Unità d’Italia e letteratura: la “secessione” degli scrittori siciliani
Da Giovanni Verga a Federico De Roberto, da Luigi Pirandello a Leonardo Sciascia e a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, da Vincenzo Consolo ad Andrea Camilleri: l’Italia unita e gli esiti del Risorgimento visti e criticati dal Sud.
Il 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, segna il compimento (o quasi) dell’unificazione nazionale. Ma quello stesso anno e – forse ancora di più – il 1870, con la risoluzione della “questione romana”, corrisponde invece all’inizio di una divisione nella storia della letteratura italiana legata (cronologicamente o tematicamente) al Risorgimento. Sembra un paradosso ma, a ben vedere, è proprio così: la letteratura, unita nell’Italia divisa, diviene divisa una volta raggiunta l’unificazione nazionale. Mentre, con il 1861, Nord e Sud della penisola si fondono in un’unica realtà politica, a partire dai primi decenni post-unitari (e fino ai nostri giorni) si assiste ad una “secessione” letteraria tra meridione e settentrione.
Fino al 1861, al di là di possibili divergenze sulle modalità con le quali raggiungere l’unificazione e sulle forme politiche da far assumere al nuovo Stato, scrittori e poeti si fanno interpreti di un desiderio comune, che è quello di liberare l’Italia dalla dominazione straniera e di renderla “una” dalle Alpi alla Sicilia. Da Foscolo a Leopardi (il Leopardi, soprattutto, delle canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante), da Manzoni al Giusti con i suoi “scherzi”, da Carducci al giovanissimo Verga (che si arruola volontario nella Guardia nazionale e pubblica a proprie spese, tra il 1861 e il 1862, il romanzo storico-patriottico I carbonari della montagna), tutta la letteratura più significativa – insieme a moltissimi testi letterari d’occasione e ai romanzi storici di letterati-uomini politici come Guerrazzi e D’Azeglio – converge verso un unico obiettivo: quello di un’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor» (per dirla con Manzoni), di uno “stivale” non più frammentato e multicolore come il vestito di Arlecchino ma «tutto d’un pezzo e tutto d’un colore» (per dirla, invece, con Giusti).
Dopo il raggiungimento dell’unificazione nazionale e il trasferimento della capitale a Roma si assiste invece ad un significativo fenomeno di “secessione” letteraria. E se la delusione per gli esiti del Risorgimento appare assai diffusa in tutta la penisola (si pensi ai testi che Carducci va scrivendo dopo il 1871 e al suo rifugiarsi – che fu comune a molti uomini del Risorgimento – nelle glorie del passato contrapposte ad un presente meschino e deludente) è soprattutto il Sud – e, in particolare, la Sicilia – a farsi portavoce di un diffuso malessere. Nel Nord, le delusioni si manifestano soprattutto attraverso un ritiro silenzioso e triste alla vita privata da parte di intellettuali che avevano lottato per l’unificazione nazionale o attraverso il culto degli anni eroici del Risorgimento (tra il 1821 e il 1860); la contestazione, nel Nord, può concentrarsi su rivolte riguardanti il costume e anche la lingua dominante (strada scelta da alcuni esponenti della “Scapigliatura”); ma finisce per prevalere la voce di chi, come il De Amicis di Cuore (1886), esalta con legittimo orgoglio il processo unitario giunto a compimento (o quasi), racconta l’Italia del presente attraverso una delle più rilevanti e positive novità (la scuola e l’istruzione elementare obbligatoria, dalla quale fugge il contemporaneo Pinocchio creato da Carlo Collodi) e invita, concretamente, a darsi da fare per affrontare e superare le difficoltà incontrate inevitabilmente dal nuovo Stato. Il Sud, invece, non solo misura la distanza tra le speranze pre-unitarie e le delusioni successive al 1861, ma inaugura una autentica ‘linea’ letteraria di opposizione rispetto a come si è andata configurando l’Italia unita.
