Alta Terra di Lavoro

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Unità d’Italia e Camorra

Posted by on Nov 22, 2018

Unità d’Italia e Camorra

Qualche ora prima di uscire per l’ultima volta dalla reggia, il sovrano si rivolse al ministro di polizia e, per fargli capire che, se fosse ritornato sul trono, l’avrebbe fatto impiccare, gli disse: «Guardatevi la testa».

Liborio Romano, che già aveva spedito un telegramma di benvenuto a Garibaldi, rispose:
«Maestà, rimarrà a lungo sul mio collo».”

L’eroe dei due mondi” entrò in Napoli all’una del pomeriggio del 7 settembre, e furono ancora i camorristi a badare, durante quei drammatici momenti, al mantenimento dell’ordine pubblico.

Anzi, in testa al corteo che seguiva la carrozza di Garibaldi, si erano messi i camorristi Jossa, Capuano, Mele, lo stesso «Tore ‘e Criscienzo» nonché la tavernaia Marianna De Crescenzo detta «La Sangiovannara».

Costei, secondo gli storiografi di parte borbonica Giacinto De Sivo e Giuseppe Buttà, aveva fama di esser camorrista e come tale si comportava contraddicendo una regola e una tradizione che negava alle donne la possibilità di appartenere alla Bella Società Riformata.
Venne effigiata da un celebre pittore. Saverio Altamura.

Nel nuovo ministero formato da Garibaldi, a capo del quale fu messo Luigi Carlo Farini, la carica di ministro della polizia continuò, per poco ancora, ad essere occupata da Liborio Romano.

E i camorristi, coccarda tricolore sul cappello, serbarono saldamente i gradi di commissari di polizia. Col pieno assenso di Garibaldi, naturalmente.

Del resto in Sicilia il «Dittatore» era stato ben lieto di accogliere fra i suoi volontari, tramite il barone Giuseppe Sant’Anna, moltissimi picciotti reclutati nelle file della mafia.

Nelle prime settimane successive all’ingresso di Garibaldi, Napoli poté far esplodere tutta la sua pittoresca esuberanza che, come sempre, presentava in molti casi aspetti anche ridicoli e patetici.
Usciti dalle fortezze in cui si erano asserragliati, gli ultimi soldati borbonici in procinto di raggiungere il grosso delle truppe a Capua, circolavano ancora, in perfetta uniforme, per le strade della città, e si scambiavano saluti d’ordinanza con i bersaglieri piemontesi, con i garibaldini e con i componenti della Guardia Nazionale e della Guardia Cittadina.

Chi governava?
Ufficialmente il ministero insediato da Garibaldi, ma vi era poi un consiglio di dittatura e vi erano comitati vari. In tale guazzabuglio i camorristi, ancora con la coccarda tricolore sul cappello, erano forse i soli a non aver perso completamente la testa.

Era però assurdo pretendere che i membri della Bella Società Riformata, per il solo fatto di essere stati inquadrati in un corpo di polizia e di essere stati nominati chi commissario e chi ispettore, potessero comportarsi eternamente da galantuomini.

Dopo i primi momenti di euforia, infatti, i camorristi si accorsero che la loro nuova condizione di tutori dell’ordine, poteva favorirli nell’esercitare più agevolmente i tradizionali soprusi.

Il capintesta Salvatore De Crescenzo decise di avocare alla sua squadra tutte le tangenti sul contrabbando di mare, mentre il capintrito Pasquale Merolle si riservò le tangenti sul contrabbando di terra.

Alla testa dei loro fidi, i due camorristi sorvegliavano tutti i varchi della città, ogni volta che arrivavano casse di merci, essi dicevano ai doganieri: è roba di zio Peppe, è roba di Garibaldi.

Gli importatori furono esonerati così dal versare il dazio all’erario, ma non dal consegnare ai poliziotti- camorristi grosse somme che finivano nei forzieri della Bella Società Riformata.

Altri varchi cittadini erano piantonati dai gregari del capintrito Antonio Lubrano detto «Totonno ‘a Porta ‘e Massa».
«E roba di zio Peppe», ripetevano anche loro ai doganieri, e pure il dazio sui bovini veniva dirottato verso le casse della criminale setta.

Gli introiti della dogana, che normalmente, malgrado la secolare presenza della camorra, si aggiravano sui 40.000 ducati al giorno, scesero rapidamente a 1.000 ducati; e vi fu anche un giorno in cui, in tutta Napoli, i gabellieri riscossero appena venticinque soldi. Nel mese di dicembre, in una sola notte, vennero arrestati, dai militari, novanta poliziotti-camorristi: già 1’indomani la dogana riuscì a incamerare 800 ducati.

Nella confusione politica e amministrativa della città, comparve una schiarita il 3 gennaio 1861, quando il principe Eugenio di Carignano sostituì nella luogotenenza Luigi Carlo Farini, dimostratosi troppo debole. Il nuovo ministro era affiancato dal giovane diplomatico Costantino Nigra, il quale aveva il compito di inviare dettagliate relazioni a Cavour sulla situazione napoletana.
La carica di direttore della polizia andò al patriota Silvio Spaventa che, immediatamente, sciolse il corpo delle Guardie Cittadine e lo rimpiazzò con quello delle guardie di Pubblica Sicurezza, licenziando insomma i camorristi.

Naturalmente questo fermo atteggiamento gli procurò innumerevoli inimicizie; per poco, anzi ‘ non gli costò la vita. Il 19 gennaio vi fu una prima dimostrazione contro il nuovo funzionario. Gruppi di camorristi, chiedendo di essere reintegrati nei ruoli della polizia, percorsero le strade di Napoli e provocarono tumulti gravissimi.
Ma la manifestazione più massiccia, i camorristi l’organizzarono tre mesi dopo, il 26 aprile, quando Spaventa, d’accordo col generale Tappeti, emanò un’ordinanza che faceva divieto ai componenti della Guardia Nazionale, anch’essa inquinata, di indossare l’uniforme fuori dalle ore di servizio.

