Un’analisi della catastrofe del 1860
Quasi sempre la geografia determina la storia.
La conferma vine dalla osservazione di una qualunque mappa geografica: si troverà che i confini degli Stati quasi sempre coincidono con elementi naturali che caratterizzano il territorio. A questa regola non è sfuggita la geografia politica della Francia: a sud i Pirenei e il Mediterraneo, ad est il Reno e le Alpi, ad ovest l’Oceano Atlantico, a nord una zona di pianura ancora indefinita confinante col Belgio, che forse con l’andar dei secoli troverà la sua definitiva soluzione geopolitica.
Tali confini la Francia se li è conquistati nel corso dei secoli tramite l’azione politico-militare di governi forti quando i vicini erano deboli, confini che rispecchiano grosso modo quelli che circa duemila anni fa aveva stabilito Giulio Cesare espellendo i Germani e gli Elvezii dal territorio che allora si chiamava Gallia e oggi Francia. Nella zona orientale, quella che parte dalla Savoia fino a Nizza, la sistemazione dei limiti naturali è avvenuta in tempi recentissimi, negli ultimi centocinquanta anni. Nel 1789, allo scoppio della rivoluzione, oltre che sulla frontiera del Reno, abitata da popoli germanici, il governo rivoluzionario mise gli occhi sui territori della contea di Nizza e della Savoia. L’ufficio cartografico dello Stato fu incaricato di uno studio sui confini sicuri in previsione di un attacco da parte delle potenze dell’Antico Regime. Allo scoppio della guerra (20 aprile 1792), epoca della prima Coalizione tra Austria e Prussia a cui si aggiungeranno anche Inghiltera, Russia, Spagna, gli eserciti francesi invasero quei territori, territori che il Re del Piemonte, Vittorio Amedeo III, dovette cedere «legalmente» quattro anni dopo, in seguito all’armistizio di Cherasco, 27 aprile 1796, ratificato con la pace di Parigi del 15 maggio successivo, trattato che sanciva la rinuncia definitiva da parte del Re del Piemonte alla Savoia, a Nizza, a Tenda e Bioglio. Effettivamente, già dal mese di gennaio il ministro dell’Impero d’Austria a Torino, marchese Gherardini, aveva segnalato a Vienna che correvano voci, in quella città, stremata da quattro anni di guerra, che la Francia, in compenso della cessione definitiva di Nizza e Savoia e col ribaltamento dell’alleanza del Piemonte a suo fianco, avrebbe indennizzato il Piemonte con la Lombardia. Tale era anche il pensiero del ministro inglese a Torino, lord Trevor, in una lettera del 6 febbraio allo stesso Gherardini per sollecitare rinforzi: «Bisogna che da 10 a 15.000 austriaci entrino in Piemonte ed impediscano al nemico un’incursione tra Acqui e Ceva – In caso contrario il paese precipiterà in una tale disperazione pazza che il governo non avrà piú controllo. Non è esagerazione affermare che il Piemonte sarà obbligato a diventare virtually if not literally l’alleato della Francia». Già nel 1795 era successo qualcosa che aveva incrinato la coalizione. Dopo quattro anni di guerra infernale, alimentata da odio, paura, fanatismo ideologico e messianesimo, guerra che aveva sovvertito tutti i canoni politici e militari e procedeva come un rullo compressore alla demolizione dell’Antico Regime, e dilaniato l’Europa con centinaia di migliaia di morti come mai si era visto negli ultimi cinquecento anni, gli eserciti, sia francese che della nemica coalizione, erano in una situazione di stallo, talché dalla coalizione erano uscite la Prussia, l’Olanda e la Spagna che avevano concluso con la Francia rivoluzionaria la pace separata di Basilea. Assottigliatasi la coalizione, il Primo Ministro britannico Pitt, ferocemente criticato nel suo paese per l’andamento della guerra, fece un passo imprudente e sleale, che in un futuro piú lontano avrebbe consentito alla Francia di accampare antiche pretese: il Pitt riconosceva alla Francia, se il Direttorio si fosse dichiarato disponibile a trattare la pace, oltre agli antichi territori e alle colonie, anche altre prebende tra cui la Savoia e Nizza, tradendo cosí gli interessi del suo alleato ancora in breccia, Vittorio Amedeo III, ormai assediato da ogni lato e che, per quanto vecchio, mezzo sordo e mezzo cieco, si difendeva dai traditori interni con raffiche di condanne a morte, in un sol giorno ben sessantuno, tutte prontamente eseguite (D. Carutti, Storia della Corte di Savoia durante la Rivoluzione e l’Impero francese, Torino 1892, vol. I, pag. 415). Non se ne fece niente, la Francia si tenne la preda finché la tenacia dell’Inghilterra non la portò definitivamente alla sconfitta. Il Congresso di Vienna, 1815, che ristabilí la pace e ridisegnò l’Europa su basi legittimistiche, riassegnò quei territori al Piemonte, ma la bramosia francese non era sopita. Proprio tale bramosia sarà nel 1860 la causa, quel moto primo che, per vie non tanto occulte, ha trascinato alla catastrofe, con tutti gli orrori che ne sono conseguiti, l’antico Regno delle Due Sicilie.
IL COMPLOTTO DI PLOMBIÈRES
Il 20 e 21 luglio 1858, due mercanti di popoli, Napoleone III e il conte di Cavour, si incontrano segretamente a Plombières-les-Bains, nel dipartimento dei Vosgi sul fiume Augronne. L’incontro era stato sollecitato dall’imperatore francese per definire i dettagli di un probabile intervento della Francia a fianco del Piemonte in vista di un conflitto, che si riteneva inevitabile, tra Piemonte ed Austria. I termini dell’accordo prevedevano che: lo Stato di Massa e Carrara sarebbe stato il pretesto della guerra; che lo scopo della guerra sarebbe stata la cacciata degli Austriaci dall’Italia con la formazione di un regno dell’Italia settentrionale, comprendente tutta la valle del Po, Marche comprese da strappare al Papa; l’Italia sarebbe stata cioè divisa in tre regni, uno al nord, uno al centro, e uno al sud uniti in confederazione sotto la presidenza del Papa; in cambio la Francia avrebbe ottenuta la Savoia, mentre rimaneva in sospeso la questione della contea di Nizza. A cementare l’amicizia tra i due Stati si sarebbe dovuto celebrare, e il 30 gennaio 1859 si celebrò, il matrimonio tra una Savoia, la principessa Clotilde, una pulzella di appena sedici anni (era nata il 2 marzo 1843), e il figlio di Napoleone III, Gerolamo Giuseppe Napoleone Bonaparte. Il Piemonte, inoltre, cioè Cavour, si impegnava in una serie di provocazioni al fine di suscitare la guerra. Per quanto i termini dell’accordo-complotto fossero tenuti segreti, qualcosa era in ogni caso trapelata, ovviamente subito smentita dai marpioni interessati. Il governo piemontese, inoltre, in previsione della bramata guerra, brigò per un nuovo prestito di cinquanta milioni di franchi, da devolvere in acquisto di fucili all’estero essendo incapace di produrne, sul quale prestito, che sarà concesso dai Rothschild di Parigi, dovrà elargire un interesse di circa il 24 per cento. Chi li avrebbe pagati, prestito e interesse, è presto detto: gli illusi beoti delle nuove province d’Italia che sarebbero state «liberate», cioè occupate e sfruttate fino alla disperazione.