Verga, nel decennio più importante per la sua letteratura (quello compreso tra il 1880 e il 1889), sceglie di raccontare, per esempio, che cosa significhi l’Italia unita per le classi sociali più povere della Sicilia. I personaggi dei Malavoglia (romanzo che fin dal primo capitolo indica significativamente l’anno nel quale le vicende narrate iniziano a svolgersi: il 1863), continuano a far riferimento al Regno delle Due Sicilie, come se niente fosse accaduto, tanto che un personaggio (Barbara) parla della penisola italiana come di un territorio «fuori Regno»: fuori, cioè, del Regno delle Due Sicilie, che era crollato un paio d’anni prima. Ma I Malavoglia raccontano anche in che modo questa entità lontana e astratta che è lo Stato italiano fa sentire la sua presenza nel profondo Sud: il passaggio dai Borboni al Regno d’Italia, infatti, è accompagnato dall’imposizione di nuove tasse (come quella sulla pece e sul sale, che provoca la velleitaria «rivoluzione delle mogli» raccontata nel capitolo VII del romanzo) e dall’obbligatorietà del servizio di leva (che porta il giovane ‘Ntoni lontano dal suo scoglio – e quindi, secondo la prospettiva verghiana, sulla strada della perdizione – e fa morire Luca Malavoglia nella battaglia navale di Lissa del 1866). Ma Verga, soprattutto, scrive nel 1882 una novella come Libertà, dedicata ai fatti avvenuti realmente a Bronte nell’estate del 1860, quando la popolazione, pensando di anticipare degnamente l’arrivo di Garibaldi da poco sbarcato in Sicilia, si solleva contro i ricchi e “i cappelli”, uccide tutti coloro che considera degli oppressori, sfoga, in un «carnevale furibondo», la rabbia a lungo repressa, finché un generale di Garibaldi (Nino Bixio) giunge nel paese siciliano, fucila i primi quattro rivoltosi che gli capitano sotto tiro e imprigiona tutti gli altri responsabili della rivoluzione, che finiranno la loro vita in carcere, lontani dalla libertà sognata e coincidente, per il popolo siciliano, con un pezzo di terra da poter possedere e coltivare.
Se Verga, con Libertà, pur non assumendo un atteggiamento ‘partigiano’ né nei confronti dei rivoltosi, né verso Bixio e i garibaldini, sceglie comunque di raccontare – e di immortalare – una pagina meno esaltante di quella spedizione dei Mille entrata subito, fin dal suo svolgersi, nella sfera del ‘mito’, è un altro scrittore siciliano, Federico De Roberto, a pubblicare nel 1894 il primo romanzo politico dell’Italia unita, I Viceré, storia della famiglia nobiliare degli Uzeda tra il 1855 e il 1882: una famiglia capace di tenere saldamente in mano il proprio potere, sia prima dell’arrivo di Garibaldi in Sicilia (con il titolo di Viceré ottenuto dalla corona di Spagna), sia dopo la nascita del Regno d’Italia (quando sarà uno Uzeda – e non un autentico liberale – a divenire deputato). De Roberto, che poi avrebbe proseguito a raccontare la storia degli Uzeda nel romanzo intitolato L’Imperio (un romanzo che si inserisce nell’ambito della “letteratura parlamentare”, nata già all’indomani dell’apertura del primo Parlamento unitario), scrive, con I Viceré, il romanzo del mancato cambiamento, della trasformazione apparente e della sostanziale continuità; scrive un libro di forte polemica nei confronti degli esiti del Risorgimento, i cui alti ideali vengono demoliti sarcasticamente dalla frase pronunciata dal duca d’Oragua, l’Uzeda divenuto parlamentare: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri» (dissacrante rivisitazione – in chiave egoistica e familiare: una chiave, ahinoi, che i fatti avrebbero rivelato assai realistica – delle parole di Massimo D’Azeglio: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli italiani»); De Roberto, con I Viceré, scrive il romanzo dell’immobilismo, della storia come «monotona ripetizione» («La storia è una monotona ripetizione»: è ciò che Consalvo Uzeda spiega alla vecchia zia Ferdinanda nelle pagine finali).
