Storia di S.Leucio
E’ necessario che la coltre di bugie che circonda la nostra identità collettiva sia fugata. La consapevolezza del passato ci aprirà gli occhi e ci permetterà di guardare al futuro. [Nicola Zitara]
Prima ancora che prendesse il nome attuale, vi era un feudo dei conti Acquaviva di Caserta noto come Palazzo del Belvedere o Palagio Imperiale descritto nel 1667 da Celestino Guicciardini. Annesso vi era anche un casino da caccia che fu restaurato poco più tardi da Francesco Collecini. Nel 1750, i possedimenti degli Acquaviva passarono ai Borbone di Napoli, e il feudo divenne un romitorio per i reali[1].
Stanco del caos e degli intrighi della corte reale casertana, tuttavia, nel 1773 Carlo di Borbone volle costruirsi un ritiro solitario dove poter trascorrere del tempo spensierato. Scelse le colline che fiancheggiavano il Parco di Caserta dove già sorgeva un rudere di una cappella dedicata a San Leucio, il martire brindisino, dal quale prese il nome[2].
Il romitorio comprensivo di una vigna e di un boschetto, era frequentato dal re per brevi periodi, dopodiché era custodito da alcuni guardiani di stanza con le proprie famiglie. Il 17 dicembre 1778, tuttavia, accadde un fatto inusitato che determinò il destino della colonia. Il primogenito del re ed erede al trono, Tito Livio, morì in un incidente di caccia. Il re, scosso dall’evento, decise di erigere un ospizio per i poveri della provincia presso il quale assegnò un opificio per non tenerli in ozio, all’uopo fece giungere sul posto delle imprese dal nord Italia tra le quali la Brunetti di Torino[2]. La colonia crebbe rapidamente così che si decise di costruire ulteriori edifizi per migliorarne le funzionalità tra i quali una parrocchia, degli alloggi per gli educatori e dei padiglioni per i macchinari. L’organizzazione era affidata a un Direttore generale affiancato da un Direttore tecnico che monitorava la condizione degli impianti. L’istruzione tecnica degli operai era affidata al Direttore dei Mestieri ciascuno per ogni genere. Si voleva in tal modo riprendere l’idea dell’organizzazione “colbertina” francese[3].
Le commesse di seta provenivano da tutta l’Europa: ancor oggi, le produzioni di San Leucio si possono ritrovare in Vaticano, al Quirinale, nello Studio Ovale della Casa Bianca: le bandiere di quest’ultima e quelle di Buckingham Palace sono fatte con tale materiale. Si ritrovano testimonianze dell’arte anche nelle celebrazioni e nelle festività popolari, specialmente nel capoluogo partenopeo, come ad es. la festa di Sant’Anna a Porta Capuana e la Madonna del Carmine nell’omonima Basilica al Mercato[4].
Il re Carlo di Borbone, consigliato dal ministro Bernardo Tanucci, pensò di inviare i giovani in Francia ad apprendere l’arte della tessitura, per poi lavorare negli stabilimenti reali. Licenziato Tanucci nel 1776, gli subentrò Domenico Caracciolo che diede grande impulso alla colonia. Fu così costituita nel 1778, su progetto dell’architetto Francesco Collecini, una comunità nota come Real Colonia di San Leucio, basata su norme proprie. Alle maestranze locali si aggiunsero subito anche artigiani francesi, genovesi, piemontesi e messinesi che si stabilirono a San Leucio richiamati dai molti benefici di cui usufruivano gli operai delle seterie.
Ai lavoratori delle seterie era, infatti, assegnata una casa all’interno della colonia, ed era, inoltre, prevista per i figli l’istruzione gratuita potendo beneficiare, difatti, della prima scuola dell’obbligo d’Italia che iniziava fin da 6 anni e che comprendeva le materie tradizionali quali la matematica, la letteratura, il catechismo, la geografia, l’economia domestica per le donne e gli esercizi ginnici per i maschi[2]. I figli erano ammessi al lavoro a 15 anni, con turni regolari per tutti, ma con un orario ridotto rispetto al resto d’Europa. Le abitazioni furono progettate tenendo presente tutte le regole urbanistiche dell’epoca, per far sì che durassero nel tempo (abitate tuttora) e fin dall’inizio furono dotate di acqua corrente e servizi igienici.
Per contrarre matrimonio gli uomini e le donne, compiuti rispettivamente almeno 20 e 16 anni, dovevano dimostrare di aver conseguito uno speciale “diploma al merito” concesso dai Direttori dei Mestieri[2]. I matrimoni si svolgevano il giorno di Pentecoste con una celebrazione particolare: a ogni coppia era assegnato un mazzo di rose, bianche per gli uomini e rosa per le donne, fuori la chiesa li aspettavano gli anziani del villaggio, di fronte ai quali le coppie si scambiavano i mazzi di fiori come promessa di matrimonio[2]. Ciascuno era libero di lasciare la colonia quando voleva, ma, data la natura produttiva del luogo, si cercava di inibire tali eventualità, ad es., facendo divieto di ritorno in colonia oppure riducendo al minimo le liquidazioni[2].
La produttività era garantita da un bonus in danaro che gli operai ricevevano in base al livello di perizia che avevano raggiunto[2]. La proprietà privata era tutelata, ma erano abolite le doti e i testamenti[2]. I beni del marito deceduto passavano alla vedova e da questa al “Monte degli orfani”, cioè la cassa comune gestita da un prelato che serviva al mantenimento dei meno fortunati. Le questioni personali erano giudicate dall’Assise degli Anziani, cd. seniores, che avevano raggiunto i massimi livelli di benemerenza ed erano di nomina elettiva[2]. I seniores monitoravano anche la qualità igienica delle abitazioni e potevano deliberare sanzioni disciplinari nonché espulsioni dalla colonia.
