Vita della Duse di Alfredo Saccoccio
La famiglia Duse, che si era stabilita, da secoli, in Chioggia, non si sarebbe mai mossa, se, nella prima metà dell’Ottocento, un Luigi Duse, marinaio come tutti i suoi, non avesse desiderato darsi al teatro. Si fece attore, fu celebre, ebbe la migliore Compagnia dialettale : subito i fratelli, i nipoti ed altri parenti vari, lo seguirono sulle scene. Attori anche i figlioli, anche Alessandro, che avrebbe voluto essere pittore e non poté ; romantico e delicato Alessandro, sposato ad un a ragazza romantica e delicata, Angelica Cappelletto, dolcemente malata di elisia, destinata a vagabondare da un palcoscenico all’altro, senza gloria, senza denaro e senza pace. Sono questi i genitori du Eleonora, che nacque a Vigevano, il 3 ottobre 1859. La portarono al battesimo in un piccolo cofano di cristallo, così che parve una reliquia ed i dragoni le presentarono le armi : certo aveva già gli occhi larghi, bruni e dolenti.
Padre, madre e bambina girano per il Veneto; fra le braccia della madre, Eleonora compare in scena. Cresce, ha cinque anni e rappresenta Cosetta. Piange così bene che gli spettatori ne sono rapiti.
A 32 anni, Eleonora perde la madre, la soave Angelica, malatissima e coraggiosissima, che se ne va senza rumore, lasciando marito e figliola in un dolore vasto e muto : proprio in quei giorni, ereditano un poco di danaro, cinque casette chioggiotte e le rifiutano, poiché la cara morta non potrà più goderle : il loro solo conforto vien proprio di lì, dal gesto di fierezza fantasiosa, e poi riprendono la vita dura ed inquieta.
Le rose di Giulietta
A 14 anni, Eleonora è a Verona. Ha letto Shakespeare, rappresenterà Giulietta : una felice estasi la coglie. Spende i suoi pochi risparmi per comprarsi delle rose scarlatte. In una domenica di maggio, l’immensa Arena, il cielo aperto, una moltitudine di popolani l’aspettano ed Eleonora appare, carica di rose, avvolta, fasciata, torturata di rose. E’ Giulietta: ogni sua parola suona inevitabile e giusta, ogni accento è fatalmente predestinato. Lascia cadere la prima rosa ai piedi di Romeo, sfoglia la seconda dal balcone. Una felicità limpidissima e terribile la conduce alla morte come su chiare onde. La notte scende, mentre il dramma ancora dura e gli scroscianti applausi, la sua atterrita gioia, il buio, danno ad Eleonora l’illusione di aver raggiunto una vetta.
Poi Eleonora lavora in compagnie meschine, che già senta indegne. Finalmente il balzo in avanti nella compagnia Emanuel, che per prima donna ha l’opulentissima signora Giacinta Pezzana. Accanto a lei, come dovette sembrare magra, magra, sparutella, la signorina Duse ventenne, malvestita e triste ! Il pubblico napoletano non l’amò gran che, si capisce, abituato ai ricchi fascini dei busti colmi e delle “tournures” rigogliose. Ma Napoli era piena di risorse : c’era una giovane giornalista, la signora Matilde Serao, che subito fu amica di Eleonora, e c’era Martino Cafiero, civettone, conquistatore, astutissimo Don Giovanni. Subito Eleonora ne è rapita e ne riceve fiori, libri, vezzi ; impara a conoscere Posillipo e le cene galanti, le gite in barca e il chiaro di luna.
Eleonora è molto felice. Trova, per rappresentare la nuora di “Teresa Raquin”, accenti così nuovi ed umani da ottenere il trionfo e la seconda grande scrittura, nella compagnia di Cesare Rossi, a Torino. Scrittura che non le dà gioia, ma dolore, perché significa il distacco dall’amato, una nuova solitudine Più grande solitudine quando, a Torino, Eleonora si accorge di essere madre. Chiede aiuto a Cafiero, senza ottenerlo. Singolare uomo questo Cafiero. Nessuno meglio di lui simboleggia la “fin di secolo”, il cinismo senza malvagità, il dilettantismo senza mediocrità.
Fierissima, Eleonora si rifugia a Marina di Pisa, in una casa di contadini, dove il suo bimbo nasce e subito muore. Eleonora stessa ne porta al cimitero la bara, leggerissima. Poi torna a Torino. Qui le succedono moltissime cose, inattese : diventa prima donna, perché la Pezzana se ne va; Cesare Rossi si innamora di lei, perché è suo uso innamorarsi della prima donna ; Tebaldo Cecchi, un bravo e buon compagno d’arte, le chiede di sposarlo, perché vuol difenderla dalle insidie di Rossi. E così, come per gioco, Eleonora si trova sposata, prima donna ed assillata dalle premure del vecchio capocomico.