Al termine del “decennio giolittiano”, quello che sarebbe divenuto uno degli scrittori più internazionalmente noti della letteratura italiana, Luigi Pirandello, pubblica uno dei romanzi meno conosciuti della nostra tradizione letteraria: I vecchi e i giovani (1911-1913), violento atto di accusa contro lo Stato unitario: un violento atto d’accusa lanciato, ancora una volta, dalla Sicilia. È Caterina Laurentano (il personaggio più positivo del romanzo, una donna che ha sofferto per gli ideali patriottici, che ha sposato un uomo morto nelle battaglie garibaldine, il cui figlio – Roberto – è stato la più giovane “camicia rossa”) a farsi portavoce della profonda delusione di un intero popolo. Al figlio che vorrebbe candidarsi alle elezioni nelle file del partito che ha governato l’Italia, dice con fermezza e vigore: « “Non voglio, non posso ammettere che tu sia venuto qua in nome del Governo che ci regge. Tu non hai rubato, figlio, non hai prestato man forte a tutte le ingiustizie e le turpitudini che qua si perpetrano protette dai prefetti e dai deputati, non hai favorito la prepotenza delle consorterie locali che appestano l’aria delle nostre città come la malaria le nostre campagne!». Ed è Caterina, sempre nelle stesse pagine, che sintetizza in una sentenza di condanna senza possibili appelli, ciò che è avvenuto in Italia tra il 1861 e il 1891: «Trenta e più anni di malgoverno!».
I Vicerè e I vecchi e i giovani hanno pagato la loro “inattualità”, la loro forza polemica, con la lunga dimenticanza; ma in comune, oltre che la sfortuna non ancora del tutto venuta meno, hanno anche una data: il 1894. È l’anno in cui il romanzo di De Roberto viene pubblicato ed è l’anno in cui Pirandello immagina di concludere le vicende narrate. Vicende che raccontano di una capitale d’Italia imbrattata da una pioggia di fango (nel 1894, vale la pena ricordarlo, esplode lo scandalo della Banca di Roma, con gli illeciti rapporti tra potere politico e potere economico) e di uno Stato unitario che manda in Sicilia l’esercito per reprimere nel sangue i moti dei “Fasci siciliani”. È anzi proprio durante uno scontro tra esercito italiano e tumultuante popolazione siciliana che Mauro Mortara (personaggio che, ne I vecchi e i giovani, incarna la fedeltà agli ideali garibaldini) rimane ucciso, nell’estremo tentativo di fermate la violenza di quello Stato che anche lui, come molti altri siciliani, ha contributo a far nascere, combattendo con il Generale in camicia rossa.
Ma non si conclude qui la storia letteraria dell’Italia unita vista da Sud. Tra il 1957 e il 1958, con straordinaria coincidenza cronologia, due scrittori distanti da un punto di vista ideologico, sociale e letterario come Leonardo Sciascia e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicano due testi vicini per contenuto: Il Quarantotto e Il Gattopardo. Un racconto e un romanzo dedicati, ancora una volta, allo sbarco di Garibaldi in Sicilia e ad un mancato cambiamento. Quando Sciascia racconta del barone Garziano che supera indenne i moti del 1848 (come mastro don Gesualdo nel romanzo verghiano, capace di «tenersi a galla» anche nelle tempeste politiche del ’21 e, appunto, del ’48) e lo descrive, nel 1860, con la coccarda tricolore e pronto a stringere la mano a Garibaldi, narra la storia di una terra senza rivoluzioni. Quella terra che, nel romanzo Il Consiglio d’Egitto, non ha importato nessun ‘lume’ dalla Rivoluzione francese e che, dopo lo sbarco degli alleati descritto nel racconto La zia d’America, ha visto una sostanziale continuità tra fascismo e ritorno della democrazia, assiste, nel Quarantotto (ma Sciascia già lo aveva scritto nel suo libro d’esordio, Le parrocchie di Regalpetra) al passaggio di Garibaldi senza che questo porti con sé le attese trasformazioni sociali (Sciascia adopera un’immagine per raccontare questa realtà sostanzialmente immobile: quella dell’organista che è cambiato ma che suona sempre la stessa musica).
