SVIMEZ COSA DICE…..
Cento anni di vita nazionale attraverso la statistica delle regioni, Roma 1961, pag. 18 2. Istat, Annuario Statistico Italiano 1938, pag. 438
Una breve scorsa è sufficiente a dedurre che essendo la popolazione meridionale poco più di un terzo del totale italiano, produce più del 50% del grano, l’80% dell’orzo e dell’avena, il 53% delle patate, il 41% dei legumi, prodotti che rappresentano la base dell’alimentazione popolare.
Un discorso a parte è necessario poi per l’olio, che il meridione produce nella percentuale del 60% e per gli agrumi la cui produzione è da attribuirsi interamente al Sud. Essi rappresentavano all’epoca ed insieme ai semilavorati di seta (prodotta al sud) e alla seta greggia (prodotta in Lombardia), le voci più importanti nelle esportazioni italiane. La domanda estera di olio lampante necessario ad alimentare le lampade di tutta Europa e altrettanto necessario come lubrificante ai cotonifici inglesi è altissima, l’olio meridionale viene quotato in borsa a Londra. Esso insieme allo zolfo che la Sicilia estrae dal proprio sottosuolo nella misura del 90% dell’intera produzione mondiale ed elemento essenziale per la produzione dell’acciaio, rappresentava il vero oro del Sud prima e dell’Italia unita poi. Per circa un secolo essi saranno gli unici beni che l’Italia sarà in grado di esportare all’estero e pagheranno insieme alle rimesse in valuta pregiata degli emigrati (sempre meridionali) le 3 o 4 fasi di industrializzazione della Padania. Continuando nell’analisi delle tabelle è evidente che fatto salvo l’allevamento di bovini, il quale è leggermente sottodimensionato rispetto alla popolazione e che per ragioni climatiche e la relativa assenza del prato al sud è possibile solo nelle zone pedemontane, tutti i tipi bestiame sono presenti in quantità superiore rispetto al nord, sia in valore assoluto che in percentuale rispetto alla popolazione. In campo industriale e manifatturiero, come già anticipato, è proprio al Sud che in Italia ha inizio un processo di ammodernamento. Lo Stato Borbone possiede le risorse economiche, provenienti dai surplus agricoli esportabili, per avviare l’industrializzazione e lo fa con un modello di tipo statalizzato e protezionistico. Una serie di accorti provvedimenti legislativi attirano nel sud italiano un buon numero di investitori stranieri, prevalentemente svizzeri e tedeschi, che sorretti e protetti dallo Stato danno vita a un tessuto industriale notevole. Ferdinando adotta il modello economico grazie a cui era nata l’industria francese, il cosiddetto “dirigismo colbertiano”. Nasce Pietrarsa, primo e più grande stabilimento metalmeccanico italiano, nascono Mongiana e poi Ferdinandea, centri siderurgici imponenti. Nascono soprattutto una miriade di industrie di medio e piccolo cabotaggio che producono di tutto, dalla carta ai guanti, dai semilavorati di cotone alle sellerie. Imponente è la cantieristica navale, non a caso erano meridionali i primi ed unici bastimenti italiani che approdavano nel periodo nei porti nordamericani e australiani, come meridionale fu il primo piroscafo italiano e la prima nave costruita interamente in ferro. Il Casertano, non a caso chiamato all’epoca “Terra di Lavoro”, diventa una delle zone più densamente industrializzate d’Europa. Certo questa industria non è in grado di competere con quella inglese o francese, la produzione copre fra si e no il fabbisogno interno, ma le commesse estere, limitate alle carrozze ferroviarie, alla cantieristica navale e ai guanti, produzioni nelle quali Napoli vanta primati nel mondo, prendono la via del Sud e non certo del Nord d’Italia. Ferdinando II protegge con uno schermo doganale feroce la neonata industria duosiciliana, sa bene che la concorrenza europea annienterebbe in poco tempo le manifatture interne in un regime di mercato liberistico e attende la maturità e la competitività del sistema interno prima di aprire le porte a merci estere. Un