SERVIZI SEGRETI
Ben poco si era saputo a Napoli, ma anche in altre capitali europee, di quanto si era convenuto nel complotto di Plombières mantenuto nel piú inossidabile segreto. Ma i servizi segreti avevano rizzato le antenne. L’incaricato d’affari duosiciliano a Torino, Giuseppe Canòfari dei baroni di Santa Vittoria, nato ad Aquila nel 1790, morto tragicamente a Parigi nel settembre del 1872, aveva indagato «con diligenza lo scopo della visita» del conte di Cavour: «Fattomi ad indagare con diligenza lo scopo della visita, pare che non se ne abbia né diretto, né positivo e che la cosa dovesse limitarsi a discorsi generali. Cavour avrebbe avuto in mente, ora che l’Inghilterra si discostava alquanto da lui, mostrarsi piú vicino alla Francia, ed ha inoltre, nei suoi momenti difficili interni, voluto offrire agli oppositori e alla stampa un soggetto di congetture – Ma si cenna pure che intendesse discorrere delle negoziazioni pel Principato di Monaco e di qualche eventuale aumento del territorio per la Casa Savoia …» (Archivio di Stato, Napoli, A.S.N., Sardegna, fasc. 1992, Canòfari a Carafa, Torino 3 agosto 1858). Chiede, inoltre, spiegazioni all’inviato straordinario e ministro plenipotenziario di Napoleone III a Torino, il principe Henri de la Tour d’Auvergne-Lauraguais, «un des hommes le plus séduisants», che, però, anche lui all’oscuro di quei negoziati politici, gli comunicava che «le cose a Plombières erano semplicemente; che non vi era stata alcuna seria e apposita discussione e che l’entrevue [incontro, ndr] non doveva essere per chicchessia soggetto della menoma preoccupazione» (A.S.N., Sardegna, fasc. 1992, ibidem). Ma qualche mese piú tardi, il Canòfari comunicava a Napoli al Ministro degli Esteri del Regno delle Due Sicilie, Carafa di Traetto: «- Da circa un mese, Cavour direttamente, i suoi colleghi, il Re stesso, le persone attinenti alla Corte sforzansi persuadere che in primavera avrà luogo una guerra con l’Austria. Qualche volta son reticenze studiate, qualche volta son discorsi ben chiari, e spesso ancora sono incarichi agli emigrati influenti di diffondere la cosa e d’informare i corrispondenti …» (A.S.N., Sardegna, fasc. 2028, Torino, 16 novembre 1858). Piú del Canòfari era però informato il ministro di Ferdinando II a San Pietroburgo presso lo Czar Alessandro II, Gennaro Capece Galeota duca di Regina (CS) (1799-1867). Il duca di Regina era stato indotto dai «rumori sparsi in tutta Europa sugli affari d’Italia» a chiedere un «serio colloquio» al ministro degli esteri di Alessandro II, il principe Gortchakoff, allo scopo di conoscere «con certezza l’influenza della Francia non solo sui movimenti esistenti in Italia, ma anche sulla posizione gravemente resa degli affari in Lombardia» (A.S.N., Russia, fasc. 1700, Regina a Carafa, S. Pietroburgo, 5-17 dicemre 1858). Per i tradizionali buoni rapporti tra Russia e Due Sicilie, il principe Gortchakoff non fece mistero della sua personale ostilità verso l’Austria, rea di tradimento verso l’alleanza all’epoca della guerra di Crimea, ostilità che gli faceva guardare «con indifferenza qualunque complicazione potesse avvenire a quella Potenza in Italia». Il principe Gortchakoff consigliò tuttavia la piú completa neutralità del Regno delle Due Sicilie inmodo da «non pendere né verso l’Austria, né verso alcuna Potenza italiana, onde non divenire sia alleato o avversario di una delle parti» (A.S.N., Russia, ibidem). Non ci volle molto dunque al duca di Regina trarne le debite conclusioni e sentir fischiare i venti di una guerra prossima, anche perché l’Inghilterra gli aveva già fatto sapere di non voler agire in disaccordo con la sua alleata Francia (A.S.N., Russia, fasc. 1700, Regina a Carafa, 24 luglio – 5 agosto 1858). Tutto ciò mise in allarme il Governo di Napoli che a ragione temeva «ripetizione delle aggressioni per parte di ribaldi che muovono dallo straniero», cioè dal Piemonte e dalla Francia (A.S.N., Casa Reale, fasc. 2095, Carafa ai rappresentanti esteri) per cui si incominciò a prendere provvedimenti di natura militare alle frontiere del Regno e ad indire una nuova leva di diciottomila uomini. Ma il Cavourrone tramava nell’ombra, tramava – e soprattutto il Napoleone III, le cui mene furono ben interpretate dal console a Venezia, Domenico Morelli: «L’ambigua fisionomia di Napoleone, i suoi oscuri pensieri, le mene rivoluzionarie del Piemonte, e la discussione dei trattati, sono arrivati al punto da richiedere senza ritardo una soluzione – Napoleone cerca dominare l’Europa con la politica, invece che spargendo sangue come fece lo Zio. Ma egli ha spinto troppo oltre le cose ed oggi le sue vedute si trovano sopra difficile piano di soluzione se non si viene alle armi» (A.S.N. Venezia, fasc. 3137, D. Morelli a Carafa, Venezia 15 marzo 1859). A tali mene si aggiunsero quelle degli inglesi in febbraio col discorso di lord Derby che affermava essere l’Inghilterra «non legata com’era da impegni, trattati, intese qualsiasi» e che intendeva lasciare gli Stati italiani liberi delle loro azioni, parole che Domenico Bianchini di lí a poco interpretò nel modo seguente: «Facendo questa dichiarazione il gabinetto inglese di essere indifferente al rovescio dei governi esistenti in Italia, e di riconoscere quelli che l’armata insurrezione stabilirebbe, era manifesto che con siffatto mezzo per mantenere o accrescere la sua influenza nella penisola, intendeva attraversare per quanto poteva i disegni di Napoleone ed andare al di là delle intenzioni di lui; vale a dire che se questi per preponderare in Italia sembrava limitarsi ad una confederazione di Stati sotto forma costituzionale, l’Inghilterra per l’opposto ammetteva interamente la rivoluzione e qualsiasi governo di fatto che si sostituirebbe a quelli che per diritti sussistevano» (Ludovico Bianchini, I principali avvenimenti). Si era in sostanza costituito un fronte di alleanze, una trimurti di scellerati, finalizzato al sovvertimento rivoluzionario della penisola da cui ciascuno, Piemonte, Francia ed Inghilterra, pensava di ricavare, per sé solo, immensi vantaggi.
