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STORIA CRONOLOGICA DELL’ANTICA CAPUA – di Salvatore Fratta (VII)

Posted by on Dic 1, 2020

STORIA CRONOLOGICA DELL’ANTICA CAPUA  – di Salvatore Fratta (VII)

Circa cinque anni impiegarono i romani per riconquistare la città ribelle.

L’assedio a Capua fu posto dai consoli: Claudio Pulcro con due legioni verso Pozzuoli; Fulvio Flacco fra il Volturno ed il mare; il pretore Caio Claudio Nerone dispose le sue truppe in un campo trincerato presso Nola.

La situazione di Capua divenne sempre più drammatica per la mancanza di viveri e senza possibilità di ricevere rifornimenti per la costante sorveglianza dei Romani che, nel 212, sconfitto il comandante Annone , si erano impadroniti di tutto il grano inviato dalla Puglia.

Nell’autunno dello stesso anno, “… un triplice pretorio fu eretto intorno a Capua: tre eserciti cinsero la città di fossati e trincee … I Capuani si chiusero entro le mura e le porte … I Romani, che disponevano di sei legioni, circondarono con due ampi e profondi fossati la città che, ormai ridotta allo stremo, mandava ad Annibale allarmanti notizie sulla sua condizione e la richiesta di accorrere presto in suo aiuto.

Con un reparto scelto di fanti, circa 30.000 uomini, cavalieri e trentatré elefanti, arrivati poco prima da Cartagine, Annibale marciò celermente verso Capua, e giunto nei pressi della città assediata, si fermò con i suoi uomini in una valle dietro il monte Tifata ”. (T.Livio U.C.XXVI,4)

Ancora oggi ne persiste il ricordo per la località nota come Ponte Annibale, vaga reminiscenza di un passaggio, ponte o passerella che sia, costruito dai soldati del condottiero cartaginese per valicare facilmente il Volturno.

Poco dopo l’arrivo delle truppe cartaginesi, si combatté l’ultima battaglia…..

“ da una parte l’assalto venne diretto dallo stesso Annibale, dall’altra proruppe l’impeto di tutti i Campani, cavalieri e fanti, ai quali si aggiunse il presidio cartaginese, comandato da Bostane e da Annone ”. (T.Livio U.C. XXVI,5)

Claudio Pulcro si oppose ai Capuani, il console Fulvio Flacco con la cavalleria degli alleati italici si schierò contro Annibale, mentre il pretore C. Nerone, con la cavalleria delle sei legioni, si posizionò sulla strada che andava a Suessola.

Clamori si levarono dalle fila dei soldati pronti allo scontro; ad esso si aggiunse quello della moltitudine dei cittadini capuani che, stando sulle mura, percuotevano oggetti metallici provocando un rumore assordante che distraeva i combattenti.

La sesta legione al comando di Fulvio cedette sotto la pressione di una coorte spagnola e degli elefanti che essa aveva in dotazione.

Nel combattimento si distinse il centurione Q. Navio uomo di alta statura, imponente nella sua armatura che gli donava grande prestigio. Impugnata l’insegna dell’alfiere del secondo manipolo degli astati, si precipitò in mezzo alle schiere nemiche incitando i soldati a seguirlo, e, né la moltitudine nemica, né la violenza dei dardi scagliati contro di lui ebbero la forza di fermarlo.

Si combatteva aspramente davanti alla trincea del campo romano ed in essa si rovesciarono i corpi degli elefanti uccisi creando così un passaggio per i cartaginesi come se fosse stato costruito un terrapieno. Sopra le carcasse degli animali infuriò una terribile mischia. (T.L.-U.C.-XXVI,6)

Purtroppo, presso la porta attraverso la quale si andava verso il Volturno, i Capuani ed il presidio cartaginese furono respinti con notevoli perdite, mentre i superstiti vennero ricacciati in città. Anche i Romani ebbero gravi perdite e il console Appio Claudio Pulcro, mentre incitava i suoi al combattimento, venne colpito da un giavellotto nella parte alta del petto.

Nota. – Questa notizia su Appio Claudio è controversa. Si dice che per tale ferita morisse sotto le mura di Capua; mentre, poi, lo ritroviamo a discutere con Fulvio sulla sorte dei senatori capuani fatti prigionieri dopo la resa della città.