altro paese del mondo, più o meno nello stesso periodo, intraprese la stessa strada e adottò l’identico modello politico ed economico: il Giappone. Ragioni geografiche hanno voluto che il Regno di Napoli e quello del Sol Levante avessero sorti diverse. In Europa l’industria inglese, alla perenne ricerca di nuove risorse e sbocchi commerciali e sostenuta da un potente apparato politico e militare mai avrebbe consentito l’affermarsi di un modello economico diverso da quello liberal-massonico, tanto meno l’affermarsi di uno Stato autorevole posizionato strategicamente al centro del Mediterraneo. Il Giappone fu salvato dal suo isolamento e dalle tendenze ultranazionalistiche della sua classe dirigente e rappresenta oggi uno dei colossi dell’economia mondiale. La classe dirigente meridionale, rimbambita dai canti delle sirene di Cavour e soci, perdette se stessa e il popolo dando in pasto il Sud ai famelici inglesi e francesi e ai loro compari tosco-padani ricevendone in cambio qualche elemosina. Una tacita congiura tra pseudo-patrioti meridionali, scaltri politicanti e incalliti diplomatici, stronca l’intelligente opera di modernizzazione dei Borbone e il Sud precipita nelle grinfie della politica europea, impostata sulla crescita attraverso la colonizzazione diventando un territorio di pascolo aperto alle usure toscopadane. In ogni caso sotto la gestione ferdinandea neanche all’onnipotente Inghilterra riuscì di penetrare con successo nel Regno di Napoli, e ciò nonostante una decennale e intensa campagna di denigrazione guidata dall’inglese e massone Gladstone e un certosino lavoro di corruzione e logorio all’interno dello stesso Stato Borbone. I vari tentativi di fare il colpo grosso furono tutti repressi con vigore. L’occasione buona si presentò con la morte di Ferdinando II, ad appena 49 anni, a causa di una malattia inspiegabile. Gli succedette il figlio Francesco (23 anni), sposato con Maria Sofia (19 anni), intelligente e di buon carattere, ma giovanissimo e assolutamente impreparato a raccogliere l’onerosa eredità del padre e soprattutto a controbattere le bramosie straniere. Un attacco diretto al Regno è impossibile, con quale scusa aggredire uno Stato pacifico che si proclama neutrale e gode di buone amicizie internazionali? La strada da seguire doveva essere un’altra. Da tempo il Piemonte aveva intrapreso scelleratamente una politica espansionistica, che l’aveva portato al dissesto finanziario. La politica cavourriana, peraltro, improntata ad un liberismo zoppo (sarà definito in seguito, contraddittoriamente, “protezionismo dall’interno”) si era già rivelata fallimentare nel Regno Savoia ancora prima di essere applicata pedissequamente anche al regno duosiciliano, ad unità conseguita, con il risultato di strangolarne il fragile tessuto industriale. L’unica possibilità che rimaneva a Cavour era di mettere in conto ad altri gli enormi debiti contratti. L’Inghilterra e la Francia (con motivazioni diverse ma con gli stessi identici appetiti) puntarono sul piccolo regno subalpino affamato di conquiste per mettere le mani sull’Italia del sud e liquidare la dinastia Borbone. Si scelse un guerrigliero professionista qual’era Giuseppe Garibaldi che aveva le caratteristiche necessarie (personaggio controverso ma dotato di un certo fascino, forse non adatto ad una guerra in campo aperto, ma esperto di combattimenti in piccola scala avendo praticato la guerra corsara in Brasile, facilmente sacrificabile in caso di fallimento, legato a filo doppio alle logge massoniche inglesi), e un manipolo di disperati, gli si preparò il terreno attraverso una capillare opera di corruzione, gli si diede una possente forza di supporto (10-20 mila soldati piemontesi tutti dichiarati congedati o disertori che sbarcarono subito dopo i mille), si scelse la Sicilia per lo sbarco perché da sempre animata da sentimenti indipendentisti e antiborbonici e si tentò il colpo. L’operazione fu coronata da