Per contrastare la concorrenza straniera, i leuciani si aprirono al mercato dell’abbigliamento con la produzione di maglie, calze, broccati e velluti. Così, seguendo la moda francese, si passò dai pekins ai tulle, dai chines ai reps[1]. La fortuna delle produzioni leuciane è ampiamente documentata fino alla prima metà dell’800 quando l’impianto ebbe l’esclusiva sullo straordinario tessuto “fili di vetro” scoperto da Gio. U. Ruforf[1]
Il re Ferdinando IV di Borbone progettò di allargare la colonia anche per le nuove esigenze industriali dovute all’introduzione della “trattura” della seta e della manifattura dei veli, quindi per costruirvi una nuova città, da chiamare Ferdinandopoli, concepita su una pianta completamente circolare con un sistema stradale radiale e una piazza al centro per farne anche una sede reale. Non vi riuscì, ma nei quartieri annessi al Belvedere mise in atto un codice di leggi sociali particolarmente avanzate, ispirate all’insegnamento di Gaetano Filangieri e trasformate in leggi da Bernardo Tanucci.
Ferdinando IV preferiva San Leucio in modo particolare e vi organizzava spesso battute di caccia e feste condivise con la stessa popolazione della colonia. Il sovrano firmò nel 1789 un’opera esemplare che conteneva i principi fondanti della nuova comunità di San Leucio: Origine della popolazione di San Leucio e suoi progressi fino al giorno d’oggi colle leggi corrispondenti al buon governo di essa di Ferdinando IV Re delle Sicilie conosciuti più comunemente come gli Statuti di San Leucio. Tale codice, voluto dalla consorte Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, fu scritto dal massone Planelli su ispirazione di Mario Pagano e di altri illuministi[2] e fu pubblicato dalla Stamperia Reale del Regno di Napoli in 150 esemplari. Il testo, in cinque capitoli e ventidue paragrafi, rispecchia le aspirazioni del dispotismo illuminato dell’epoca ad interpretare gli ideali di uguaglianza sociale ed economica e pone grande attenzione al ruolo della donna.
Diverse opportunità erano offerte anche agli invalidi del lavoro che potevano rimanere in loco dopo l’infortunio; per questi fu progettato un ospizio apposito, la “Casa degli infermi”, che però non fu possibile portare a compimento a causa della discesa di Napoleone Buonaparte in Italia e della nascita della Repubblica Partenopea nel 1799[2]. Pertanto, gli invalidi continuarono a sopravvivere grazie a delle donazioni spontanee dei lavoratori diplomati al merito, raccolti in un’apposita cassa dai seniores. Gli operai addetti alla coltivazione dei campi, invece, potevano vendere una parte del raccolto al mercato in base ai prezzi stabiliti dal sovrano.
Nel 1789 Lady Elisabeth Craven, moglie di Lord Craven, magravio di Anspanich, soggiornò per qualche settimana a Caserta scrivendo le sue memorie nel Portrait du Roi Ferdinand che fu pubblicato a Londra nel 1826: «mi fornì spiegazioni non pure su tutte le regole dello stabilimento ma fin più intricati congegni meccanismi che rendevano quel lavoro più agevole». Tra il 1790 e il 1796 anche Giuseppe Galanti, allievo di Antonio Genovesi, si soffermo sul posto: «il più lodevole in questa costituzione è che nulla si fa per forza. L’onore ed altri piccioli problemi debbono bsatare a far osservare le leggi»[5].
In seguito alla Restaurazione il progetto della neo-città fu accantonato, anche se si continuarono ad ampliare industrie ed edifici, tra cui il Palazzo del Belvedere. Nel 1824 il governatore Antonio Sancio fece erigere una statua del Re che oggi è visibile al Museo nazionale ferroviario di Pietrarsa. Nel 1826 su ordine del ministro card. Fabrizio Ruffo si decise di aprire una manifattura di pellame che però non riscosse il successo desiderato tanto da rischiare di far andare in malora l’intera colonia. Nel 1834 i Borbone decisero di costituire una società insieme a dei privati, tale fu la configurazione organizzativa fino all’Unità d’Italia. Nel 1862, nonostante lo sviluppo della produzione e il perfezionamento del nuovo tessuto “Jacquard”, i Savoia ne decisero la chiusura, riaprendola poi appena quattro anni dopo, ma concessa ancora in locazione ad imprese private[2].
Nel 1976, in occasione del bicentenario della fondazione, si iniziò a guardare a San Leucio con maggiore attenzione, grazie al lavoro di ricerca compiuto dal Politecnico di Milano in collaborazione con la Pennsylvania University. Nel 1981 il luogo entrò nell’orbita del finanziamento della legge Scotti-Signorile sugli itinerari turistici ma solo tre anni dopo fu possibile aprire il cantiere grazie anche ad un concorso di idee sponsorizzato dalla Fiat. Dopo 15 anni di lavori e la spesa di 55 miliardi di vecchie lire, è stato possibile nel 1999 recuperare gli spazi funzionali con l’inaugurazione del Leuciana festival[6][7].
non so chi lo ha scritto, attendo eventuali comunicazioni