UNA SAGGIA POLITICA DI NEUTRALITÀ
La politica di neutralità del Regno, «ideale consono al sentimento di gran parte della popolazione» (B. Croce, Storia del Regno di Napoli, IV, 7, Adelphi, pag.325) non aveva bisogno dei consigli del principe Gortchakoff. Ferdinando II, che «fin dai primi anni di regno si era, guardingo ed abile, liberato dalla tutela dell’Austria non senza energia e dignità» (Croce, ibidem) non se ne era scostato neppure all’epoca della guerra d’Oriente (Crimea), nonostante le continue sollecitazioni ad intervenirvi a fianco di Francia e Inghilterra contro la Russia, sollecitazioni che venivano da parte dell’ambasciatore a Londra Antonio La Grua principe di Carini, ma Ferdinando II gli aveva fatto rispondere dal Carafa in questi termini: «Amici di tutti, nemici con nessuno, indipendenti. Perché tale deve essere ogni Stato soprattutto il nostro che per la sua posizione geografica ne ha diritto piú di ogni altro – Rinunziare a questo sistema di saggia politica, sarebbe tradire gli interessi del Paese e comprometterlo senza che vi sia nulla a sperare -; la Divina Misericordia in cui il Re ripone cieca ed illimitata fiducia, saprà venire in aiuto del Real Governo a far sí che queste disposizioni non vengano a qualunque costo cangiate» (A.S.N., Inghilterra, fasc. 661, Carafa a Carini Napoli, 10 gennaio 1855). Ma i banditi delle cancellerie europee agivano diversamente, né la Divina Misericordia gli venne in aiuto quando ce ne fu bisogno. Tuttavia, checché ne dica la canea vociante dei «critici» unitaristi, «la verità resta la verità – un solo uomo vide, paventò e fece di tutto, durante la sua vita, affinché il Meridione non fosse stritolato nelle spire di conflitti ad esso estranei: fu Ferdinando II – quella indipendenza della quale si mostrava superlativamente geloso» (R. De Cesare, La fine di un Regno, ed Longanesi, pag. 115, ndr) fu ritenuta il prodotto deteriore della concezione assolutistica del potere regio, peggio: genuino frutto d’incomprensione personale, arrogante esclusivismo dell’ignoranza sovrana. Lo stesso De Cesare scrisse: «infatuato della sua potenza, non temeva pericoli. Fu in quell’occasione (“alleanza con l’Austria nei primi del 1859, quando la burrasca si veniva addensando”) che mise fuori il suo motto: essere il Regno protetto per tre quarti dall’acqua salata, e per un quarto dalla scomunica. Ma piú fatale apriorismo era quello di credere che dovesse vivere eternamente, e questa convinzione contribuiva a non dargli nessuna coscienza o visione dei pericoli». Fin qui, a tutti i critici della politica estera meridionale, qualunque fossero i loro sentimenti dinastici o antidinastici, le loro aspirazioni liberali unitarie o regionalistiche o – ancora e persino – conservative municipali, nel tempo che scrissero mancò l’esperienza che la storia ha offerto poco meno di un secolo dopo: nel 1943-45. A nessuno sorse il dubbio che i «tre quarti di acqua salata» potessero costituire non una protezione nel senso dell’inaccessibilità di un riparo, cosí come il motto venne comunemente interpretato; ma una «protezione» nel senso di zona nella quale i pericoli potevano essere limitati, se non del tutto evitati, solo astenendosi dal volere gareggiare nel dominio militare del mare che per tanta parte circondava il Regno, non essendo quella gara nelle possibilità di successo del Governo delle Due Sicilie, né suo interesse tentarla per – conto terzi o in ausilio a terzi, quali nel quadro del tempo erano Francia ed Inghilterra. La superficialità degli interpreti giunse ad attribuire al motto il senso che il mare – nel pensiero di Ferdinando II – avrebbe avuto funzione di paratia stagna! Nessuno riflettette che come via d’accesso, d’attracco, direttrice alimentativa di rifornimenti ad armate occupatrici, la storia serviva – ancora calde, si può dire – le lezioni del periodo spagnuolo e di quello francese. Nessuno pose mente al fatto che la marina militare delle Due Sicilie era sorta – e con la Ferdinando I che fu la prima nave da guerra a vapore che gli Stati italiani videro uscire da un cantiere della Penisola, ma meridionale in quanto varata in quello di Castellammare di Stabia – proprio a ragione difensiva di quelle vie che, se il criterio del Re avesse invece considerate erroneamente inaccessibili – perché naturalmente protettive dell’intangibilità del territorio – non avrebbe consigliata e tanto meno promossa la costruzione di una flotta da guerra. Nessuno si soffermò a considerare che quel residuo «quarto protetto dalla scomunica» poteva essere ritenuto tale in quanto trattavasi del confine con lo Stato pontificio il cui potere temporale era connesso alla universalità dello spirito cristiano. Onde era legittimo reputare che detta universalità valesse a proteggere politicamente il suo Centro rendendolo inviolabile. Cosí come, dal Sud, tutto ne sconsigliava la violazione, e soprattutto perché adire quello Stato, sorpassando la propria quarta frontiera, significava «uscire dalla linea della politica mediterranea» la cui unica garanzia consisteva nel non intrufolarsi in sfere di influenze ove la mediterraneità, divenendo elemento secondario se non addirittura subordinato, sarebbe rimasta sacrificata come elemento determinante dell’indirizzo politico generale del Regno delle Due Sicilie. Infatti, quali alleanze a comune difesa il Re rifiutò «quando la burrasca (del 1860) si veniva addensando»? Proprio quelle del piú rigoroso legittimismo: del Granducato di Toscana, del quale il Granduca era suo parente; del Ducato di Parma, ove sovrano era un altro ramo dei Borboni; di Modena, del Papa ed infine dell’Austria, ovvero quelle che per ragioni di legami dinastici o per unicità di princípi