un successo al di là di ogni più rosea aspettativa. Rivendicazioni borghesi, la promessa ai contadini che gli usi civici si sarebbero trasformati in proprietà piena (promessa mai, ovviamente, mantenuta), classi dirigenti siciliane insofferenti al dirigismo borbone, l’appoggio poderoso della flotta inglese del mediterraneo, la corruzione di buona parte delle gerarchie militari dell’esercito e della marina duosiciliana furono i decisivi elementi che contribuirono al successo dei garibaldini. Un’analisi storica accurata evidenzia l’inconsistenza della forza militare di Garibaldi, che venne ripetutamente e sonoramente battuto in varie occasioni dalle truppe borboniche, che però venivano immediatamente richiamate dai comandanti di grado superiore. Clamorosa fu la conquista di Palermo ottenuta da qualche migliaio di garibaldini con 16.000 soldati duosiciliani chiusi nelle fortezze con l’ordine di non intervenire, mentre il generale Landi, comandante in capo delle forze borboniche in Sicilia, firmava su una nave – guarda caso inglese- e sotto gli auspici della diplomazia britannica un incredibile e inspiegabile armistizio, abbandonando poi la Sicilia con un esercito intatto e forte di 24.000 uomini ben armati e ben addestrati, senza aver combattuto nemmeno una sola vera battaglia e condannando a morte il Regno. Effettivamente molti dei sostenitori meridionali dei Savoia si accorgeranno presto del colossale errore, ma il danno era già fatto e non si poté porvi più rimedio. Le posizioni acquisite dai garibaldini furono rilevate direttamente dai luogotenenti piemontesi, che si affrettarono a scendere al sud con un corpo d’armata imponente. A poco valse il parziale successo delle truppe borboniche nella battaglia del Volturno, e la strenua resistenza delle piazzeforti di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto. Le ultime speranze meridionali si spensero sulle mura di una Gaeta assediata e martoriata dai bombardamenti piemontesi. Il popolo del sud ancora una volta, come nel 1799 e nel 1815, insorse a difesa della dinastia e di se stesso e pagò con qualche decina di migliaia di morti il tentativo di rimanere libero e indipendente. La ribellione fu repressa nel sangue da 120.000 soldati piemontesi che rimasero al sud per i dieci anni che rappresenteranno una delle pagine più buie della storia del Sud, imponendo un regime di terrore e la condizione di colonia, che permane ancora oggi. Le pretese francesi di imporre un proprio candidato sul trono di Napoli si spensero presto, in compenso le case d’affari parigine fecero affari d’oro con i titoli di stato italiani. Gli inglesi si tennero ben strette le preziose concessioni sulle miniere di zolfo siciliane, ottennero i vantaggi strategici sperati impiantandosi a tutto campo nel mediterraneo e rimanendoci fino a dopo la seconda guerra mondiale. Il problema maggiore per il Sud, al di là di come siano andate le cose, non fu la conquista, furono gli anni successivi a creare i problemi che ancora oggi il meridione paga. Una koinè veramente italiana si sarebbe forse potuta creare, l’Italia, benché nata nel sangue e nell’inganno avrebbe forse potuto diventare un vero Stato Nazionale e lentamente prendere sulla scena europea il ruolo, che le spettava e che era già stato del Regno delle Due Sicilie. Non si volle fare. Il progetto cavourriano era un altro, il ministro pensava ad un grande Piemonte non ad una grande Italia, e i suoi successori perseguirono pervicacemente il piano del Grande Tessitore portando l’Italia alla rovina. I primi quarant’anni d’unità saranno, infatti, disastrosi sotto ogni punto di vista per il novello popolo italiano, sia del nord che del sud, chi si avvantaggerà dello stato nazionale saranno solamente quello che la storiografia ci nomina come la “consorteria” tosco padana, che tradotto vuol dire alcune elìte di intrallazzatori e speculatori legati alla Banca Nazionale degli Stati Sardi.
fonte
blog.sudindipendente