“Storia della spedizione dell’eminentissimo cardinale D. Fabrizio Ruffo” di Domenico Petromasi a San Lorenzello
il 4 di gennaio a San Lorenzello verrà presentato l’ultimo lavoro dell’Ass. Id. Alta Terra di Lavoro con saggio introduttivo di Fernando Riccardi sull’epica marcia dei Sanfedisti condotta dal Cardinale Fabrizio Ruffo. Non poteva mancare la recensione di Alfredo Saccoccio, il più grande studioso di Fra’ Diavolo, sul testo che di seguito proponiamo per presentare l’evento.
Torna tra gli scaffali il libro “Storia della spedizione dell’eminentissimo cardinale D. Fabrizio Ruffo” di Domenico Petromasi, edito nel lontano 1801, per i tipi di Vincenzo Manfredi, e ristampato, in copia anastatica, recentemente a cura dell’Associazione Identitaria Alta Terra di Lavoro e con un saggio introduttivo dello storico roccaseccano Fernando Riccardi; saggio che narra l’impresa del Vicario Generale di Sua Maestà Ferdinando IV di Borbone, che riesce, senza uomini, all’inizio, e senza mezzi al riacquisto del reame di Napoli.
Pregevole il testo di Riccardi, frutto di un’attenta ed approfondita ricerca scandagliando negli archivi e nelle biblioteche di Napoli le “ormai consunte cronache sepolte sotto una densa coltre di polvere”. Esso attesta la raggiunta maturità di un autore, che, da anni, frequenta argomenti di storia patria e che ha superato i confini del provincialismo di maniera.
Grande merito di Fernando Riccardi, ricercatore che ama remare spesso controcorrente, sempre però nel rispetto della realtà storica, che è poi quella che promana dai documenti d’archivio, dai quali non si può e non si dovrebbe prescindere, è quello di aver diradato le nebbie che avvolgevano, fitte ed impenetrabili, gli avvenimenti e i fatti d’armi accaduti nel 1799, ad opera del cardinale Ruffo, persona “di rari talenti dotato dalla natura, e di straordinario coraggio fornito dal cielo”, a detta del commissario di guerra e tenente colonnello dei Reali Eserciti di S. M. Siciliana, che aveva vissuto gli avvenimenti in prima persona.
Il prelato calabrese si rese protagonista di un’impresa clamorosa, la riconquista del regno, progetto ritenuto temerario, pieno di ostacoli, con poche possibilità di riuscita. Partendo da Punta del Pezzo, alla chetichella, con soli sei uomini, senza artiglieria, senza denaro, ma con la forza della fede e dei valori tradizionali, l’esercito crocesegnato crebbe di numero, in maniera consistente, raggiungendo, in pochi giorni, il numero di ventimila uomini, tra cui anche russi, turchi, portoghesi, dalmati, albanesi ed inglesi. L’ eterogenea truppa del cardinale Ruffo, che poi potette contare su quarantamila uomini, risalì la Penisola verso la capitale del reame, scontrandosi con i soldati del generale Filippo Wirtz, già colonnello nelle fila borboniche, che rimase ucciso nel combattimento al Ponte della Maddalena, guarnito da una formidabile artiglieria. Il porporato era riuscito, in soli cinque mesi, a restituire al sovrano Ferdinando IV, grazie all’ “Armata Cristiana e Reale”, il regno di Napoli, perso ad opera dei francesi e dei cosiddetti “patriotti” partenopei, rei di aver aiutato i nemici dei Borbone nell’installazione del governo repubblicano a Napoli e nelle province.
Un zelante cooperatore di Fabrizio Ruffo nell’opera conquistatrice del reame fu Michele Pezza, alias “Fra’ Diavolo”, colonnello e duca di Cassano allo Ionio. A Napoli il legittimista borbonico combatté contro il generale Francesco Bassetti, a Capodichino, sconfiggendolo e ferendolo. Nella capitale Michele partecipò a tutti i combattimenti occupando le fortificazioni di Castelnuovo e di Castel dell’Ovo, dove si trovavano 40.000 fucili. Galvanizzati dal suo coraggio e dal suo selvaggio ardore, gli insorti, in seguito, ingrossarono le sue fila. Il Pezza, a Napoli, dette grandi prove di valore reagendo contro l’idea di conquista e di sopraffazione e contro le speciose ideologie, che, con l’Illuminismo, si erano propagate in tutta Europa.
L’itrano fu un uomo infamato, screditato, fatto passare da ribaldo, da volgare grassatore, da sanguinario rapinatore. In realtà, egli non era altro che un grande partigiano, un guerrigliero che lottava, con tutte le forze, per la propria terra, il Sud d’Italia, fedele ai principii della Monarchia teocratica, alla Santa Vergine, devoto all’altare.Un personaggio che ha lasciato un segno indelebile nella fantasia storica. Pochi personaggi hanno fatto breccia nell’immaginario collettivo come “Fra’ Diavolo”. La leggenda che accompagna le sue imprese è legata a quello strano soprannome di battaglia, che suonò come un incubo alle orecchie dei fantaccini francesi inviati fra le montagne impervie del Meridione d’Italia, tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento. Michele fu un patriota, una sorta di eroe nazionale, cui viene riconosciuta una grandezza e una legittimità della resistenza alla conquista e alla sottomissione, venute con le baionette. La democrazia non si esporta con i cannoni e i fucili.
Il leggendario ribelle, dal cuore generoso e nobile, sempre pronto (ne aveva fornito mille prove) ad osare tutto per il trono e per la Chiesa, era legato, in maniera inscindibile, alla cultura del proprio Paese, con un profondo amore per il focolare domestico, quello dei padri, reso sacro dalle tombe ancestrali. Egli accettava, con profondo rispetto, le decisioni delle “autorità secolari”, che conservavano il genio della stirpe. La religione gli imponeva l’obbligo di osservare regole morali. Per il Pezza la patria non era soltanto una parola vuota di significato; la patria voleva dire tre cose: il suolo, gli abitanti e la religione, trasmessa di generazione in generazione.