Venerdì Santo a Campobasso. La processione del nero e del blu
Dal Molise. Un imponente coro di settecento persone piange la morte del figlio di Dio il Venerdì Santo a Campobasso, con il canto struggente “Teco vorrei o Signore”, composizione di inizio Novecento del maestro campobassano Michele De Nigris su versi di Pietro Metastasio. Nel racconto di Flavio Brunetti “Un ferroviere, la sua città, la sua croce”, illustrato dalle fotografie di Paolo Cardone, tutto lo strazio e il pentimento collettivo di una città intera.
Innanzi a tutti ‘u stennarto, lo stendardo della chiesa. Una croce con gli attrezzi e le reliquie del supplizio. Una forma di gallo in cima, chiodi, una scala, pezzi di legno, lance acuminate. La pesantissima croce termina, in basso, a forma di asta. Lì è infilata nel cilindro di cuoio dell’imbragatura che avvolge la fatica sacrificale dell’uomo; il portatore, che apre il lungo, pietoso corteo di penitenza. L’uomo, da anni, è sempre lo stesso.
Un ferroviere. Accanto, nei faticosi passi, i suoi figli, due giovani gracili, due giovani belli, forti di fede, lo aiutano nel sacrificio di religiosa espiazione. Quell’uomo, che prima era soltanto un ferroviere, è anche stato il Sindaco della città e il Presidente della Provincia. Partito Democratico. La città, serrati i risentimenti, gli affari, i rancori, tende, tutta insieme, le braccia, in questo giorno di dolore, alla pena del supplizio del Figlio di Dio.
Alle spalle del ferroviere sindaco, lunghissima è la fila silenziosa. Uomini, donne e bambini per Associazioni o Parrocchie di appartenenza. Monache. Monaci. Preti. Le donne comuni col velo nero e vestite di nero. Alcune portano appesa una targa, di cuoio o di stoffa, una targa benedetta. I bambini vestiti da scout, da chierichetti o anche normale. Gli uomini curvi, lo sguardo a terra, hanno la giacca e la cravatta.
Silenziosi, in colonna su due file ai lati della strada, strisciano i piedi e recitano il rosario e le litanie. Qualcuno per intonare l’Ave Maria ai propri fedeli usa uno stridente megafono, come alle manifestazioni. Ogni tanto altri stendardi di parrocchie con l’effigie del loro Santo.
Due ali di folla curiosa aspettano sui bordi dei marciapiedi. Il silenzio. Il tintinnio delle monetine nel vassoio di metallo per le offerte alla chiesa di Santa Maria.
Lo strisciare dei passi è una infinita sequenza di vecchie e di vecchi, di bambini e di adulti, di poveri, ricchi o benestanti.
I vestiti sono sul nero, ma ogni tanto qualche signora sfoggia la sua pelliccia di visone.
La signora, il visone, lo ha comperato tanti anni fa e non ha ancora il coraggio di gettarlo via… con tutti quei soldi che spese per farsi più elegante, quando ancora era forse attraente. Ora lo custodisce, gelosa, nel suo armadio e se lo cura con tanta naftalina. Povera donna condannata per pochi soldi a quella orrenda pelliccia per tutta la vita!
La senti, la signora, che arriva in pelliccia, dal lezzo ch’ella emana, il penetrante, venefico tanfo delle pasticche del tarmicida.
Il tempo sembra che non debba finire, ma si comincia a sentire, lontano, una musica, un canto.
Ecco ora i generali dei Carabinieri, della Finanza, il comandante dei Vigili Urbani e del Fuoco.
Si sente più forte il colpo della grancassa e con esso la banda e dietro una folla immensa. Una folla che canta. Sono divisi da un corridoio, le donne da un lato, a destra, e gli uomini all’altro. È il coro.
Nel corridoio, tra gli uomini e le donne, s’affrettano i direttori del canto e danno il tempo ai vari settori, gesticolando, in alto le mani, andando avanti ed indietro, per far notare alla folla, che si commuove al canto di tante persone, la loro importanza.
