Un traffico infame ed il salvataggio di ottanta piccoli martiri (tratta dei fanciulli)
«La Stampa», 26 maggio[2] e 10 ottobre[3] 1901
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 26/05/1901
Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), Vol. I, Einaudi, Torino, 1959, pp. 350-367
Sono note le miserie ed i dolori della tratta dei fanciulli italiani condotti a lavorare ed a morire nelle vetrerie francesi e belghe. Alcun tempo fa un rapporto del cav. Scelsi, console generale a Lione, narrava cose dolorose ed incredibili sulla nostra emigrazione infantile nelle fabbriche del suo distretto consolare.
Ma le denunce, pur troppo, a nulla sembrano giovare, sovratutto quando vanno incontro all’indifferenza delle sfere ufficiali. Occorre compiere un’opera continua di propaganda e di lotta a tutela dei piccoli paria italiani sacrificati alla ingordigia di indegni sfruttatori.
L’opera – e noi possiamo andarne a buon diritto orgogliosi, perché si tratta della tutela sovratutto di piccoli meridionali – è stata iniziata da piemontesi.
Il comitato piemontese dell’Opera di assistenza per gli operai italiani emigranti in Europa e nel Levante, la benemerita associazione fondata da monsignor Bonomelli[4] (2), ha compiuto, sovratutto ad iniziativa del nostro concittadino Alberto Geisser e per opera del dott. Ugo Cafiero, un’inchiesta sulla tratta dei piccoli italiani nei circondari di Sora e di Isernia (provincia di Caserta e Campobasso), dove si compie con maggiore intensità il brutto traffico.
Noi abbiamo sott’occhio le bozze di stampa del bollettino dell’«Opera», dove saranno pubblicati i risultati dell’inchiesta; e dei particolari dolorosi che essa mette alla luce vogliamo largamente discorrere, lieti che dal Piemonte sia sorto un appello a favore degli schiavi bianchi meridionali, appello che confidiamo troverà larga eco nell’opinione pubblica, nel parlamento e nel governo.
A Sora e ad Isernia la popolazione è povera, estremamente povera. Perduto il raccolto del vino, perduto il raccolto dell’olivo, impossibile per la malaria l’industria lattifera, i contadini sono costretti ad emigrare. Se la emigrazione consistesse tutta di uomini e di donne, essa sarebbe un fenomeno normale, anzi benefico.
Ma ben presto la emigrazione diventa patologica. Individui ingordi si accorgono che essi possono guadagnar molto di più trafficando sui piccoli fanciulli che non lavorando all’estero.
Il giudice Maietti così energicamente delinea il fenomeno:
«Pretore per circa 12 anni in provincia di Caserta, ove la tratta è fiorentissima, posso ben certificare che l’avidità del denaro è causa principale di tanta ignominia. Gli incettatori in pochi anni ammassano molti quattrini. Quel Testa (di cui in mia sentenza del 5 maggio 1897) in poco tempo, raccogliendo giovanetti in Colle San Magno e Caprile di Roccasecca, per la questua in Inghilterra, raggruzzolò oltre quindicimila lire. L’esempio è estremamente contagioso. Contadini ed operai agiati lasciavano tutto per dedicarsi alla tratta.
Lusingati dai negrieri – i quali sono sempre compaesani che dimorano in Francia e vengono per poco tempo a rifornirsi di carne umana – i fanciulli si vedono promessa una vita di agi e di ricchezze, dinanzi a cui si inebriano. In modo che, quando non sono i genitori che cedono per le promesse cinquanta lire a semestre, sono i ragazzi che persuadono le madri a mandarli».
Consegnati al negriero, comincia il calvario. Quando il negriero riesce a non sborsar denaro per vestirli prima di partire, con la promessa di farlo nella prossima città, li porta nella notte, spesso sopra un carro, al freddo, sino a Napoli o sino al treno. Straziante mi parve specialmente il racconto di uno di loro, di Fontana Liri.
«Io ero scalzo; prima disse (il negriero) che mi avrebbe comprato le scarpe a Cassino; arrivati qui, disse che le avrei avute a Napoli; arrivati a Napoli sulla carretta, eravamo 24, ci imbarcò per Lione, senza scarpe; colà mi mandò alla fabbrica con le scarpe di legno e così rimasi. Spesso sui piedi nudi cadevano pezzi di vetro bollente, o sul petto o in faccia».
Da ogni ragazzo che il negriero manda alla vetreria ricava 30 o 40 soldi al giorno e sempre più, a misura che vi restano più tempo e imparano il mestiere. Quando pure mandino ogni sei mesi le 50 lire ai genitori, – ordinariamente convenute per tre anni, – tutta la loro spesa si riduce a fornire un posto per un giaciglio comune dei ragazzi, pane la mattina e minestra molto liquida la sera, da cui il negriero ha tolto la parte solida per sé.
