Vita di Giovambattista Vico scritta da se medesimo (parte ottava)
E nel fine dell’anno 1725 diede fuori in Napoli, dalle stampe di Felice Mosca, un libro in dodicesimo di dodeci fogli, non più, in carattere di testino, con titolo: Princìpi di una Scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, per li quali si ritruovano altri princìpi del diritto naturale delle genti, e con uno elogio l’indirizza alle università dell’Europa.
In quest’opera egli ritruova finalmente tutto spiegato quel principio, ch’esso ancor confusamente e non con tutta distinzione aveva inteso nelle sue opere antecedenti. Imperciocché egli appruova una indispensabile necessità, anche umana, di ripetere le prime origini di tal Scienza da’ princìpi della storia sacra, e, per una disperazione dimostrata così da’ filosofi come da’ filologi di ritrovarne i progressi ne’ primi auttori delle nazioni gentili, esso – facendo più ampio, anzi un vasto uso di uno de’ giudizi che ‘l signor Giovanni Clerico avea dato dell’opera antecedente, che ivi egli «per le principali epoche ivi date in accorcio dal diluvio universale fino alla seconda guerra di Cartagine, discorrendo sopra diverse cose che seguirono in questo spazio di tempo, fa molte osservazioni di filologia sopra un gran numero di materie, emendando quantità di errori volgari, a’ quali uomini intendentissimi non hanno punto badato» – discuopre questa nuova Scienza in forza di una nuova arte critica da giudicare il vero negli auttori delle nazioni medesime dentro le tradizioni volgari delle nazioni che essi fondarono, appresso i quali doppo migliaia d’anni vennero gli scrittori, sopra i quali si ravvoglie questa critica usata; e, con la fiaccola di tal nuova arte critica, scuopre tutt’altre da quelle che sono state immaginate finora le origini di quasi tutte le discipline, sieno scienze o arti, che abbisognano per raggionare con idee schiarite e con parlari propi del diritto naturale delle nazioni. Quindi egli ne ripartisce i princìpi in due parti, una delle idee, un’altra delle lingue. E per quella dell’idee, scuopre altri princìpi storici di cronologia e geografia, che sono i due occhi della storia, e quindi i princìpi della storia universale, c’han mancato finora. Scuopre altri princìpi storici della filosofia, e primieramente una metafisica del genere umano, cioè una teologia naturale di tutte le nazioni, con la quale ciascun popolo naturalmente si finse da se stesso i suoi propri dèi per un certo istinto naturale che ha l’uomo della divinità, col cui timore i primi auttori delle nazioni si andarono ad unire con certe donne in perpetua compagnia di vita, che fu la prima umana società de’ matrimoni; e sì scuopre essere stato lo stesso il gran principio della teologia de’ gentili e quello della poesia de’ poeti teologi, che furono i primi nel mondo e quelli di tutta l’umanità gentilesca. Da cotal metafisica scuopre una morale e quindi una politica commune alle nazioni, sopra le quali fonda la giurisprudenza del genere umano variante per certe sette de’ tempi, sì come esse nazioni vanno tuttavia più spiegando l’idee della loro natura, in conseguenza delle quali più spiegate vanno variando i governi, l’ultima forma de’ quali dimostra essere la monarchia, nella quale vanno finalmente per natura a riposare le nazioni. Così supplisce il gran vuoto che ne’ suoi princìpi ne ha lasciato la storia universale, la quale incomincia in Nino dalla monarchia degli assiri. Per la parte delle lingue, scuopre altri princìpi della poesia e del canto e de’ versi, e dimostra essere quella e questi nati per necessità di natura uniforme in tutte le prime nazioni. In seguito di tai princìpi scuopre altre origini dell’imprese eroiche, che fu un parlar mutolo di tutte le prime nazioni in tempi diformati di favelle articolate. Quindi scuopre altri princìpi della scienza del blasone, che ritruova esser gli stessi che quegli della scienza delle medaglie, dove osserva eroiche di quattromill’anni di continuata sovranità le origini delle due case d’Austria e di Francia. Fra gli effetti della discoverta delle