Tutti quelli del coro indossano un impermeabile che stranamente non è nero, ma è blu, blu molto scuro, col distintivo dei Carabinieri: un dono dell’Arma. A volte bisogna accontentarsi. Questi impermeabili sottili sottili, quando strusciano, emettono un suono di sibilo e il canto ha per sottofondo quel suono di strusci.
Settecento. Sono settecento le persone del coro e cantano ai cuori. Si scuotono tutti, anche gli atei al quel canto:
Teco vorrei o Signore
oggi portar la croce
nella tua doglia atroce
io ti vorrei seguir,
ma sono infermo e lasso
donami deh coraggio
acciò nel mesto viaggio
non m’abbia da smarrir…
Molti di quelli che cantano nel coro sono popolani e non hanno mai compreso quelle parole un po’ arcaiche: teco, doglia, acciò, lasso, deh, mesto, m’abbia, ma cantano e con grande fervore ugualmente perché sanno che sono loro a fare commuovere gli altri. Si sentono fieri di questo.
Per far parte del coro hanno dovuto seguire tutta una prassi e aver partecipato alle prove per giorni e per giorni. E quando la processione, alla sera, rientra in chiesa sono oramai sgolati. Spesse volte viene giù anche la neve e il tutto diventa ancora più drammatico.
Circondato da preti, da monaci e dai dirigenti di congreghe importanti vestiti con sontuose vesti, arriva il Vescovo. Dietro di lui due lumi portati come due ceri. Un velo ricopre la sagoma del corpo di un uomo disteso, portato a spalle da quattro persone vestite di bianco, un bianco, macabro saio. Il velo è colore del viola. L’uomo, Gesù, è bianco anche lui. Mostra nel volto gli atroci segni della sofferenza.
A lato procedono a scorta del tristissimo feretro ancora Carabinieri, Finanza, Polizia e soldati.
La voce del canto che si allontana si fa sempre più forte nel cuore. La gente a lato, dai marciapiedi, si segna la fronte con una lenta croce, manda baci al sudario poi stringe le mani. Piangono. Piangono in molti. Tutti si sentono in colpa. Soprattutto i vecchi.
Resta, nel cuore, ultima immagine, la Madonna addolorata. La statua di una donnina minuscola portata in alto con un tappeto di rose ai piedi. Pendono da essa dei lunghi nastri neri portati a terra, alla base, secondo la forma di un cerchio, da afflitte donne tutte vestite nere, con veli a trama fittissima e anch’essi neri.
La Madonna, così, là in alto, è la guglia, è il vertice di un cono sacro.
Le nere donne che, afflitte, portano il nastro che pende dall’Addolorata, sono donne che hanno perso un figlio da poco o, a volte, anche il marito.
Dietro le donne che portano il nastro, alla fine, eccoli! I senatori, i deputati, gli assessori e i consiglieri della Regione e del Comune, post fascisti, leghisti del Nord, centristi e centrosinistri, cinque stellisti e berlusconiani, disposti in fila, dal centro ai lati, secondo la loro importanza, secondo cioè il numero dei voti che loro hanno preso. E quanto più sono vicine le nuove elezioni tanto più numerosi essi sono.
È sera. Con i suoi due figli, stanchissimo, il ferroviere, che fu anche il sindaco della città di tutta quella gente che trema, entrerà per primo, sorreggendo per l’ultimo tratto la croce, nella chiesa dalla quale con il suo peso è uscito. Lì, mondata la colpa del martirio di Suo Signore Gesù, attenderà il corpo divino ritornare e la minuscola Madre e, a quei due simulacri, vacillanti sulle spalle degli uomini, finalmente anch’egli canterà.
Struscia i suoi passi, dietro la combriccola dei politici in cerca di consensi e di voti, la folla. La folla disordinata che vorrebbe, anch’essa intonare, nel pianto, le note a Gesù crocifisso, morto straziato, coperto dal velo; ma le settecento voci del coro e la banda e il Cristo e la Madonna sono ormai troppo lontano.
Un racconto di Flavio Brunetti da Campobasso
(pubblicato nel 2015 e aggiornato)
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