Il teatro va male, il pubblico seguita a non amare Eleonora, giudicandola magra, stravagante e impossibile; gli incassi diminuiscono. Intanto arriva in Italia, sfolgorando, con scimmie, cani, pappagalli, e vesti inaudite, la gloria universale, un’icona prepotente, Sarah Bernhardt, massima attrice di teatro dell’Ottocento, musa di Proust e D’Annunzio, amica di Henry James, definita “mostro sacro” da Jean Cocteau. Nessuno riconoscerebbe il grigio teatro torinese, quando Sarah vi debutta ed i fiori diventano montagne, gli applausi boati, l’entusiasmo follìa.. Eleonora naturalmente l’ammira, ma appena Sarah è partita, chiede e ottiene di mettere in scena proprio il lavoro che a Sarah, a Parigi, valse un fiasco colossale : “La Principessa di Bagdad”. E trionfa. Gli spettatori torinesi, esterrefatti, si vedono costretti ad applaudire la prima donna, senza che sia aumentata nemmeno di un etto, senza che sia imbellita nemmeno di una veste parigina. Eleonora è lanciata : va a Roma, recita “La Moglie di Claudio” e il pubblico le stacca i cavalli dalla vettura ; poi tutte le città italiane l’acclamano.
Ora la signora Duse-Cecchi, celebrata, di giorno in giorno acquista sempre più gli estri, le originalità e le bizze proprie delle donne del suo tempo. Era il tempo delle crisi di nervi e dei sali inglesi, delle fialettte d’ambra, degli svenimenti, della ipersensibilità e delle incomprensioni, dei fazzolettini lacerati con i denti, delle bertuccine custodite nel manicotto, dei suicidi in ginocchio, dei messaggi d’amore scritti con inchiostro d’argento su carta nera, dei teschi tenuti sul tavolino. Queste signore leggevano Nietzsche, “adoravano Wagner”, baffuti uomini le idolatravano tremando, mentre le pallide borghesucce ne gemevano d’invidia. Perché vorreste che Eleonora Duse non diventasse cos, e per prima cosa non si mutasse il nome, firmando con predilezione Leonora ?
Nasce Enrichetta, quella che sarà la bambina tranquilla, la giovanetta saggia, la sposa-modello : i genitori l’affidano a certi contadini, per riprendere il loro lavoro. Nuovi successi ; “Tournée” in America, trionfale.
“Oh, grande amatrice ! ”
Primo attore giovane, di bell’aspetto, di soavi modi, figura prestante e rigogliosi mustacchi, è Flavio Andò : ama Eleonora, che lo ama. Tebaldo, il buon marito, capisce che la separazione è necessaria e sparisce. Egli si terrà, fino alla morte, lontano, devoto e fedelissimo ; Flavio Andò ed Eleonora viaggiano insieme per l’Europa: nel 1886 nasce la loro Compagnia. La Russia li acclama ; il 1892 li trova a Vienna ; l’anno dopo, nell’America del Nord ; i fiaccherai e le mogli dei miliardari li acclamano.
Eleonora stancamente ringrazia lasciando cadere all’indietro il suo famoso mantello, non si dipinge mai, cade in crisi spirituali, ama castamente Arrigo Boito, si pettina con un nodo sulla nuca, non porta il busto, piange spesso, scrive lettere sforacchiate di lineette come i segnali Morse e racconta le sue eleganti sofferenze . Ha trent’anni, si sente sola, poiché la passione per Andò si è mutata in amicizia, poiché il marito è scomparso, poiché Enrichetta è in collegio. Aspetta qualcosa dalla vita e che cosa non sa, ma, una sera, al Valle di Roma, uscendo di scena,dopo il terzo atto de “La signora delle Camelie”, un uomo le si para davanti : “Oh grande amatrice ! “ le grida e si allontana.
Era un uomo piccoletto, con monocolo, il più mondano, il più pazzo, il più byroniano ; Carducci leggeva i suoi versi, una duchessa lo aveva sposato e Parigi lo adorava : era Gabriele d’Annunzio.
Quel primo incontro non ebbe seguito e solo dopo un lungo intervallo poeta ed attrice si ritrovarono a Venezia; Eleonora non poteva dormire, la notte, e girava in gondola per i canali. Gabriele pure ed un mattino, per caso, sbarcarono insieme. Si riconobbero e non si lasciarono più.