Annibale, vista la strage della coorte spagnola e la strenua difesa dei Romani, abbandonò l’assalto, ritirò le insegne e fece ritirare i reparti di fanteria, difesi alle spalle dalla cavalleria che contrastava i reparti romani incalzanti. Si dice che nella battaglia caddero ottomila soldati di Annibale e tremila Campani.

Allora i Capuani si accorsero di quanto scarso aiuto fosse stato dato da Annibale.

Il Cartaginese aveva ritenuto che, per riuscire a levare l’assedio a Capua, doveva marciare su Roma: in tal modo le truppe assedianti avrebbero lasciato Capua per difendere la loro Patria: “ minacciare Roma per salvare Capua. Lasciò il Tifata nottetempo, negli ultimissimi giorni di marzo ”. (G.Granzotto op.cit.).

Ad un soldato numida che, pronto a tutto dietro compenso, era disposto a passare le linee romane ed entrare in città, Annibale diede una lettera da consegnare ai Capuani; in essa diceva che la sua partenza sarebbe stata la salvezza per loro e che nel giro di pochi giorni li avrebbe liberati definitivamente dall’assedio.

Il soldato numida che ricevette il compito di consegnare la missiva, avrebbe dovuto oltrepassare le linee romane, facendosi passare per uno dei tanti disertori che quasi ogni giorno si allontanavano dalle fila dell’esercito cartaginese. Ma questo non avvenne, perché una ragazza capuana, amante di un soldato numida che aveva già disertato, vedendosi abbandonata e sapendo della missiva, riferì tutto al comandante del campo romano. Radunati, allora, tutti i disertori presenti nel campo, oltre settanta, dopo averli frustati, e mozzate loro le mani, furono rimandati a Capua. (T. L. – U.C. -XXVI,12)

Partite notte tempo, le truppe cartaginesi arrivarono facilmente a Roma, nei pressi di Porta Collina. Ma la città non venne attaccata. Si racconta di un gesto simbolico compiuto da Annibale: si fece dare un giavellotto, ne avvolse la punta con uno straccio asciutto a cui appiccò il fuoco e con tutta la sua forza lo scagliò al di là delle mura.

Mentre Annibale era presso Roma, Bostase, il comandante delle truppe puniche a protezione della città di Capua, pensò di mandargli uno scritto rimproverandolo di aver consegnato la guarnigione cartaginese ai romani e di essere assente per non vedere la resa della città.

Inoltre, nella stessa missiva si diceva che se Annibale fosse ritornato a Capua sia la guarnigione, sia i Campani sarebbero stati pronti a fare una sortita.

Annibale rimase davanti alle mura di Roma per cinque giorni; dopo ritornò su i suoi passi e si diresse verso la Puglia, abbandonando Capua a se stessa.

Svanite, così, le ultime speranze di rivedere Annibale, Capua si arrese senza condizioni.

Era la metà di aprile del 211 a.C. Il console Fulvio Flacco vi entrò con una legione e due reparti (alae)di cavalleria.

La città riconquistata venne severamente punita. Vibio Virro, principale sostenitore del partito filocartaginese si tolse la vita, avvelenandosi insieme a ventisette personaggi altolocati, mentre 53 senatori capuani, principali responsabili della rivolta contro Roma, su ordine del console vincitore, Quinto Fulvio Flacco, dovettero consegnare tutto l’oro (2.700 libre) e l’argento (31.200 libbre) e poi furono tradotti, in catene, venticinque a Cales e ventotto a Teanum Sidicinum.

Sulla pena da infliggere ai prigionieri i due comandanti, Fulvio e Claudio, erano di idee diverse. Infatti, anche per avere la possibilità di interrogarli, il secondo era favorevole al perdono, mentre l’intenzione di Fulvio era quella di infliggere una punizione esemplare.

Per questa diversità di opinioni si decise di scrivere al Senato di Roma. Ma senza attendere l’arrivo della risposta, Fulvio, con duemila cavalieri, si portò a Teano e ordinò di condurre i senatori capuani al suo cospetto. Giunti, costoro, nel foro della città, pubblicamente li fece frustare e poi decapitare.* Subito dopo, velocemente, si recò a Cales dove, senza indugio, rifece la stessa cosa. Tito Livio aggiunge che poco prima dell’eccidio era arrivata da Roma la risposta del Senato che Fulvio, intenzionalmente non lesse.

* Nota – L’autorità dei magistrati romani, e ancor prima quella dei magistrati etruschi, aveva come simbolo il fascio littorio: un fascio di verghe per fustigare e al centro una scure per decapitare, portato a spalla dai littori che precedevano il magistrato.