di governo eran le sole che potevano riscuotere la sua fiducia. È appena opportuno ricordare che la fiducia si connette, in politica specialmente, sempre ad un interesse materiale. Nel caso particolare la fiducia del Re Ferdinando II si sarebbe connessa con l’interesse positivo della sua dinastia, non di quella del Regno e delle popolazioni meridionali, essendo ovvio che un’alleanza, fosse col Papa il cui territorio si estendeva fino alle Legazioni di Bologna e Ferrara, fosse con l’Austria il cui fulcro d’interessi era nel centro dell’Europa, avrebbe avuto per conseguenza diretta d’inserire la politica estera dello Stato meridionale in una sfera d’interessi a lui geograficamente estranei perché non mediterranei, o quanto meno non immediatamente mediterranei. Gli avvenimenti intercorsi tra il 1851 – 59 ed il 1947 – cioè in appena circa novant’anni – ci consentono di vedere la situazione d’allora con maggiore chiarezza. Allearsi con Stati aventi interessi estranei, o quanto meno non immediatamente mediterranei, avrebbe significato abdicare ad una parte dell’indipendenza di quella politica unicamente mediterranea la quale, per la ripetuta ragione geografica – quindi ragione essenziale ed immodificabile – era indispensabile alla salute civile morale ed economica del popolo meridionale. «Non riteneva utile alcuna alleanza, reputandola come una limitazione di quella indipendenza della quale si dimostrava superlativamente geloso», scrisse il De Cesare come abbiamo visto. Oggi noi, in funzione di posteri, dobbiamo – dopo la tregenda vissuta – riconoscere che non era «l’indipendenza» sua, quella personale del Re, «della quale si dimostrava superlativamente geloso»; bensí Ferdinando II si dimostrava supremamente geloso di quell’indipendenza politica corrispondente alla imprescindibile necessità della situazione geografica dello Stato affidato alle sue cure … «perciò -conclude l’autore di queste riflessioni- bisogna oggi inchinarsi a quell’onestà politica per la quale egli subordinò gli interessi della dinastia a quelli dello Stato meridionale, facendo prevalere questi ed in essi vedendo esclusivamente quelli della sua corona» (Renato Di Giacomo, Il Mezzogiorno dinanzi al terzo conflitto mondiale, ed. Cappelli, 1948, pagg. 72/76).
GLI OCCHI DEI «FUORI GIOCO»
Vediamo ora come la pensavano, al di fuori delle cancellerie diplomatiche, gli osservatori esterni quando cominciarono a propalarsi voci di una eventuale cessione di territori alla Francia. Riportiamo a tal proposito la corrispondenza da Torino alla Civiltà Cattolica (Serie IV, vol. II, pag. 742 e segg., periodo 26 febbraio ñ 12 marzo 1859): V’è egli un patto segreto tra la Francia e il Piemonte, in forza del quale la Savoia debba essere ceduta alla Francia? Un tal atto si dà per certo, sebbene non se ne possano recare documenti irrefragabili. Ma v’ha un argomento negativo che pare dimostri la verità della cosa. I Deputati savoini nella Camera oppugnarono il prestito dei cinquanta milioni, perché dovea servire alla guerra, e la guerra senza l’aiuto della Francia avrebbe perduto lo Stato, e con l’aiuto di questa avrebbe separato la Savoia dal Piemonte. Il nostro Ministro sopra gli affari esterni si schermí da siffatto ragionamento com’egli poté; ma tralasciò di dare la risposta che sarebbe stata piú naturale; cioè che per niun patto consentirebbe mai il Governo che passasse sotto altro dominio la culla della nostra dinastia. Tale reticenza del Conte di Cavour serví ad avvalorare i sospetti che parecchi già nutrivano in cuore; e l’Armonia ne fe’ argomento di un suo articolo, chiedendo al Ministero che, per mezzo della Gazzetta Piemontese, dicesse una parola per dissipare ogni timore a tal poposito. Ma non ne fu nulla. L’Opinione, che è un giornale semiufficiale, come dicono, rispose bensí due parole all’Armonia, eludendo la domanda, ma non negò apertamente la cessione della Savoia alla Francia, confermando cosí indirettamente il sospetto. Ora poi i giornali svizzeri ci recano essere cosa certissima il patto segreto tra il nostro Governo e la Francia della cessione della Savoia; dolerne assai il governo elvetico, il quale vuole perciò occupare militarmente le province del Faucigny e dello Sciablese, dandogliene il diritto il trattato di Vienna. Se le cose stanno proprio cosí, voi vedete che il Conte di Cavour si dà la zappa sui piedi; perché avendo sostenuto nel senato del Regno, che nessun Governo ha il diritto di alienare una parte della propria sovranità, egli alienerebbe un popolo intero cedendolo altrui. Ma non è questa la sua sola contraddizione. Tali notizie hanno prodotto un po’ di agitazione in Savoia; agitazione che, con somma imprudenza, tentò di accrescere la Gazette de Savoie, foglio ufficiale di quella contrada. Il quale prese a combattere personalmente i due coraggiosi deputati savoini, il Marchese Costa di Beauregard e il Conte De Viry, falsificando le parole che aveano dette alla Camera, e cercando di attirare contro di loro l’odio de’ proprii concittadini. I due deputati furono perciò costretti a dar querela ai tribunali contro la Gazette de Savoie; e a giorni sta per discutersi la causa. I migliori avvocati di Ciamberí peroreranno pei due deputati, laddove la Gazette durò fatica a trovare chi volesse sostenerne le parti. Intanto, essendosi messa in giro per la Savoia una protesta contro il Marchese di Beauregard e il Conte De Viry, nella quale si sostenevano aspirazioni italianissime, si trovarono ben pochi che volessero sottoscriverla, comeché gli ufficiali del Governo s’adoperassero perciò caldamente; laonde, con savio consiglio, il Ministero proibí che si raccogliessero piú oltre sottoscrizioni. Il che giovò doppiamente, sia perché