato: trecento bastimenti, cantieri navali secolari, con duemila dipendenti, sessantaquattro paranze di pescatori. Tutto finito. E, dopo la violenza, l’emigrazione. Per il martirio inflittole dai Savoia, la città non si è più risollevata, tutte le sue fonti di reddito sono state inaridite, si è svuotata. Gaeta era stata per secoli una città importante nel mondo, una capitale del mare. Fu ridotta a un paesello. Costretti all’esodo, miei parenti e molti altri si arruolarono con gli austriaci, contro gli italiani, a Lissa e a Custoza; e ottant’anni dopo, con gli Stati Uniti. All’obiezione: “Dovrete uccidere gli italiani” uno dei miei parenti americani rispose: “Spero tanti”. “Ci hanno cacciato,” mi spiegarono poi “siamo tornati per ammazzarli! ” Mio nonno, che era del 1874, mi raccontava che ancora quando era ragazzo lui, “ogni mattina i piemontesi fucilavano almeno uno di Gaeta, sulla piazza”. Qui, dei Ciano, sono rimasto solo io. Ci sono più gaetani in Massachusetts che a Gaeta: cinquantamila a Sommerville (dov’è nato il nostro sindaco, Anthony Raimondi), trentamila a Rochester, decine di migliaia a Puerto la Cruz, in Venezuela e in California, in Michigan, in Uruguay (che ebbe un presidente di Gaeta). Non avevamo mai conosciuto l’emigrazione, prima del massacro del 1860-61. Chi andava via, come Giovanni Caboto, l’ammiraglio (da cui ancor oggi l’influentissima famiglia dei Cabot-Lodge), lo faceva perché invitato a insegnare il mare ad altri popoli.»
Il primo a emigrare dal Regno delle Due Sicilie “libera to” fu l’ultimo dei Borbone regnanti, Francesco II, il sovrano sconfitto a Gaeta. La storia a volte si diverte: poco più di ottant’anni dopo, l’ultimo dei Savoia regnanti, Umberto II, emigrò, verso l’esilio pure lui, e partì da Napoli, dalla stessa scaletta d’imbarco usata da Francesco II
«Da noi, la bestemmia è: “Mannaggi’ a Garibaldi”; il gioco dei bambini che ovunque si chiama “guardie e ladri ‘ da noi è: “giocare a brigante e cento piemontesi”» dice Ciano.
Altro che Bossi contro l’Italia unita! «E no! L’Italia fu unita col sangue nostro, i soldi nostri rubati e portati al Nord. E mo’ ce la teniamo: l’abbiamo pagata. Siamo repubblicani e unitaristi, non contro i Savoia e con i Borbone. Ma il nostro paese ci tratta da nemico sconfitto. Nel 1999, dettero al Piemonte seicentocinque miliardi di lire, per riattare ex beni dei Savoia. A noi niente. Solo tramite la Regione riavremo i beni demaniali chiesti. E nulla ci è stato dato dei centocinquanta milioni di euro per le celebrazioni dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, nel 2011. Abbiamo presentato dei progetti.. manco ci hanno risposto..

Pino Aprile

fonte https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=38838

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