Vita ed opera di Giambattista Basile cortigiano e fiabista
Nato a Napoli nel 1575, da famiglia di cortigiani ed artisti, Giambattista Basile fu cortigiano e letterato, militare e diplomatico, improvvisatore di versi in italiano e spagnolo, amministratore di beni feudali e vicereali.
Arruolatosi nelle milizie delle Repubblica di Venezia, allora impegnata a fronteggiare il pericolo turco, tornò in patria nel 1608. A Napoli, sotto la protezione della sorella Adriana, divenuta celebre e ricercata cantante, iniziò la sua carriera di cortigiano, entrando nella corte del principe di Stigliano.Oltre a poesie d’occasione e d’encomio, nel 1610, pubblicò “come tutti gli altri del suo tempo, quasi per dovere di letterato che si rispetti un dramma pastorale o piuttosto marinaresco,Le avventurose disavventure” (B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Milano 1993, pg.13).Dopo essere stato tra i fondatori dell’Accademia degli Oziosi, di cui, poi, fece parte anche Quevedo, nel 1612, mandò alle stampe Le Egloghe amorose e lugubri, apparvero firmate da Gian Alesio Abbattutis. Questo, infatti, fu lo pseudonimo che Basile usò per siglare le successive opere in dialetto napoletano.Nel 1612, componendo gli argomenti dei canti ed alcune lettere scherzose, Basile collaborò alla “Vaiasseide”,il primo libro in dialetto di Giulio Cesare Cortese, “suo maestro e compagno d’arte nel parlare napoletano”.(Giambattista Basile, Lo cunto de’ li cuntia cura di Ezio Raimondi, Torino 1976, pg 7).Contribuì, dunque, all’opera del Cortese, a cui era legato da una stretta e profonda amicizia, componendo “alcune prose giocose, nelle quali si era divertito, in contrasto con il realismo dell’amico, a dilatare le forme espressive del parlato popolaresco secondo una tecnica arguta, e dove forse aveva scoperto la bellezza delle lengua napoletana”(Croce op. cit. pg 9).L’anno seguente, si trasferì alla corte di Mantova, dove raggiunse la sorella Adriana. Accattivatosi il favore del duca Ferdinando, che lo nominò equesauratuse conte dell’Impero, Basile curò una ristampa mantovana delle sue Opere poetiche, che comprendeva, oltre tutti i componimenti sino ad allora pubblicati, una seconda parte di madrigali ed odi, in omaggio ai Gonzaga.Seguendo la moda letteraria del tempo, eccentrica ed enfatica al tempo stesso, scrisse, poi, idilli, sofisticati enigmi mondani, odi celebrative, poesie d’occasione e sonetti.Si tratta di opere convenzionalmente definite minori, ma non per questo trascurabili. Infatti, anche se, come scrive Croce “in questa letteratura convenzionale, pratica e meccanica, niente o quasi niente egli metteva dell’anima sua, come se addirittura non avesse un’anima” (Croce op. cit. pg 14), la produzione letteraria di quegli anni servì al Basile per la sua maturazione stilistica.Nel 1613, forse per motivi di salute, fece ritorno a Napoli, dove si stabilì definitivamente. Fu probabilmente intorno a quell’epoca che Basile intraprese la composizione de Lemuse napolitanee de Lo Cunto de’ li cunti.Animate da moralismo satirico, Le muse napolitanesono una corona di nove dialoghi in dialetto a cui il Basile diede il nome di egloghe, ma che sono, in realtà, “vivacissimi quadri di costume popolano, disegnati con la guida di uno schietto sentimento morale” (Croce op. cit. pg 16).Svelando la sua natura di artista, Basile trovava, così, nel dialetto napoletano, la via maestra per sganciarsi dagli obblighi letterari, riuscendo finalmente ad “effondere quel che chiudeva in petto, troppo bassa materia forse per le forme dell’aulica letteratura, riserbata da lui alle lodi degli eroi,ossia del vicerè e dei principi e dei duchi” (Croce op. citpg 16).Tra il 1616 ed il 1618, si dedicò a lavori filologici, curando edizioni delle Rimedel Bembo, del Della Casa, di Galeazzo di Tarsia.Divenuto governatore ora feudale ora regio di varie comuni del Regno, nel 1632 scrisse un poema ricavato dalla Storia etiopica di Eliodoro.Si tratta del Teagene, poema in ottava rima, dove Basile, se da un lato calcava le orme dell’astro poetico del tempo, Marino, dall’altro metteva alla prova le sue invenzioni in lengua napoletana. Al Teagenee al Cunto de’ li cunti,Basile volse tutto