Una fiumana di ex Guardie Cittadine, di Guardie Nazionali e di garibaldini, guidati dai capi della Bella Società Riformata invasero il ministero chiedendo la testa di Silvio Spaventa. Il patriota fu salvato dalla presenza di spirito dei segretari Giuseppe Colucci ed Emilio Vaglio i quali riuscirono a farlo fuggire da una scala segreta.
Delusi, ma decisi a non darsi vinti, i camorristi si avviarono verso il palazzo Latilla, dove Silvio Spaventa, ospite di Onorato Croce, aveva preso dimora e, trovatolo deserto, lo devastarono.

Un camorrista, per bravata, si affacciò da una finestra e, mostrando alla folla un coltello , gridò: «Ho ucciso Silvio Spaventa! L’ho ucciso con questo!».

La folla applaudì a lungo. Informato, nel suo rifugio, di questi drammatici avvenimenti, Silvio Spaventa si rese conto che gli rimaneva un sol sistema per recuperare il suo prestigio di direttore della polizia: dimostrare, ai camorristi, di non temerli affatto.

Volle dunque uscire a piedi e, accompagnato da Costantino Nigra, da Federico Quercia e da Tommaso Arabia, andò a cenare al Caffè d’Europa che allora era diventato, appunto, il quartiere generale della polizia camorristica.

Quindi, assolutamente solo, si recò al teatro San Carlo, entrò in un palco di seconda fila, di cui erano titolari i suoi amici Petroni, assisté tranquillamente allo spettacolo, e andò infine a farsi una passeggiata notturna per via Toledo.
Ammirati e sorpresi per il suo coraggio, i camorristi non osarono molestarlo. Purtroppo, quella di sgominare la setta rimase un’illusione per Silvio Spaventa. La lotta iniziata da Silvio Spaventa fu proseguita, nel 1862, dal questore Carlo Aveta.

La situazione era più che mai disastrosa. Ufficialmente estromessi dalle forze di polizia, gli affiliati alla setta avevano tuttavia guadagnato altre innumerevoli leve di potere: ogni volta che faceva arrestare un camorrista, Carlo Aveta riceveva almeno venti lettere di deputati i quali lo pregavano di annullare il provvedimento.

La verità è che i camorristi, sebbene analfabeti, erano già in grado di manovrare le masse elettorali, per cui quei napoletani i quali ambivano ad occupare un seggio nel parlamento di Torino, dovevano ricorrere al loro appoggio.
Nel luglio del 1862, approfittando di quello stato di assedio che era stato proclamato nelle province meridionali per consentire al generale Lamarmora di combattere il brigantaggio, il questore Aveta decise di condurre un’azione massiccia contro la camorra.

E tuttavia non trovò niente di meglio da fare che seguire, mutatis mutandis, l’esempio di Liborio Romano. Considerato che a Napoli, oltre ai camorristi imperversavano i guappi, quegli individui che, pur comportandosi da sopraffattori non erano affiliati alla Bella Società Riformata, Carlo Aveta pensò di chiedere il loro aiuto.
Volle mettere, insomma, guappi contro camorristi.
I guappi Nicola Jossa e Nicola Capuano, i quali già, sebbene per poco, avevano ricoperto incarichi nella Guardia Cittadina furono convocati dal questore Aveta e promossi delegati di Pubblica Sicurezza.

Il provvedimento, per la verità, si rivelò quanto mai efficace. Fu soprattutto Nicola Jossa a rendere grossi servigi all’ordine pubblico. Il delegato ex guappo, che conosceva i camorristi di Napoli uno per uno, li andava a scovare nei posti più impensati, perfino nel bosco di Capodimonte, li fissava con occhi sprezzanti, li colpiva a scudisciate sulle mani, e:
«Avanti! Dirigiti verso il carcere di Castelcapuano. Io ti seguo a due passi di distanza!», urlava.

Ogni giorno, scovati da Jossa. decine di camorristi, diventati improvvisamente docili e arrendevoli, entravano nelle prigioni. Spronato dal questore, Nicola Jossa volle poi compiere un’azione di bonifica al Ponte della Maddalena dove, ritto sull’uscio dell’ufficio doganale, il celebre capintesta Salvatore De Crescenzo imperava indisturbato.

Andò lì tutto solo, Nicola Jossa. Si avvicinò al capintesta, il quale, come sappiamo, nel periodo di transizione aveva ricoperto il grado di caposquadra della Guardia Cittadina, e gli disse:
«Da oggi in avanti, tu qua non comandi più. Il ponte della Maddalena appartiene alla legge» .

Una lunga e pacata discussione indusse i due a decidere di sfidarsi a una zumpata: se avesse vinto «Tore ‘e Criscienzo», il ponte della Maddalena sarebbe rimasto nelle mani della camorra; in caso contrario sarebbe passato allo Stato.

L’indomani mattina Nicola Jossa e «Tore ‘e Criscienzo» si incontrarono al Campo di Marte. Entrambi a torso nudo, ciascuno armato di un affilato coltello, essi disputarono una drammatica zumpata.
Nicola Jossa ebbe il sopravvento ma, generosamente, anziché uccidere il suo avversario, si limitò a ferirlo al braccio.
«Il ponte della Maddalena appartiene alla legge. Accompagnami al carcere», disse Salvatore De Crescenzo.

segnalato da Gianni Ciunfrini

 

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