origini delle lingue ritruova certi princìpi communi a tutte, e per un saggio scuopre le vere cagioni della lingua latina, e al di lei essemplo lascia agli eruditi a farlo delle altre tutte; dà un’idea di un etimologico commune a tutte le lingue natie, un’altra di altro etimologico delle voci di origine straniera, per ispiegare finalmente un’idea d’un etimologico universale per la scienza della lingua necessaria a raggionare con propietà del diritto naturale delle genti. Con sì fatti princìpi sì d’idee come di lingue, che vuol dire con tal filosofia e filologia del gener umano, spiega una storia ideale eterna sull’idea della providenza, dalla quale per tutta l’opera dimostra il diritto naturale delle genti ordinato; sulla quale storia eterna corrono in tempo tutte le storie particolari delle nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini. Sì che esso dagli egizi, che motteggiavano i greci che non sapessero di antichità, con dir loro che erano sempre fanciulli, prende e fa uso di due gran rottami di antichità: uno, che tutti i tempi scorsi loro dinanzi essi divisero in tre epoche, una dell’età degli dèi, l’altra dell’età degli eroi, la terza di quella degli uomini; l’altro che con questo stesso ordine e numero di parti in altrettanta distesa di secoli si parlarono inanzi, ad essoloro tre lingue: una divina, muta, per geroglifici o sieno caratteri sacri; un’altra simbolica o sia per metafore, qual è la favella eroica; la terza epistolica per parlari convenuti negli usi presenti della vita. Quindi dimostra la prima epoca e lingua essere state nel tempo delle famiglie, che certamente furono appo tutte le nazioni inanzi delle città e sopra le quali ognun confessa che sorsero le città, le quali famiglie i padri da sovrani prìncipi reggevano sotto il governo degli dèi, ordinando tutte le cose umane con gli auspici divini, e con una somma naturalezza e semplicità ne spiega la storia dentro le favole divine de’ greci. Quivi osservando che gli dèi d’Oriente, che poi da’ caldei furono innalzati alle stelle, portati da’ fenici in Grecia (lo che dimostra esser avvenuto dopo i tempi d’Omero), vi ritruovarono acconci i nomi dei dèi greci a ricevergli, sì come poi, portati nel Lazio, vi ritruovarono acconci i nomi dei dèi latini. Quindi dimostra cotale stato di cose, quantunque in altri dopo altri, essere corso egualmente tra latini, greci ed asiani. Appresso dimostra la seconda epoca con la seconda lingua simbolica essere state nel tempo de’ primi governi civili, che dimostra essere stati di certi regni eroici o sia d’ordini regnanti de’ nobili, che gli antichissimi greci dissero «razze erculee», riputate di origine divina sopra le prime plebi, tenute da quelli di origine bestiale; la cui storia egli spiega con somma facilità descrittaci da’ greci tutta nel carattere del loro Ercole tebano, che certamente fu il massimo de’ greci eroi, della cui razza furono certamente gli Eraclidi, da’ quali sotto due re si governava il regno spartano, che senza contrasto fu aristocratico. Ed avendo egualmente gli egizi e greci osservato in ogni nazione un Ercole, come de’ latini ben quaranta ne giunse a numerare Varrone, dimostra dopo degli dèi aver regnato gli eroi da per tutte le nazioni gentili e, per un gran frantume di greca antichità, che i cureti uscirono di Grecia in Creta, in Saturnia, o sia Italia, ed in Asia; scuopre questi essere stati i quiriti latini, di cui furono una spezie i quiriti romani, cioè uomini armati d’aste in adunanza; onde il diritto de’ quiriti fu il diritto di tutte le genti eroiche. E dimostra la vanità della favola della legge delle XII tavole venuta da Atene, scuopre che sopra tre diritti nativi delle genti eroiche del Lazio, introdotti ed osservati in Roma e poi fissi nelle tavole, reggono le cagioni del governo, virtù e giustizia romana in pace con le leggi e in guerra con le conquiste; altrimenti la romana storia antica, letta con l’idee presenti, ella sia più incredibile di essa favolosa de’ greci; co’ quali lumi spiega i veri princìpi della giurisprudenza romana. Finalmente dimostra la