tolse il pericolo d’una disfatta, sia perché rimosse la causa d’una sinistra agitazione. È degno però di nota che, dovendosi in questi giorni procedere ad un’elezione in St. Pierre d’Aligny, fu messo in disparte il candidato ministeriale e la maggioranza degli elettori fu pel candidato conservatore, il sg. Borson. – Armi! Armi! Cosí il Diritto intitolava un articolo stampato nel suo N. 48 del 25 di Febbraio, dove dicea al nostro Governo non solo di armare il paese ma anche di «preparare fin d’ora gli elementi necessarii all’organizzazione militare immediata delle altre province d’Italia, che andremo man mano occupando». Imperocché il Diritto non vorrebbe che si potesse dire dopo la guerra che l’indipendenza d’Italia fu opera della Francia. E il governo va secondando i suggerimenti del Diritto. Venne spedito a Parigi il colonnello Cavalli per farvi un’incetta di 50.000 carabine; fu comperato in Londra per conto del Piemonte tanto salnitro che ne crebbe di molto il prezzo ordinario; si raccolgono quanti giovani vogliono emigrare dagli altri Stati italiani, e si arruolano come soldati nei nostri reggimenti; anzi per promuovere l’emigrazione e favorire i disertori, vi hanno sui confini dei drappelli di guardie che piantano bandiera, e danno altri segni ai fuggiaschi. Inoltre il Ministro della guerra ha proposto alla sanzione del Re, ed il Re ha sanzionato un Decreto sotto la data del 27 di Febbraio, il quale istituisce temporaneamente nella regia militare Accademia un corso suppletivo «destinato ad abilitare giovani di conveniente cultura a coprire, principalmente nella fanteria, dopo le promozioni degli allievi del terzo anno di corso in quell’Istituto, i posti di sottotenente vacanti, oltre quelli devoluti ai sotto uffiziali». Per l’ammissione al detto corso è necessario aver compiuto l’età di anni venti; ma alcuni studenti, per mezzo della Gazzetta del Popolo, chiedono che il Ministero non sia tanto tenace per la condizione dell’età, affinché essi pure possano entrare nell’esercito. Dove riusciremo con tante armi ed armati dallo Iddio. La popolazione vede, soffre, tace ed aspetta. Nota: Un dispaccio telegrafico annunzia che il signor Fitzerld disse nella Camera dei Comuni a Londra di avere chieste spiegazioni al Piemonte sopra l’arruolamento dei disertori austriaci, e seriamente ammonito quel governo a non ammettere contro l’Austria provocazioni offensive, compromettenti la pace. Se il dispaccio reca il vero, parrebbe che il governo inglese non sia dell’opinione del Conte di Cavour, il quale, con ingenuo candore, sostenne finora in parole che l’Austria era quella che provocava il povero e innocente Piemonte. Vediamo ora che cosa riferiva il corrispondente da Venezia, cioè dal territorio austriaco: Al cominciare del nuovo anno (1859, ndr) tutto il Regno Lombardoveneto fu turbato da insistenti voci di guerra, e da vaghi timori di nuovi sovvertimenti politici. Dicevasi volere di forza il Piemonte aggregarsi il Lombardoveneto, secondarlo in quell’impresa la Francia e la Russia: l’Inghilterra e l’Alemagna doversene stare spettatrici indifferenti. A queste strane notizie diffuse dai giornali sardi, e sparse per tutto il Regno dai turbolenti, i partigiani della riscossa levarono il capo, le popolaioni amiche della quiete e del lavoro sbigottirono, e l’imperiale governo conobbe la necessità di dare coi fatti fiducia ai popoli e sgomento agli agitatori. L’imperatore rinforzò tosto l’esercito nel Lombardoveneto di trenta mila uomini; e alcune schiere, mosse da Vienna il 7 gennaio, giungevano tre giorni dopo nelle città lombarde in tutto punto di guerra. La singolare rapidità e il perfetto ordine di quella mossa sorprese amici e nemici; quelli presero animo, questi cominciarono a dubitare di sé. Ma non per questo cessò di presente l’agitazione. Il Comitato agitatore avea vietato, come nel 1848, il fumar sigari: sí che i mansueti fumatori delle nostre città furono costretti con minacce, percosse e arsioni di abiti a non fumare sigari per via; e dove prima si vendevano 600 sigari al giorno, non ne vendettero piú di 40; ma i fumatori sostituirono al sigaro le pipe di gesso alla francese. Si vollero pure mutati i cappelli a cilindro in cappellacci a zucca e tesa spenzolata, ma la prova non riuscí. … Chi desidera la guerra la stima inevitabile e la crede imminente; e sostiene la sua opinione, allegando i discorsi di Vittorio Emanuele al Parlamento, e di Napoleone III al corpo Legislativo ed al Senato; l’addensarsi ai confini, lungo il Ticino ed il Po, delle schiere austriache e sarde il divieto fatto dall’Austria della esportazione de’ cavalli e muli oltre i termini dell’Impero; il prestito austriaco di 150 milioni di lire negoziato col Rotschild, e quello di 50 milioni di franchi della Sardegna; e finalmente gli armamenti formidabili che tutte le Potenze vanno facendo, malgrado che tutte protestino di rispettare i trattati e di volere la pace. Coloro poi che bramano la pace, e nel Regno Lombardoveneto sono la massima parte, fanno assegnamento sopra la nota prudenza e giustizia de’ Monarchi e dei loro Governi, e confidano nel vecchio proverbio: Si vis pacem, para bellum. Essi non danno fede alla pretesa ambizione di Napoleone III, e confidano nella saggezza e previdenza sua ed in quella dell’Imperatore Francesco Giuseppe e nella conosciuta tendenza della Gran Brettagna e della Germania a non permettere in Europa l’assoluta preponderanza di nessuno. Questa disparità di opinioni mantiene nel Lombardoveneto una certa ansietà ed incertezza che nuoce agli affari, e scema i beni della sociale convivenza. Il governo intanto si studia di riavvicinare la fiducia dei cittadini, mostrandosi pronto, determinato e forte.