Certo Antonio Fraioli ha molti ragazzi piccoli, dorme sul pane per non lasciarlo prendere ai ragazzi, lo compra ogni dieci giorni e ne distribuisce un pezzo al giorno e cambia le lenzuola ogni settantacinque giorni.
Il sindaco di Fontana Liri, parlando di uno degli incettatori senza cuore, come egli li chiama, mostrò una lettera di un ragazzo che stava con l’incettatore Francesco Frezza; la lettera diceva:
«Il Frezza tratta bene due di noi perché sono grandi; noi siamo piccoli, non possiamo parlare perché ci bastona. Da quando partimmo da Lione, stiamo morendo di fame. Scrivete al console che il Frezza ci ha cambiati di nome, non abbiamo a chi ricorrere perché siamo piccoli. Lavoriamo la notte e il giorno dobbiamo andare al bosco a comprare la legna; le pulci ci mangiano».
Angelo Marsella e la moglie tenevano parecchi di questi ragazzi nella loro pensione. Uno, Zeppa Emilio, il 22 novembre 1898 scriveva al padre:
«Ignudi e stracciati ci vergogniamo di uscire la domenica; la sera Angelo Marsella non ci dà che mazzate. Siamo in mezzo al fuoco, ammalati e pezzenti. Se non andiamo un giorno a lavorare, mazzate».
Col Marsella vi erano anche i ragazzi fratelli Proia, Paolo e Angelo. Al pretore Maietti, che istruiva il processo, Angelo riferì:
«Mio fratello Paolo la notte per la debolezza orinava nel letto. Marsella e la moglie schifavano mio fratello e lasciavano il letto tale e quale puzzolente, e mio fratello la notte era costretto a ricoricarsi in quel letto, che era in un pianterreno umido».
Lo stesso Paolo, venuto in Arce, al pretore narrava:
«Io ero costretto a lavorare 12 ore di continuo davanti alla fornace; non avevo altra camicia da cambiare quando ero sudato. Il sudore asciugato mi produsse dei dolori alla schiena. Un giorno caddi svenuto. Quando rinvenni, il caporale mi obbligò a riprendere il lavoro. Svenni di nuovo e mi portarono all’ospedale».
Il medico francese definì il suo uno stato di marasma gravissimo. Dopo cinque mesi uscito dall’ospedale di Francia, il medico di Arce lo dichiara inguaribile! Per costui invece, prima che cadesse sulla breccia, il Marsella scriveva al padre ottime notizie. Il Marsella padre e figlio incettatori fanno perfino intervenire i minorenni nei contratti ad obbligarsi a non lasciarli mai; altrimenti danni e interessi!
Prima della morte del fanciullo Capuano, il Vorza scriveva al padre del Capuano, che trovavasi all’ospedale:
«L’ho dato ad una monaca che lo tratta a casa sua meglio di un signore. Tiene la trippa (la pancia) grande. Il medico dice che la malattia la tiene da quando era piccolo. Ma non credete che sia malato».
Il reverendo Mancone, che fu in Francia l’angelo consolatore di questi miserelli, nella sua deposizione disse che il povero piccolo Capuano mentre era moribondo mostrava con gioia una moneta da dieci soldi, che gli avevano regalata nell’ospedale, dicendo che non ne aveva mai avuta alcuna, e presente anche il Paulucci dei Calboli il ragazzo disse che sempre quando chiedeva da mangiare, il Vorza lo percoteva.
Benedetto Scappaticci, affetto da tubercolosi, si rifiutava di lavorare; il Vorza lo accompagnava alla vetreria a colpi di cinghia, lasciandogli sulle carni le impronte, che poi furono misurate e trovate eguali alla cinghia; alla vetreria il ragazzo riceveva calci nell’addome dagli operai francesi, e tali maltrattamenti che ne impazzì. Il Vorza si rifiutò di pagargli il rimpatrio, ciò che il console esigeva, rimproverandolo di avere portato dall’Italia il ragazzo florido di salute; il Vorza lo trattenne, contando di poter presto rimetterlo alla vetreria e risparmiare la spesa del rimpatrio. Aggravatosi il ragazzo, l’ambasciatore ingiunge al Vorza di rimpatriarlo; ma questi si squagliò. Una monaca della Villette, visto il fanciullo aggravatissimo, ne parlò con la pia signora che soccorreva tutte queste sventure, Maria Sofia, ex regina di Napoli. Questa si recò alla Pline de St-Denis, e, visto il ragazzo nel sozzo tugurio, lo ritirò, e quindi, a sue spese, lo fece rimpatriare. Intanto il Vorza scriveva al padre del ragazzo:
«Voglio sapere se è arrivato; se ha fatto un felice viaggio, e per mio regalo gli dò cinque lire (!); io sono andato dal console per farlo rimpatriare; non sono andato alla stazione perché non sapevo l’ora della partenza».