terza epoca dell’età degli uomini e delle lingue volgari essere nei tempi dell’idee della natura umana tutta spiegata e ravisata quindi uniforme in tutti; onde tal natura si trasse dietro forme di governi umani, che pruova essere il popolare e ‘l monarchico, della qual setta de’ tempi furono i giureconsulti romani sotto gl’imperadori. Tanto che viene a dimostrare le monarchie essere gli ultimi governi in che si ferman finalmente le nazioni; e che sulla fantasia che i primi re fussero stati monarchi quali sono i presenti, non abbiano affatto potuto incominciare le repubbliche; anzi con la froda e con la forza, come si è finora immaginato, non abbiano potuto affatto cominciare le nazioni. Con queste ed altre discoverte minori, fatte in gran numero, egli raggiona del diritto naturale delle genti, dimostrando a quali certi tempi e con quali determinate guise nacquero la prima volta i costumi che forniscono tutta l’iconomia di cotal diritto, che sono religioni, lingue, domìni, commerzi, ordini, imperi, leggi, armi, giudizi, pene, guerre, paci, alleanze, e da tali tempi e guise ne spiega l’eterne propietà che appruovano tale e non altra essere la loro natura o sia guisa e tempo di nascere; osservandovi sempre essenziali differenze tra gli ebrei e gentili: che quelli da principio sorsero e stieron fermi sopra pratiche di un giusto eterno, ma le pagane nazioni, conducendole assolutamente la providenza divina, vi sieno ite variando con costante uniformità per tre spezie di diritti, corrispondenti alle tre epoche e lingue degli egizi: il primo, divino, sotto il governo del vero Dio appo gli ebrei e di falsi dèi tra’ gentili; il secondo, eroico, o propio degli eroi, posti in mezzo agli dèi e gli uomini; il terzo, umano, o della natura umana tutta spiegata e riconosciuta eguale in tutti, dal quale ultimo diritto possono unicamente provenire nelle nazioni i filosofi, i quali sappiano compierlo per raziocini sopra le massime di un giusto eterno. Nello che hanno errato di concerto Grozio, Seldeno e Pufendorfio, i quali per difetto di un’arte critica sopra gli auttori delle nazioni medesime, credendogli sapienti di sapienza riposta, non videro che a’ gentili la providenza fu la divina maestra della sapienza volgare, dalla quale tra loro, a capo di secoli uscì la sapienza riposta; onde han confuso il diritto naturale delle nazioni, uscito coi costumi delle medesime, col diritto naturale de’ filosofi, che quello hanno inteso per forza de’ raziocini, senza distinguervi con un qualche privilegio un popolo eletto da Dio per lo suo vero culto, da tutte le altre nazioni perduto. Il qual difetto della stessa arte critica aveva tratto, inanzi, gl’interpetri eruditi della romana ragione che sulla favola delle leggi venute di Atene intrusero, contro il di lei genio, nella giurisprudenza romana le sètte de’ filosofi, e spezialmente degli stoici ed epicurei, de’ cui princìpi non vi è cosa più contraria a quelli, non che di essa giurisprudenza, di tutta la civiltà; e non seppero trattarla per le di lei sètte propie, che furono quelle de’ tempi, come apertamente professano averla trattata essi romani giureconsulti.
Con la qual opera il Vico, con gloria della cattolica religione, produce il vantaggio alla nostra Italia di non invidiare all’Olanda, l’Inghilterra e la Germania protestante i loro tre príncipi di questa scienza, e che in questa nostra età nel grembo della vera Chiesa si scuoprissero i princìpi di tutta l’umana e divina erudizione gentilesca. Per tutto ciò ha avuto il libro la fortuna di meritare dall’eminentissimo cardinale Lorenzo Corsini, a cui sta dedicato, il gradimento con questa non ultima lode: «Opera, al certo, che per antichità di lingua e per solidezza di dottrina basta a far conoscere che vive anche oggi negl’italiani spiriti non meno la nativa particolarissima attitudine alla toscana eloquenza che il robusto felice ardimento a nuove produzioni nelle più difficili discipline; onde io me ne congratulo con cotesta sua ornatissima patria».
Giovambattista Vico: “Opere” a cura di Paolo Rossi
fonte
classicitaliani.it