DISCUSSIONE DEL PRESTITO
Il 4 di Febbraio il sig. Giovanni Lanza, Ministro delle finanze, presentava alla Camera de’ deputati un disegno di legge per essere licenziato a contrarre un nuovo imprestito di cinquanta milioni di lire … Il Ministro delle finanze non credette di dover fare la menoma allusione alla nostra condizione finanziaria, e diè semplicemente per ragion dell’imprestito «gli armamenti straordinari che, con incessante sollecitudine, si compiono dal Governo austriaco nel regno Lombardoveneto e particolarmente lungo la frontiera del Ticino e del Po». Il Ministero volendosi difendere dall’Austria abbisogna di 50 milioni, e li domanda al paese, quantunque senta quanto altri mai «il bisogno di evitare nuovi oneri al paese, maggiori gravezze alle finanze dello Stato» … Il nove di Febbraio incominciò la discussione pubblica nella Camera de’ Deputati, e primo a parlare fu il Conte Solaro della Margherita, il quale disse francamente «che noi abbiamo in faccia al mondo intero ben piú l’aspetto d’aggressori che di aggrediti»- Poi passano a parlare i deputati della Savoia, quelli cioè che non volevano essere fottuti dalla politica menzognera e avventrosa del Cavourrone, che solamente nella guerra vedeva la soluzione agli spaventosi problemi economici del regno sardo: Il marchese Costa di Beauregard deputato di Ciamberí espresse nella Camera le idee della Savoia relativamente alla guerra. Egli prese a combattere a corpo a corpo la rovinosa politica del Ministero presente. «Il Conte di Cavour, disse il marchese Costa, vuole la guerra e farà gli estremi sforzi per provocarla. Nella pericolosa condizione, in cui ci ha collocati la sua politica, la guerra si presenta al suo pensiero come l’unico mezzo per liberarsi onorevolmente dal debito spaventoso che ci schiaccia, e di rispondere agli impegni che ha preso». Ma l’Oratore osservava che il giuoco era pericoloso, giacché ci stava di mezzo l’esistenza della monarchia di Savoia. Soggiungeva che l’idea d’una guerra italiana era in Savoia universalmente impopolare.«Schiacciate sotto il peso delle gravezze che sopportano, le nostre ppolazioni maledicono quella politica, che loro le impose, per raggiungere uno scopo non solo straniero, ma contrario ai loro piú chiari interessi». Anzi il deputato di Ciamberí andava piú innanzi e diceva: «La guerra può recare per la Savoia una conseguenza ancor piú grave, cioè la sua separazione dal Piemonte. E in questo caso dobbiamo versare il nostro sangue, vuotare le nostre borse per ottenere un risultato che cangerebbe radicalmente e nostro malgrado la nostra esistenza politica? Io ne appello alla vostra lealtà, o signori. La Savoia può accettare freddamente questo stato di cose?» Il conte De Viry, deputato d’uno de’ piú numerosi collegi della Savoia, aveva chiesto di poter parlare contro il prestito … dice: «Voi non abbasserete mai piú le Alpi, né riuscirete a fare della Savoia una provincia italiana». Novi e forti rumori. Molte voci gridano all’ordine ! all’ordine ! E qui comincia un dialogo tra il Presidente e il deputato, coperto dai continui rumori. Chi impreca, chi mostra i pugni, chi batte, chi fischia; la Camera pare un mare in burrasca. Il presidente vuol sospendere la tornata, e non trova il proprio cappello per metterselo in capo. Il vicino gli offre il cappello del Conte di Cavour; Rattazzi l’accetta, e resta coperto fino al mento. Il Conte De Viry sostiene un subisso di vituperii colla dignità del patrizio e posandosi solennemente la mano sul petto esclama: «Io dichiaro che se votassi oggidí questa legge, domani darei la mia dimissione da deputato». E siccome continuano le grida e il Presidente impone al De Viry di tacere, cosí egli conchiude: «Poiché mi proibiscono di parlare, io mi siedo protestando e dichiarando che voto contro il prestito di 50 milioni». Si sa come poi le cose andarono a finire: le continue provocazion diplomatiche e di confine portarono alla guerra, quella che i mitologi di regime chiamano seconda guerra d’indipendenza. Due le battaglie principali: Magenta, 4 giugno 1859, in cui Austriaci e Francesi si scannarono come meglio poterono, ma i piemontesi non ebbero neppure l’onore di un ferito perché si presentarono alla battaglia quando questa era già finita (Merde, sibilò tra i denti il generale francese Mac Mahon, ripetendo il motto per cui va famoso, da Waterloo in poi, il geerale napoleonico Cambronne); e Solferino, 24 giugno 1859, in cui le perdite furono cosí contabilizzate: per i Francesi circa 11.500, per gli Austriaci circa 21.500 I piemontesi a S. Martino «vinsero» perché quando arrivarono … il generale austriaco Benedek aveva già ricevuto l’ordine di ripiegamento oltre il Mincio. Alla fine dello scontro l’imperatore Francesco Giuseppe chiese l’armistizio che fu accordato e stipulato a Villafranca l’8 luglio successivo. Da quei negoziati il Cavour, per l’indegnità guerresca del suo esercito, fu estromesso. Napoleone III aveva deciso di porre fine alla guerra sia a causa delle pesanti perdite subite, quasi ventimila accoppati (a Solferino gli Austriaci avevano a disposizione 309 pezzi di artiglieria contro i 240 dei Francesi), sia a causa del malcontento crescente in patria, ma soprattutto per timore dell’intervento della Prussia sul Reno in aiuto dell’Austria. La cosa era stata cosí segnalata a Napoli, al Carafa, dal duca di Regina dalla lontana Pietroburgo: «Seguita crescendo l’ansietà che qui si prova sull’avvenire che prepara all’Europa l’attitudine che minaccia di prendere la Prussia la quale sembra non poter essere piú in grado di mantenere l’irritazione dell’Allemagna contro la Francia e lo slancio che vuol prendere per venire attivamente in aiuto alle disgrazie dell’Austria» (A.S.N., Russia, asc. 1700, Pietroburgo, 17-29 giugno 1859). La Prussia aveva infatti già mobilitato una parte del suo esercito.