Per la prima volta in vita sua, Eleonora mette su casa, a Venezia. Bisogna degnamente accogliere le visite dell’amato ! Drappi rossi, scialli ricamati, vetri di Murano, marmi infranti, icone bizantine, libri consunti, erbe secche, quel tanto di caos e di squisitezza che poteva incantare il cuore del Poeta.
Da questo suo amore, Eleonora riceve una “luce straziante” : ama, soffre, si rifugia nell’ombra, docilmente aspetta l’opera che egli le ha promrssa e organizza una “tournée” in America unicamente per procurarsi i fondi necessari ai decori teatrali del suo Decoratore.
“Gioconda”, “ Città Morta”, “Francesca sa Rimini” sono accolte dal pubblico con ostilità, anche se nulla è stato risparmiato per la maggiore nobiltà del lavoro : le fibbie delle comparse sono di vere gemme, Micene rivive, la Duse cela le sue belle mani offrendo la sua bella voce. Il pubblico, però, fischia. Che le importa il successo, ormai, o i danari ? Ha Gabriele, barbetta caprina, sfolgoranti parole, certezza, incertezza, meravigliose bugie, “Laudi”, Capponcina, debiti, cavalcate sulla sabbia di Marina di Pisa, cani gloriosi, donne adoranti, crudeltà, tenerezza, Gabriele, Gabriele ! Le pare che nulla sia sufficiente a pagare l’inaudita fortuna di stargli vicina e dà la sua sofferenza, il suo lavoro, la sua gloria, senza chiedergli nulla.
“Il Fuoco”
Ad Atene, durante una “tournée”, d’Annunzio, che accompagna i suoi interpreti, consegna all’impresario ed amico di Eleonora il manoscritto di un libro nuovo, chiedendogli se la pubblicazione gli pare possibile. Questo libro è “Il Fuoco”.
Tuoni e fulmini ! L’impresario fa un salto per aria, interrompe la lettura a metà, si precipita da Eleonora : questo libro non può uscire, questo libro non deve uscire, è uno scandalo, una calunnia, un’infamia ! Lei tace. dapprima, davanti alla collera del fedele amico, poi ritrova un poco di coraggio, per dichiarare di conoscere “Il Fuoco”, di approvarlo, di permetterlo. “Non si ha il diritto” dice, di soffocare un capolavoro !”.
Però, in verità, ella non ha il diritto di opporsi al volere del suo amore. Quando la figlia Enrichetta, ormai fanciulla, la supplica di evitare che questa rovina si compia, Eleonora risponde che rinunciare a Gabriele le sarebbe impossibile come tagliarsi una mano.Quando Cécile Sorel la compiange, ribatte che il sacrificio le è dolce. Ed “Il Fuoco” viene pubblicato.
Cieca, immemore, non si difende neppure, anche se una vergogna atroce la stringe, anche se vorrebbe fuggire e nascondersi. Si aggrappa a questa estrema giovinezza che la lascia e ripete : “Ho quarant’anni e lo amo”.
E Gabriele l’abbandona. Eleonora gli regala una bussola antica ed il suo perdono. E’ stanca, tutto le duole, tutto la fa soffrire : innumerevoli miserie fisiche, dominate finora dalla sua volontà, la tormentano : i polmoni, il cuore, gli occhi, i nervi, tutto cede. Per anni continuerà il suo lavoro. Sarà Vasillissa, sarà Rebecca, sarà Ellida. Andrà in scena soffocando per la tosse, per l’asma, per la paura irragionevole che improvvisamente la coglie.Dall’America del Sud a Vienna, dalla Russia a Parigi, ripeterà Magda e Margherita Gautier, senza più scopo. Il senso della solitudine la tortura ed una sera, a Berlino, pronunciando quel “sola ! “ che chiude “La Donna del Mare”, Eleonora capisce di non poter resistere più e nel 1909 lascia il teatro.
Si rifugia a Firenze, per curarsi gli occhi minacciati di cecità, che lentamente guariscono. Enrichetta le chiede di venire a stabilirsi in Inghilterra, a Cambridge, dove ella vive con il marito, il professore Edward Bulloughs, ma Eleonora rifiuta. Il padre, quell’Alessandro Duse che aveva sempre desiderato dipingere ed ora, a Venezia, finalmente dipinge, la prega di raggiungerlo, ma Eleonora rifiuta. Devastata,, vive solitaria, mentre il mondo, con rapidità, la dimentica. Pellegrinaggi, fughe, partenze notturne, soggiorni segreti in città straniere, che la ricevono senza riconoscerla. Preghiere umili, di chi ancora non crede, ma vuol credere.