Il disgraziato ragazzo invece era nel manicomio di Genova.
Per avere una precisa idea di qual tempra siano fatti gli animi di questi incettatori, basta leggere la lettera del Vorza Donato, che sapeva quanti infanticidi aveva commessi e scriveva dal carcere al giudice istruttore:
«Su semplici anonime (l’arma dei vigliacchi, gelosi, perché non ho voluto pagare loro un migliaio di lire) di aver io trasportato in Francia minorenni e cagionato forse la morte di Antonio Capuano e di Felice Fraioli, mi si arresta e si priva della libertà degli onesti cittadini, che lavorando si procurano l’agiatezza (!). Esclamo con Orazio: Nil conscire sibi, nulla pallescere culpa!
Dopo avere attaccato e discusso alcune disposizioni, conchiude:
«Non commisi abusi di mezzi di correzione. Il Capuano morì di tumore splenico (milza), il Fraioli di ileotifo e polmonite. Valgano i certificati medici e le testimonianze dei compagni. Se non potettero nulla i farmaci del primo ospedale di Parigi, cosa potevo io contro il dittatore della vita? Non commisi truffe, perché feci il contratto coi genitori avanti il sindaco di Roccasecca».
Egli ha avuto una condanna di sei mesi, che ha scontato, una multa di seimila lire, che non ha pagata; in questi mesi ha fatta un’altra incetta e, dopo sporto appello, è ripartito per la Francia.
Dopo tante inchieste e pubblicazioni ufficiali, fa meraviglia che vi siano ancora genitori così snaturati da permettere che i loro figli vadano in Francia al martirio. Ma la meraviglia cessa quando si conosca che i genitori in gran parte credono che i figli stiano bene.
I negrieri dalla Francia esercitano la più scrupolosa sorveglianza sulla corrispondenza epistolare dei ragazzi con le loro famiglie. Ordinariamente i ragazzi non sanno scrivere, ma, anche se sanno, sono costretti dal terrore a scrivere alle famiglie come vogliono i loro sfruttatori. Io ho letto molte di queste lettere, si somigliano quasi tutte:
«Caro padre o cara madre, io questa lettera ve la scrivo (o me la fo scrivere) di nascosto dal padrone! Io sto bene assai in salute, meglio di voi! Il padrone non ci fa mancare niente e se lo leva di bocca lui e la moglie per noi! Qui non c’è lavoro ora e stiamo a carico suo! Perciò pazientate per il denaro e non dubitate».
Se il padre minaccia di andare in Francia, allora il figlio scrive:
«Non venite, perché io non me ne voglio tornare al paese a soffrire! Se venite, io me ne scappo e non mi fo trovare! Il padrone mi vuol più bene di voi!».
Le novelle vere i genitori le conoscono solo quando i fanciulli sono vicini a morire. Una madre scheletrita, a cui erano rimasti solo gli occhi per piangere, così racconto al Cafiero:
«Una domenica, all’improvviso, vennero (i negrieri) e ne dissero tante, che i miei due ragazzi vollero andare per forza… Dopo qualche tempo viene una notizia, che il più grande era malato. Quattro telegrammi feci battere con la risposta pagata, e me li fece il pretore così buono, e pagai ogni volta sette lire l’uno! All’ultimo telegramma il ragazzo era morto!».
Una pausa lunga, lamentosa, poi riprese:
«Questo poveromo (il marito) uscì pazzo ed è stato otto mesi al manicomio! Frattanto abbiamo dovuto lasciare la terra, e a stento abbiamo trovato questa capanna. Quest’omo non è più buono a lavorare e non trova nemmeno lavoro, io non ho testa se non a fare scrivere lettere per riavere almeno l’altro figlio mio. Quell’infame (il negriero) ecco che cosa mi risponde».
Mi mostra le cartoline postali da Pantin. Ripetono sempre:
«Cara madre, io sto bene, il lavoro non ci sta, io non ho i mezzi del viaggio, sono in debito col padrone».
«Signore mio, – riprese la donna, – io sto vendendo tutto per fare le cento lire del viaggio; partirò con una carovana di questi ragazzi che partono per le vetrerie. Purché faccia presto a riprendermi il figlio mio!».
continua
fonte
Non sono riuscita a leggere l’articolo fino in fondo per la pena che provavo per questi bambini e giovanetti napolitani sfruttati in Francia per la crudeltà bestiale di infami soggetti che gestivano la tratta… Come sia potuta accadere una simile tragedia, disonesta, crudele, bestiale…sembra inverosimile… Mi sembra una tragedia che supera ogni altra accaduta dopo la calata piemontese per la maledetta unita’! caterina