Una cospirazione in piena luce
A tanti piace sentirsi una vittima anche al giacobino moderno, interessante conoscere cosa pensano oggi e di seguito vi invitiamo a leggere e che non deve meravigliarci se nel nostro mondo sono tanti i giacobini che sventolano la nostra Sacra Bandiera!!!
C’è la ghigliottina. La lama che cade separa. Non è un elogio della giustizia sommaria ma il simbolo di una necessità radicale di tracciare conflitti, di dividere quello che oggi artificialmente viene presentato come unito, magari sotto forma di “popolo” o all’insegna di un fantomatico “interesse nazionale”. Abbiamo bisogno di tracciare il campo di battaglia.
C’è un giacobino nero. Uno schiavo che, come accadde ad Haiti all’indomani della presa della Bastiglia, canta la Marsigliese rivolto alle truppe di Francia. La Francia di Napoleone che, reintroducendo la schiavitù, ha voltato le spalle alla rivoluzione. Quell’inno inatteso e straniante restituisce senso alle parole che da secoli terrorizzano gli oppressori e che non meritano di essere accantonate al primo passo falso: Libertà, Uguaglianza, Fraternità. Abbiamo bisogno di riprenderci tutto, a cominciare dalle parole che ci hanno sottratto.
C’è una galassia di cospiratori. Del tipo che un Dizionario filosofico-democratico stampato in Italia nel 1799, alla voce «giacobino», definisce così: «Vocabolo energico, che in sé comprende l’ateo, l’assassino, il libertino, il traditore, il crudele, il ribelle, il regicida, l’oppressore, il pazzo fanatico e quanto sinora vi fu di scellerato nel mondo». Abbiamo bisogno di riconnettere le congiure contro i tiranni di ogni tipo e di sottrarle alle narrazioni demonizzanti dei potenti.
L’immaginario radicale e la carica innovativa che arriva da Jacobin, rivista statunitense che è diventata nel giro di pochi anni un caso editoriale e un fenomeno politico, ci ha fatto sedere attorno ad un tavolo per decidere di prendere parola. La sfera pubblica è intossicata dalla propaganda e rincoglionita dal tepore mefitico dei salotti televisivi: l’autopsia degli umori ha sostituito l’analisi politica e sociale. Abbiamo scelto di lavorare all’edizione italiana di Jacobin per scuotere un dibattito imprigionato nel provincialismo e spesso preda del commento contingente e compulsivo dei social, che altrettanto spesso scade nel gossip o nei personalismi.
Quotidianamente facciamo esperienza dell’incompatibilità del capitalismo con la democrazia, con il progresso e la giustizia sociale. Bisogna ripartire dalla capacità egemonica di un discorso altro, di rottura, credibile, ricostruendo pensiero critico capace di gettare le basi teoriche, retoriche e simboliche di un’utopia realizzabile. Chi sta in alto ha potuto disporre di grandi risorse e ha avuto l’occhio lungo. È riuscito nell’intento di rendere naturale, intoccabile, lo stato di cose presenti. Le destre, nella loro veste razzista o giustizialista, più marcatamente liberista o autoritaria, hanno costruito un’egemonia che arriva da anni di lavoro di trincea. Nasce dalla pretesa di annullare i conflitti, dalla violenza che spappola la società in individui atomizzati, dal buco nero che inghiotte le nostre vite e cancella ogni idea di alternativa. Il capitalismo si rimodula e ristruttura, si rafforza aggredendo le nostre esistenze attraverso nuove forme organizzative: dalle multinazionali digitali all’esternalizzazione dei processi produttivi che mimano da vicino l’organizzazione del lavoro e della produzione di inizio Novecento.
C’è una maggioranza di uomini e donne ai quali viene chiesto da troppo tempo di sacrificarsi per i profitti di altri. Di essere di volta in volta responsabili, pazienti, moderati di fronte ai soprusi. È quella parte di società con cui condividiamo i luoghi di lavoro, i quartieri, le scuole e quel che rimane della vita collettiva. È quella maggioranza a cui hanno detto che il massimo che può permettersi è la guerra tra poveri.
«Come meravigliarsi che qualche operaio sia divenuto fascista?», si chiedeva Antonio Gramsci nel 1923. Aggiungendo: «La principale ragione della [nostra] disfatta è non avere avuto una ideologia, non averla diffusa tra le masse». La questione fondamentale della proprietà, dei rapporti sociali che governano la riproduzione della società, non può essere separata dalle molteplici forme di oppressione, di alienazione e di miseria umana. Per il rivoluzionario francese Gracchus Babeuf «la pretesa superiorità dell’uomo sulla donna e il comando dispotico che lui pretende di esercitare su di lei hanno la stessa origine della dominazione dei nobili». Non si può parlare di «caporalato», ad esempio, senza parlare di razzismo. Così come non si può discutere del patriarcato senza capire le sue cause e le sue estensioni economiche.
Ritrovare le parole, riprenderci le ideologie, rimettere mano alle teorie e raccontare le storie che meglio spiegano le contraddizioni e che forniscono strumenti pratici per l’azione collettiva. Per riuscirci davvero bisogna avere un punto di vista ambizioso, rifiutare il minoritarismo e la guerra tra bande. Occorre dare spazio a un dibattito plurale ma approfondito e non stantio. Per farlo vogliamo delimitare il nostro campo di azione e di ricerca al di qua del pensiero liberale. All’interno di questo campo pensiamo vadano evitate due propensioni che pure si ritrovano in movimenti di alternativa politica e sociale: il riformismo annacquato che finisce per essere complice del capitalismo e il pensiero delle destre sovraniste e reazionarie funzionale allo sfruttamento e agli odiosi confini.
Non ci sono modelli da importare o franchising politici da mettere a valore. Per questo Jacobin sbarca in Italia in forma autonoma ma collegata alla rivista statunitense omonima, la cui produzione sarà in buona parte tradotta, riportata e contestualizzata. Sfideremo la crisi della carta stampata attraverso la pubblicazione trimestrale di una rivista (il primo numero uscirà a novembre) e intervenendo quotidianamente nel dibattito pubblico attraverso il sito internet (quella che vedete è una soltanto versione beta, minimale e provvisoria: il sito vero e proprio sarà online a fine mese). Vivremo anche nella società, promuovendo e sollecitando momenti di discussione collettiva. Iscriversi al Club dei Giacobini che si costituì nella Francia rivoluzionaria nel 1790 costava 36 lire. Associarsi alla nostra avventura giacobina costa 36 euro. Vi chiediamo di farlo da subito e di restare connessi a questo sito e a questo gruppo di lavoro.
fonte
L’idea che il Giacobinismo, per di più americanizzato, possa portare ventate di riforme positive non mi convince per niente. Mi sembre una riedizione in chiave politico\culturale della “rivoluzione pentastellata”.
Sembra una reazione alla stasi sia di qualsiasi elaborazione politica che abbia un senso preciso in uno smarrimento totale della società, sia dell’immobilismo imposto e la repressione di ogni libero movimento di persone e mezzi sotto l’incubo covis… una via di fuga ci sarà pure? bisogna reagire! se lo fanno in America lo possiamo fare anche qui…tentar non nuoce…da cosa nasce cosa.. insomma chi lo sa che non si incappi in una strada che ci porta fuori dal tunnel! A me la lettura di questo progetto ha dato questa impressione, però non si sa mai…da cosa nasce cosa! e soprattutto quando non sembra chiaro a nessuno dove si vada a parare… Ma sono tempi in cui chi ha delle certezze dentro di sé vi si aggrappa ancor più saldamente! caterina ossi