Un filo dell’animo umano: i presepi di Maria Lai alla Certosa di Napoli
Alla Certosa di San Martino di Napoli, una piccola, delicata esposizione di presepi di Maria Lai che, con i loro simboli riletti in chiave contemporanea, testimoniano la profonda ricchezza dell’animo umano
A Napoli, la Certosa di San Martino, dall’alto di una collina, domina gentilmente la città. Il convento non ha più i suoi abitanti, che nel 1860 ne furono sloggiati, ma conserva ancora il segno della loro presenza. Il luogo è denso di altissima spiritualità, nei misteriosi segni frutto di ermeneutici saperi e di paziente lavoro “certosino”, mentre suggestioni metafisiche suggeriscono ai visitatori presenze misteriose, che aggiungono fascino a quello che è un ricchissimo forziere di opere d’arte.
Nel monumentale cortile all’ingresso, si apre la chiesa: una meraviglia di forme e di colori, un insieme di più voci così coerente che sembra opera di un unico grande artista. I suoi dipinti, quadri e affreschi, con quelli della Sagrestia e del Quarto del Priore, formano una magnifica antologia della pittura sei-settecentesca barocca napoletana.
Una cultura esuberante, tutt’affatto diversa da quella espressa nella mostra “Un filo nella notte”, che si è aperta la sera del 16 dicembre e che fa da capofila a un trittico di mostre che chiuderanno il 19 marzo 2023: “Napoli fin de siécle. Fotografia Artistica Pasquale e Achille Esposito”, e “De Vesevi Rebus”, di Ferruccio Orioli.
“Un filo nella notte” ha per oggetto il presepe, in accordo con questi giorni natalizi e con il famoso, napoletanissimo “Presepio Cuciniello” che, insieme ad altri meno noti, è in esposizione permanente proprio nella Certosa di San Martino. L’autrice delle opere de “Un filo nella notte” è Maria Lai (1919-2013), che credo non sia sbagliato considerare quale profonda interprete della sua terra. Maria nacque a Ulassai, un paese alle falde del massiccio del Gennargentu, nella subregione barbaricina dell’Ogliastra. Terra antica, testimoniata dai nuraghi, terra tra i monti che, da sempre, la difesero dalle invasioni di cui spesso la Sardegna è stata oggetto, iniziando dagli antichi Fenici, che non riuscirono a intaccarla. Così, nei secoli, la Barbagia è riuscita a conservare la propria identità. Ed è l’anima profonda della Sardegna che viene espressa in queste opere di Maria Lai.
Maria, da bambina, conobbe le difficoltà di una vita difficile, segnata, tra l’altro, dalla morte di una sorellina. Essendo di salute cagionevole, i suoi la mandarono da certi parenti a Gairo, un paese più vicino al mare, dall’inverno meno rigido. Ma fu allora che, a nove anni, la piccola Maria visse da vicino la tragedia dello zio che, avendo creduto di avere ammazzato, durante una rissa, un contadino, per il rimorso si uccise.
Le opere in mostra, di piccolo formato, sono fatte di materie a lei familiari: terracotta, sassi, legno, iuta e anche pane. I soggetti sono tratti dalla realtà contadina, in accordo con la tradizione del presepe. Sono pastori o animali domestici. Un gregge di pecore in terracotta, di colore scuro, assorbe la luce, un altro gregge che gli è posto accanto, smaltato di bianco, la rimanda. I personaggi semplificati, quasi geometrizzati ma senza gli spigoli della geometria euclidea, si avvicinano alle forme del cilindro.
Alcuni elementi sono simbolici. Come la breve striscia lucente che rappresenta la cometa annunciante la nascita divina. Oppure la spiga che, foriera di vita, sbuca dalla terra al cospetto del cielo luminoso punteggiato di stelle. Del presepe ci sono i personaggi tipici, che fanno parte anche della vita dei contadini della Barbagia. Alcune figure si impongono all’attenzione, come i tanti neonati morti che rappresentano la strage degli innocenti e come, bellissima, quella figura di donna gravida, semplificata al massimo, che guarda lontano e rappresenta la Madre che sa del futuro terribile che attende suo Figlio.
«Ogni opera parla più liberamente se di autore ignoto», ha detto Maria Lai, diventata celebre con le sue mostre in diverse città italiane e in tutto il mondo, dalla Biennale di Venezia a Documenta di Kassel e a Parigi. La Lai non era una sprovveduta. Ha frequentato le scuola a Cagliari per poi trasferirsi a Roma, per frequentare il liceo artistico e, da qui, a Venezia, per accedere all’Accademia di Belle Arti, dove prese lezioni da Arturo Martini, autore di sculture sdegnose di inutili ornamenti, dalla secchezza pregna di significato. Poi Maria ritorna in Sardegna, dove insegna disegno nelle scuole primarie e diventa popolare per le sue iniziative.
“Un filo nella notte” è un filo reale, che lega le persone tra loro e la sua gente alla montagna, il Gennargentu, che rimane nel suo cuore a significare quello che conta, i valori profondi della vita. Lei è rimasta un’artista sincera, senza concettualismi. «Che cosa intendevi per arte quando hai scelto questa strada?», le hanno domandato. «Fin da bambina…giocavo con serietà e, a un certo punto, i miei giochi li hanno chiamati arte».
Ci sono stati critici, invece, che hanno definito la sua arte Concettuale, mentre altri l’hanno definita Arte povera. Ma la Lai non ha mai considerato poveri i materiali che usa: per lei sono preziosi frutti della terra. Potremmo accostarla al “Minimalismo” ma solo per evidenziare la sua profondissima diversità da autori come Bob Law (1934-2004), il britannico di origine africana ex carpentiere, che viene considerato un fondatore di questo movimento. Ma tutta l’attività di questo artista, che pure si svolge all’insegna della semplificazione, si conclude, in effetti, con la cancellazione dei segni della civiltà occidentale. Come viene espresso chiaramente da un suo enorme quadro rettangolare di un bianco opaco, senza vita e senza luce, che rappresenta il vuoto, che è quello che, eliminato ciò che la nostra civiltà ha creato, ci rimane.
Viceversa, la semplificazione nelle opere di Maria Lai evidenzia l’efficacia e la pienezza di significato del suo discorso e la ricchezza umana della sua arte.
Adriana Dragoni
fonte
exibart.com