il suo fervore letterario, durante gli ultimi anni della sua vita.Lo cunto de’ li cuntiSia Le muse napolitaneche Lo cunto de’ li cuntifurono pubblicati postumi, dopo la morte di Basile, avvenuta il 23 febbraio del 1632 nella sua casa di governatore a Giugliano, nei pressi di Napoli.Privo della definitiva revisione da parte dell’autore, ridotto, dunque, a semplice manoscritto, Lo cunto de’ li cuntifu avviato alle stampe solo nel 1636. A partire dall’edizione del 1674, fu comunemente introdotta nel frontespizio del libro la denominazione di Pentamerone, usata per dichiarare il rapporto che esso aveva con il Decameron.Infatti, Davide Conrieri, nell’introduzione del saggio dedicato alle Novelle italiane. Il Seicento. Il Settecento(Milano 1982, pg 31), osserva che “sono comuni alle due opere la distribuzione dei racconti in giornate, la delimitazione iniziale e finale di esse con determinazioni cronologiche fornite attraverso descrizioni astronomico-paesaggistiche, la finzione della compagnia di narratori in luogo eletto e separato, l’introduzione di poesie a conclusione delle giornate, l’accenno a giochi con i quali i personaggi della cornice si intrattengono”.Lungi dall’emulazione, così come dalla parodia dell’opera trecentesca, Il Pentamerone, secondo Conrieri, “potrebbe definirsi un’antistrofe, un controcanto, fiabesco e popolaresco, rispetto alla strofe, al canto realistico e borghese-cortese costituito dal Decameron” (op. cit. pg. 31).Vi sono, dunque, tra le due opere in questione, delle differenze sostanziali, che emergono già solo dal confronto delle cornici.“Alla cornice storicamente determinata e socialmente puntuale del Decameron, […] fa riscontro la cornice ferma in un’atemporalitàindefinitamente remota […] del Pentamerone” (Conrieri, op. cit. pg. 31-32).
Quest’ultimo è una raccolta di fiabe popolari di antica tradizione napoletana, recitate dieci alla volta, in cinque giorni durante i quali, a turno, dieci donne raccontano dieci favole: in tutto 49 racconti.Ma c’è di più.Le differenze tra le due opere, infatti, investono anche la figura del narratore. Alla signorile schiera dei narratori boccacciani, fa da controcanto la schiera di vecchie sboccate ed audaci, ragazze astute ed inarrestabili, mogli terribili e fate dispotiche che popolano Il Pentamerone.Lungi dalla registrazione passiva di materiali folclorici, Basile attinge al vasto repertorio della tradizione napoletana orale, con giocosa originalità.Colloca la realtà popolare e locale entro le coordinate spazio-temporali del mondo fiabesco, dove c’è uno slittamento continuo dal piano dell’ordinario a quello dello straordinario e del fantastico, ottenendo un risultato a metà tra letteratura alta e letteratura popolare.Si capiscono, allora, entro questa prospettiva, le metamorfosi, frequenti, degli uomini in animali, delle bestie in esseri inanimati, in un gioco combinatorio divertito e divertente.L’atteggiamento antiveristico di Basile, investe anche il materiale linguistico. Narrando le sue fiabe in una ibridazione dialettale pirotecnica di citazioni colte e di metafore complesse, Basile, in realtà, manipola artificiosamente il linguaggio del suo tempo.Ne Lo cunto de’ li cunti, come osserva Benedetto Croce, “la dialettalità […] eccede quella dell’ordinario dialetto di Napoli”, producendo, inoltre degli “scarti di livello che talora vi s’incontrano tra registri bassi e registri aulici”.(Novelle italianepg. 34) Nell’universo narrativo delPentamerone, le metafore svolgono un ruolo centrale.Dotate di una visespressiva assolutamente straordinaria, le metafore si susseguono una dopo l’altra, in una serie fittissima e contribuiscono alla reivenzione del linguaggio fiabesco, “un linguaggio fervido, esuberante, ricco di trovate, che corrisponde a pieno al mondo tumultuoso, stupefacente, mobilissimo che è chiamato a rappresentare” (op. cit. pg.34). Le metafore, inoltre, scandiscono, con perifrasi argute e bizzarre, il passaggio continuo dalla luce diurna dell’alba all’oscurità, preannunciata dal tramonto.Calvino, nel saggio “Sulla fiaba”, proseguendo il lavoro di Croce, offre un breve, ma esaustivo inventario delle metafore che costellano il mondo basiliano.