DELUSIONE INGLESE
Chi rimase deluso e furente per l’armistizio di Villafranca fu, oltre a Cavour, il governo inglese, che pensava di trarre dalla guerra immensi guadagni economici. L’Inghilterra, che, secondo il principe di Carini, aveva impegnato nelle intraprese francesi immensi capitali «contava sulla durata di vari anni di lotta fra i due colossi e se fossero venute a prendervi parte la Prussia e la Russia, l’Inghilterra con la neutralità e con l’influenza democratica, avrebbe potuto trovarsi economicamente la Potenza arbitra e preponderante in Europa. Ecco il vero motivo del generale furore qui prodotto dalla pace di Villafranca» (A.S.N., Inghilterra, fasc. 661, Londra, Carini a Carafa, 13 luglio 1859). Con la successiva pace di Zurigo, 10 novembre 1859, l’Austria perdette la Lombardia che fu ceduta alla Francia che, a sua volta, la cedette al Piemonte solamente dopo aver ottenuto in cambio non solo la Savoia ma anche la contea di Nizza. L’ecatombe di francesi sbudellati a Magenta e Solferino ebbe un peso politico immenso.
CHI NON CEDETTE MAI
Ascoltiamo, a proposito di quella cessione, il pensiero di Renato Di Giacomo che visse «roventemente la passione per la nostra terra»: «Il Regno di Napoli non vendette mai per denaro o comunque mai altrimenti barattò territori italiani! Esso si presentò all’unificazione politica della Penisola con le mani pulite in rapporto a tutto, e particolarmente con la coscienza immacolata per quanto concerneva il teritorio nazionale. La Dinastia Borbonica aveva l’animo sereno perché, quale che fosse la volontà del Popolo, essa gli lasciava l’integrità territoriale dei suoi Stati cosí come li aveva assunti Carlo III nel 1737! (in realtà nel 1734, ndr) Il Regno Borbonico non si macchiò, mai, di sporchi baratti come quello di Nizza e Savoia cedute nel 1860 da Vittorio Emanuele II di Savoia (Padre della Patria !!!) alla Francia per averne l’appoggio militare che, in definitiva, gli serví per conquistare il Mezzogiorno italianissimo. Il Regno Borbonico difese, come potè, Malta tolta da Napoleone – sulla via della spedizione in Egitto – alla sovranità dei Cavalieri dell’Ordine e, nonostante la sua alleanza con l’Inghilterra, protestò violentemente allorché questa, come se ne era impegnata nel 1802 col trattato d’Amiens, non la restituí alla sovranità dell’Ordine stesso. Ai Borboni di Napoli non sarebbe mai venuto in mente di far danaro cedendo un’isola dei loro Stati – una terra del Meridione – a chicchessia, tanto meno a una Potenza straniera, come nel 1768 la Repubblica di Genova (la Superba !!!) fece con la Corsica per ottenerne, come contropartita, un accomodamento per i sussidi elargitile dalla Francia prima del 1763 e riceverne il saldo in altri due milioni di lire». Per tali motivi, conclude lo scrittore polemista, nessun obbligo di solidarietà nazionale incomberebbe ai Meridionali, o meglio ai Duosiciliani, se una nuova guerra «si presentasse con i medesimi motivi di Nizza, Savoia e la Corsica … La neutralità del Meridione significa la repellenza per quel patriottismo e nazionalismo di tardivo spirito di recupero di quanto fu oggetto dei trascorsi mercimoni, del tutto spregevoli nei confronti del rispetto e della gelosa custodia con i quali il Regno delle Due Sicilie mantenne e trasmise all’Italia una i territori del Mezzogiorno».
COLPO DI STATO: LO STATUTO ALBERTINO TRADITO
Il 24 marzo 1860 la cessione di Nizza e Savoia fu conclusa con un colpo di Stato, cioè con un atto di alto tradimento da parte del Conte e del Vittorione. Infatti il Parlamento di Torino, almeno inizialmente, non ebbe nessuna connivenza nel turpe mercimonio. La violazione, il tradimento dell’art. 5 dello Statuto Albertino era patente: «I trattati che importassero un onere alle finanze, o variazioni del territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle Camere». Alcuni deputati cercarono di bloccare la cessione: «Venne presentata al Parlamento una petizione contro la cessione della Savoia e di Nizza, la quale si appoggia alle seguenti considerazioni: 1º – Che un atto conducente allo smembramento dello Stato non può iniziarsi dal potere esecutivo senza aperta violazione dello Statuto; 2º – Che quanto a Nizza né volontà di Governo, né consentimento de’ suoi abitanti potrebbe staccarla dall’Italia di cui è parte; 3º – Che il Ministero piemontese nella cessione della Savoia e di Nizza “ha considerato i popoli come armenti, e i Re come padroni dei popoli”; 4º – Che l’abbandono dei passi delle Alpi ad una potenza di primo ordine “è un atto sommamente pericoloso all’Italia”; 5º – Che tale abbandono mette lo Stato in balia d’una invasione straniera; 6º – Che non è giustificato da nessun valido argomento, né dalla necessità dell’equilibrio europeo, né da tradizioni storiche, né da considerazioni geografiche. I petenti chiedono alla Camera “d’impedire l’atto antinazionale che sta per compiersi e di dar severo rimprovero al potere responsabile che lo iniziava”. Il Ministero si spaventò di questa petizione che stava per raccogliere un numero straordinario di firme, e scrisse a’ suoi agenti affinché impedissero che fosse messa in giro. E cosí fu fatto, con manifesta violazione di quello che chiamasi diritto di petizione» (La Civiltà Cattolica, Serie IV, Vol. VI, pag. 485). I deputati di Nizza, Garibaldi e Robaudi, a cui, soprattutto al primo, dobbiamo dare atto che in quell’occasione non si macchiarono di viltà e disonore, andarono su tutte le furie, il 23 di Aprile rinunciarono al loro mandato con la seguente motivazione: «Crediamo nostro dovere di deporre il nostro mandato di rappresentanti di Nizza protestando contro l’atto di frode e di violenza che si è consumato, aspettando che i tempi e le circostanze consentano a noi ed ai nostri concittadini di far valere con una libertà reale i nostri