La Signora
Casa di Roma, in via Nomentana, che pazientemente trasforma in quella Casa delle Attrici, da lei ideata con infinito amore. Poiché il riposo, il silenzio, le hanno dato nuove forze, Eleonora sente la necessità di spenderle : festa di inaugurazione, patrona la Regina. Una folla fdi donne, con gonne ad “entrave”e corsetti lavorati alla turchesca, si stringe intorno alla “Signora”.
La chiamano così, ormai, la Signopra : perfetto nome per quella che, non bella durante la giovinezza, in vecchiaia è diventata bellissima. Sta la Signora fra le sue protette e sorride.
Le pare di aver trovato uno scopo. Dolce il maggio, su Roma, ma è il maggio 1914.
Addio Casa delle Attrici, riposo, silenzio. Con ali nere vola la guerra sul mondo.Altri scopi troverà la Signora. Teatro del Fronte,visite ai soldati, ospedali. Finisce la guerra, lo squallore la sostituisce. Eleonora Duse si rifugia in Asolo, dove sarà la sua ultima casa. Vorrebbe darsi ancora, non sa a chi, a che cosa. Tenta il cinematografo, invece, su scenario di Grazia Deledda con “Cenere”.
Eleonora ha fefde nel suo lavoro, ma non nel suo volto consumato. Si inizia così la sua lotta con gli operatori, con i registi, poiché supplichevolmente ella chiede sempre ombre, “flous”, veli, che nascondano la sua decadenza, e “Cenere” può presentare solo una Duse incenerita, spentissima.
Ancora il Teatro. La guerra ha rovinato finanziariamente la Duse. Ricca non fu mai, noncurante e generosissima, ma padrona di un patrimonio modesto, che faceva amministrare, a Berlino, da Roberto von Mendelssohn, fedele amico, saggio consigliere. Ma l’inflazione inghiottisce ogni sostanza della Duse, che si ritrova poverissima. E ne è contenta.
“Sola !”
Ora ha un pretesto, la spinta, per tornare alle scene. Il 5 maggio 1921, davanti ad un pubblico ansioso, riappare Ellida, il volto nudo, capelli bianchi, voce palpitante e ferita. E’ un successo ? Qualcosa di meno e qualcosa di più, un gigantesco stupore davanti a tanta altezza raggiunta con mezzi tanto semplici. Eleonora ritrova il delirio, riprende il cammino trionfale, attraverso l’Italia, la Svizzera, l’Inghilterra. Intanto l’asma le toglie il respiro, i polmoni si struggono, gli occhi lacrimano, i nervi dolorano. Intanto le finanze della Compagnia vanno malissimo : dopo il primo anno, ha centomila lire di debito; dopo il secondo, duecentomila. La Signora non sa come tener testa ai suoi impegni. Spessissimo la sua salute le impedisce di recitare e le penali sono rovinose ed ella ne perde ogni pace.
Quello che fu il suo prodigioso amore ed ora orbo, eroe, Comandante di Fiume, rivolge una lettera ai giornali, ricordando l’opera da lei compiuta. Tuttavia non l’aiuta a realizzare il suo sogno: un teatro per lei, un teatro piccolissimo, modestissimo, “una cantina”, dice, o “una catacomba”, dove le sia permesso, circondata da giovani, creare una nuova arte.
Meravigliosa fede della Signora ! Vecchia, stanca, potrebbe lasciarsi cadere. Invece lotta, presenta le opere che le sembrano degne, quali il “Così sia” di Gallarati Scotti e le difende anche davanti all’insuccesso. Finalmente, per liberarsi dai debiti, dagli impresari avidi, riparte per l’America del Nord. Ha 65 anni ed i suoi polmoni sono finiti.
Pittsburg è metallica e grigia, mostri di cemento e di ferro si profilano sul cielo, piogge taglienti colpiscono la Signora, mentre, davanti al teatro, aspetta che le si apra l’ingresso degli artisti.
Ma la rappresentazione della “Donna del Mare” è trionfale : alla fine soltanto, quando Eleonora pronuncia quel “sola !” che dà la misura del suo distacco, chi la conosce comprende che non solo il dramma finisce, ma la vita.
Era il lunedì di Pasqua, il 23 aprile 1924. Per tutta la notte la Signora aveva chiesto, delirando, di ripartire, di riprendere il lavori. L’alba la trovò bianca, pacificata, nobilmente composta nella morte.
Alfredo Saccoccio