L’alba insorge “quando al mattino la Luna, maestra delle ombre, concede feria alle discepole per la festa del Sole”, oppure “quando le ombre della Notte, perseguitate dagli sbirri del Sole, sfrattano il paese” (Calvino, Sulla Fiaba, Milano 1995, pg.130).Immancabili le metafore relative ai tramonti e agli annottamenti, come “quando la Luna, come chioccia, chiama le stelle a beccare le rugiade” o “quando la Notte distese per il cielo le sue nere vesti per arieggiarle e preservarle dai tarli” (op. cit. pg.131).L’opposizione luce-buio investe tutto l’universo narrativo del Pentamerone. Il campo metaforico della notte s’identifica, in generale, con la bruttezza, la nerezza, la morte, l’erotismo ed il desiderio sessuale. Al contrario, il campo solare ingloba il polo semantico della bellezza, della chiarezza cromatica, della trasparenza dei sentimenti.Il Pentamerone, sottotitolato “trattenimento de’ peccerrille”, genera ambiguità circa l’identità dei destinatari. L’opera, infatti, non fu composta per i bambini, “come alcuni, e tra questi il Grimm, hanno creduto, prendendo alla lettera il titolo giocoso,” ma per rispondere alle esigenze dei lettori adulti, in particolare “per uomini letterati ed esperti e navigati, che sapevano intendere e gustare le cose complicate e ingegnose” (Croce op. cit. pg 17).Nato, dunque, per essere recitato, durante la conversazione barocca, raffinata forma di intrattenimento che comprendeva anche azioni teatrali, facezie, balli, narrazioni, “Lo cunto de li cunti – come sottolinea Cambi-attinge, però con larghezza alla tradizione orale dei racconti intorno al fuoco, senza dimenticare la letteratura dialettale delle cronache, la novellistica tardo-mediovale, il romanzo greco, i proverbi.Tradotto nel 1925 da Croce, che lo definì “il più bel libro italiano barocco”, Lo Cunto de’ li cunti si inserisce in una linea, che congiunge idealmente i grandi quattrocentisti italiani fino al seicentesco Basile.E’ impossibile parlare de “Il Pentamerone”,senza partire dagli studi di Benedetto Croce, perché del resto questo è “un libro Basile-Croce”. Come sostiene Calvino. Pur lamentando il ritardo dell’opera, giunta solo in pieno barocco, Croce, tuttavia, vede il Basile come uno spirito affine all’Ariosto, al Boiardo, al Folengo, a Lorenzo il Magnifico, al Pulci.Basile, dunque, viene assimilato a grandi letterati italiani, che avevano rimodellato, secondo la propria arte creativa, “incline alla celia, allo scherzo, le aride e monotone storie delle avventure e prodezze dei cavalieri antichi” (G. Basile, Il Pentamerone ossia La fiaba delle fiabe, a cura di Silvia Croce, Firenze 1965, nota pg.6/7).
La fortuna dell’opera è eloquente della sua influenza nel genere letterario della fiaba a livello europeo: ristampato sei volte nel ‘600, tradotto in lingua italiana nel 1754, in una riduzione “indegna”, secondo il Croce, di essere ricordata, il Pentamerone fu stroncato dalla critica settecentesca italiana.Giunto, però, in Francia, in forma di libro o attraverso rappresentazioni, fu fonte d’ispirazione per uno dei maggiori favolisti del tempo: Perrault.Nel 1822, nell’appendice critica dei Kinder und Hausmarchen, chi riconobbe la felicità creativa di Basile fu Jacob Grimm, che, poi,nel 1846, tradusse integralmenteLoCuntode’licunti.Per svolgere un discorso esplicativo sulla fiaba, può essere interessante comparare l’opera dei massimi scrittori di fiabe della letteratura europea, Basile, Perrault e i fratelli Grimm, al fine di cogliere in senso concreto lo sviluppo, le forme e i temi che il genere della fiaba ha assunto nel corso dei recenti secoli. Per questa ragione, di Perrault e dei Grimm parleremo presto in articoli a seguire.
di MAURA MASCHIETTI