E Tomasi, che scrive, certamente, un romanzo non solo sulla storia ma anche sull’eternità (sulla vita e, soprattutto, sulla morte), quando condensa nella più famosa frase del suo libro (pronunciata da Tancredi) gran parte del senso della vicenda narrata («“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”») non appare isolato nella storia della letteratura italiana (nonostante il carattere di unicum che giustamente viene attribuito al Gattopardo), ma riprende e ribadisce quanto altri siciliani avevano scritto prima di lui.
È il Sud che produce i romanzi di opposizione al nuovo Stato italiano che ha tradito le aspettative. Ed è il Sud che, anche dopo Sciascia e Tomasi di Lampedusa, ha continuato a riprendere – in forme e con esiti diversi – questo stesso tema, argomento anticanonico (finché era trattato da Verga, da De Roberto, anche da Pirandello) che ha finito per farsi canone.
Sulla strada che sommariamente abbiamo ripercorso (e sulla quale potrebbero essere inseriti altri romanzi meridionali, come La conquista di Roma di Matilde Serao, Signora Ava di Francesco Jovine o L’Alfiere di Carlo Alianello, nato a Roma da famiglia di origine lucana), si collocano Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, del 1976 (sembra quasi profetica la frase pronunciata da un patriota che, nel 1856, dice al barone di Mandralisca, in estatica contemplazione del volto in terra cotta di una Kore che gli fa pensare a come dovrà essere l’Italia libera e unita: «“Eh, troppo bella, barone, troppo perfetta… Anzi, direi, troppo ideale”»), ma anche i romanzi “storici” di Andrea Camilleri ambientati nella Sicilia postunitaria, da Un filo di fumo (che con quel suo «storia è, storia sarà» riprende il «Munnu è statu, munnu è» di Padron ‘Ntoni Malavoglia – ma anche la riflessione sulla monotonia e sulla ripetitività della storia di De Roberto) a Il birraio di Preston e a La concessione del telefono (non a caso aperto da una lunga citazione tratta da I vecchi e i giovani).
E che quello della visione critica nei confronti dell’Italia unita sia divenuto quasi un topos della letteratura meridionale, o comunque un terreno sul quale gli scrittori sentono la necessità di misurarsi (anche per le problematiche sempre attuali che propone) sembra confermato dal suo riaffiorare anche in un romanzo come La zia marchesa di Simonetta Agnello Hornby (2004), che pure è più concentrato su una vicenda individuale che sulla Storia, o dal suo tornare come motivo dominante nel racconto di Giosuè Calaciura, I Mille a Palermo (2008).
E quando Anna Banti – nata a Firenze, ma da famiglia di origine calabrese – scrive il romanzo Noi credevamo (1967), volendo guardare agli esiti del Risorgimento da una angolatura critica e da una prospettiva dominata dalla delusione, mette non a caso in scena un personaggio meridionale, Domenico Lopresti, che incarna per molti aspetti il nonno garibaldino della scrittrice. Lopresti, ormai settantenne (il presente corrisponde nel romanzo all’anno 1883), vive a Torino come in una terra d’esilio, si sente estraneo rispetto ad un paese per la cui unità ha lottato, ripensa agli ideali del passato che vanno spegnendosi nel tempo presente. E, da «uomo del sud», ripete ciò che altri uomini (e scrittori) meridionali (da Verga a Sciascia e a Tomasi di Lampedusa) hanno sostenuto: parla di un Risorgimento egemonizzato dal Piemonte, di uno Stato unitario che non comprende il meridione, di un Parlamento che non ascolta la voce della sua «avvilita» terra d’origine.
Giovanni Capecchi
Docente di letteratura italiana
Università per Stranieri di Perugia
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