Ma fra i tanti, secondo quanto scrive Tito Livio, non era stato fatto prigioniero Kerrino Vibellio detto Taurea, il migliore fra i cavalieri capuani e celebre per aver sfidato Claudio Asello il cavaliere romano che godeva di una fama pari alla sua, e, come già accennato, di aver preso parte al banchetto offerto dai fratelli Ninnii (detti celeres) in onore di Annibale appena entrato in Capua.

Nel foro di Cales, Taurea si fece largo tra la folla, e rivolto al console così gli disse: “ Uccidi anche me in modo che ti possa vantare di aver ucciso un uomo molto più forte di te.” Il console gli chiese se fosse privo della ragione, e poi gli rispose che anche se avesse voluto, glielo impediva il decreto senatoriale ricevuto poco prima (ma letto dopo aver decapitato tutti i prigionieri capuani)

Allora Taurea, con fare ardito, replicò: “Ora che la mia città natale è stata presa, che i miei parenti e i miei amici sono perduti, che ho ucciso di mia propria mano mia moglie e i miei figli per sottrarli all’insulto e all’oltraggio (che i vincitori solitamente impartivano ai vinti) e siccome mi viene rifiutata l’opportunità di morire come i miei compatrioti, che io trovi nel coraggio la liberazione di questa vita che mi è diventata odiosa”.

E subito dopo, estrasse una spada tenuta nascosta fra le pieghe del suo abito e, trafiggendosi il cuore, cadde morto ai piedi del generale.

La popolazione di Capua: vecchi, donne e bambini furono venduti come schiavi; ai più facoltosi furono confiscati tutti i beni. Trecento capuani, sospettati di collusione con i cartaginesi, furono inviati a Roma, chiusi nelle prigioni e lasciati morire di fame. Solo due persone si salvarono dalla vendetta romana e riebbero i propri beni e la libertà: “ Vestia Oppia di Atella, ma dimorante a Capua e Pacula Cluvia che una volta aveva esercitato la prostituzione. La prima, ogni giorno, aveva fatto sacrifici per la salvezza e la vittoria del popolo romano; l’altra, di nascosto, aveva fornito viveri ai prigionieri romani ”. (A.U.C. – libro XXVI, 33)

I pochi appartenenti alle classi dirigenti, che riuscirono a sfuggire alla cattura, si dispersero verso città e territori greci dove si insediarono e svolsero varie attività, soprattutto attività commerciali. Furono salvi, inoltre, coloro che si erano schierati dalla parte dei romani, come i 300 cavalieri inviati a guardia della Sicilia. Ma, pur ricevendo lo stato di cittadini romani e i diritti da esso derivanti, furono aggregati al municipio di Cuma.

Il Senato romano, infine, deliberò che Capua fosse privata di ogni diritto e, pertanto, il governo della città venne affidato ai Praefecti Capuam Cumas.

L’abitato, a cui furono risparmiati incendi e demolizioni, fu espropriato divenendo proprietà statale e in quanto tale, venduto o dato in affitto a liberti, mercanti, artigiani, una popolazione che non godeva di alcun diritto politico; e Cicerone così si espresse “ salva fu Capua, perché fosse ricettacolo di aratori, mercato di villici e cellaio e granaio della tera campana ”.

Nell’anno successivo, il 210 a. C., il territorio appartenente a Capua, il famoso Ager Campanus, divenne ager publicus populi Romani, proprietà demaniale concessa in affitto a chi lo richiedesse, costituendo in tal modo, una sicura fonte di rendita per le casse di Roma, svuotate dalla guerra.

Finalmente, Capua, la rivale di Roma, tanto odiata, ma anche tanto invidiata, era stata annientata.

E secoli dopo, così si espresse, nel 63 a. C., Cicerone: “ I nostri antenati tolsero a Capua le magistrature, il senato, l’assemblea, insomma tutte le insegne dello stato e non lasciarono alla città null’altro che il vuoto nome di Capua, non per crudeltà ma per prudenza, perché vedevano che quella città poteva essere sede dell’Impero … (De Lege Agraria I,19)

….. essi riconoscevano che sulla Terra solo tre città potevano sostenere il peso ed il nome dell’Impero: Cartagine, Corinto e Capua ”. ( op. cit. I )

(continua)

curato da Salvatore Romano

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