diritti, che non possono venir menomati da un fatto illegale e fraudolento». Non altrettanto onesto fu il comportamento del Garibaldone nel 1870 all’epoca della guerra franco-prussiana. Il 13 ottobre di quell’anno il giornale L’Opinione scriveva di lui, in un articolo dal titolo «Il generale Garibaldi in Francia»: «È già cosa stravagante che il generale Garibaldi, il quale, all’esordire di questa guerra, due mesi o poco piú appena trascorsi, scriveva una lettera nella quale invocava la vittoria alle armi tedesche e voleva agitare Nizza per torla alla Francia, sia adesso a Tours per portare alla Francia il sussidio del suo braccio e della sua rinomanza e raccomandi a Nizza di star quieta e tranquilla …» (A. Monti, La vita di Garibaldi giorno per giorno). Un po’ sospetto il voltafaccia, non è vero? Che ci sia stata qualche mancia del governo di Parigi? Solo piú tardi, l’8 giugno 1860, cioè quasi tre mesi dopo, a cose fatte, quando ormai i territori erano già francesi, lo pseudo-Parlamento di Torino, corrotto e minacciato dal Vittorione e dalla versiera del demonio, Cavour, diede farsesca e legale sanzione alla cessione. E a sua volta fu vigliacco e traditore. In cambio di quell’atto di frode, che è meglio chiamare col vero nome, alto tradimento, il Cavourrone otteneva da parte di Napoleone III il riconoscimento all’annessione della Toscana ed Emilia-Romagna (18 e 22 marzo) e la via libera a sconvolgere tutta la penisola. Il 27 marzo il «gran» conte scriveva a Nigra: «Consumatum est. Le traité de la cession de la Savoie et de Nice à la France est signé». Ma intanto, perché l’annessione alla Francia sembrasse il frutto della volontà popolare, furono tenuti, in quei due territori, plebisciti-truffa in cui, oltre ai soliti brogli in cui il Cavourrone era maestro, gli oppositori furono incarcerati, pestati a sangue, i giornali o imbavagliati o asserviti, agli elettori impedito di fare o ascoltare propaganda, etc., il tutto in un regime di terrore, un copione che si ripeterà puntualmente nelle successive «annessioni» e nell’invasione delle Due Sicilie. Il Canòfari da Torino faceva però sapere che i piemontesi, la gente comune, il popolo sano, non il Cavour né tantomeno il Vittorione, ne erano «afflittissimi», mentre a sua volta da Londra, già da un mese prima, 8 febbraio, il ministro Targioni comunicava a Carafa a Napoli: «L’annessione di Savoia e Nizza ha ridestata in Ingilterra violenta animosità contro Napoleone. Alcuni rappresentanti di grandi Potenze dichiaravano essere il piú grande errore che egli farebbe dopo quello verso il Papa». Ma, nonostante la rabbia, gli inglesi di lí a poco agiranno di conserva con la Francia per distruggere il Reame. E il Ministro degli Esteri di Napoli, che nubi minacciose contro il Reame vedeva sull’orizzonte degli eventi, scriveva amaramente al duca di Regina a Pietroburgo: «L’Europa si avvedrà ben presto degli effetti di questa politica» (A.S.N., Russia, fasc. 1700) che aveva frantumato l’equilibrio della Penisola a vantaggio del Piemonte e della Francia.
L’ULTIMA CARTA
Quale strada rimaneva aperta per la diplomazia delle Due Sicilie nel momento che la tempesta si avvicinava ai confini del Regno? Far rinascere un’intesa politico-militare tra le Potenze del Nord, Austria, Prussia, Russia. «l’inane sogno politico di Francesco II» come qualcuno ha definito quel tentativo per contrastare la voracità franco-piemontese. Cosí però rispondeva al Ministro Carafa il duca di Regina da Pietroburgo: «Circa l’accordo … Non vi è da farsi illusione per il momento; la politica dell’Austria durante la guerra di Crimea, rompendo la Santa Alleanza, ha ferito il cuore dell’Imperatore Alessandro; né l’E.V. deve ignorare che l’Imperatrice madre diceva al Duca di Serracapriola che l’Imperator Francesco Giuseppe era la causa della morte dell’Imperatore Nicola, di modo che non v’è da sperare di rivedere rifatta l’unione delle tre Potenze del Nord tanto piú che anche l’Austria e la Prussia hanno tante sorgenti di dissenzioni fra esse» (A.S.N., Russia, fasc. 1700, 24 marzo-5 aprile 1860).
UN GRANDE PATRIOTA DUOSICILIANO
Le mene sotterranee dei pirati della politica Napoleone III e Cavour venivano già percepite da Maniscalco, ministro di polizia in Sicilia, che proprio in quei giorni scriveva direttamente al Re : «Chiedo solo di rendere certa V.M. che Palermo è in preda a una febbre rivoluzionaria. V.M. deve però essere persuasa che qui ciascuno farà il suo dovere … » (R. Dep. Nap. di St. P., Carte di Ulloa, 29 marzo 1860). E Salvatore Maniscalco, benedetta sia sempre la sua memoria, non tralignò, per parte sua non tremò, né tramò. Fece, da perfetto funzionario, gentiluomo e patriota, il suo dovere fino all’ultimo, uno dei pochi alti funzionari che non aprí la mano ai soliti luridi trenta denari … Cosí, a volo d’aquila, abbiamo ricordato quale fu il moto primo, la ruota senza freni, il complotto di Plombières, da cui ebbe principio la valanga che travolse l’antico Regno delle Due Sicilie, grandiosa creatura politica del nostro quasi mitico Ruggero II. A quella valanga si uní una banda di scellerati spergiuri che tramò col nemico straniero, di cui erano diventati fedeli lacché, contro il proprio popolo per impadronirsi di una briciola di quel potere che gli era stato negato, a ragion veduta per i fatti del 1848 e 1849, da Ferdinando II. La storia ha i suoi cicli analogici. Ad Atene, dopo la battaglia delle Arginuse (406 a.C.), una masnada di assassini, a noi noti col nome di Trenta Tiranni, s’impadroní della Città con l’aiuto dell’odiato nemico Lisandrospartano: anche allora, come poi da noi nel 1860, ci fu una mattanza di oppositori, tra cui memorabile la fine di Socrate. Non furono magnogreche le nostre radici?
fonte http://www.adsic.it/2001/12/02/unanalisi-della-catastrofe-del-1860/#more-60