Vittorio Emanuele e Cavour appoggiarono Garibaldi
La commedia raccontata al popolo del Garibaldi che conquista il Regno delle Due Sicilie contando su mille invincibili eroi è una bufala che non ha fondamento. Sia Vittorio Emanuele che Cavour direttamente o indirettamente lo appoggiarono.Con uomini, soldi e armi. Vittorio Emanuele i milioni li diede al Bertani.
COSE ITALIANE
1. Descrizione della crisi ministeriale dal 7 al 18 Aprile, fatta da giornali rivoluzionarii — 2. Giudizi di C. Cavour intorno ad Agostino Depretis — 3. Documento inedito circa la lealtà di Vittorio Emmanuele II, e le spese fatte per la conquista della Sicilia — 4. Accordo tra le fazioni della Sinistra parlamentare, per paura della Destra — 5. Interpellanze circa la permanenza del Ministero a malgrado del voto di sfiducia onde fu colpito il 7 Aprile; volo di tolleranza impetrato nella seduta del 30 — 6. Commemorazione d’una vittoria contro i francesi nel 1849 — 7. Interpellanza circa (occupazione militare di Biserta, sul territorio di Tunisi, da parte delle truppe francesi — 8. Isolamento dell’Italia, deplorato dall’Opinione, e dalla Perseveranza — 9. Irritazione della Francia contro l’Italia — 10. Ricise mentite del Diritto e giornali ufficiosi della Francia circa la condotta del Console italiano a Tunisi.
1. La crisi ministeriale, prodotta dal voto di sfiducia del 7 aprile, di che abbiamo esposte le cause nel presente voi. a pagg. 37377, fu materia di polemiche or velenose ed or furibonde tra i giornali delle diverse consorterie rivoluzionarie, che si accaneggiavano per l’amore dei portafogli e dei respettivi annessi e connessi, traendone argomento dalla vita pubblica, ed anche privata, dei caporioni delle varie squadre, divenuti bersaglio a vituperose imputazioni circa la loro condotta politica nelle varie fasi della rivoluzione. Non possiamo né vogliamo né tornerebbe utile occuparcene.
Sibbene gioverà trascrivere qui, dall’egregia Unità Cattolica n° 88, lo spicilegio dei giudizi che di cotesta crisi, della sua origine e dei suoi effetti, recarono parecchi dei giornali delle parli avverse.
«Ciò che accade presentemente non ha riscontro nella nostra storia parlamentare.» Opinione,12 aprile. — «La votazione del 7 aprile, che produsse la crisi, è una votazione la più cretina, la più immorale, la più inconcepibile che ricordi il nostro Parlamento.»Gazzetta del Popolo,13 aprile. — «Nè possiamo immaginare senza spavento lo sdrucciolo nel quale ci troveremmo se la Corona non fosse lì, col suo alto potere, a temperarci e a trattenerci.» Diritto,12 aprile. — «Una perturbazione grave n’è derivata (dalla crisi) agli interessi italiani e gravissima diverrebbe ove si avesse a protrarre ancora in lungo.» Popolo Romano, 12 aprile. — Una grave perturbazione già avvenuta, ce rapprende la citata Gazzetta del Popolo: «Ieri i corsi della nostra rendita, a Parigi, sono discesi fino a 87,50. Ed erano pochi giorni fa, prima della crisi, a 92. — Ci vogliono proprio morti!» — Del che non si meraviglia punto la Perseveranza, la quale, parlando e dei Destri e dei Sinistri, dice: «Oramai ci siamo fatta nel mondo una delle peggiori riputazioni che un popolo possa avere, la riputazione di un popolo tormentato da una grande ed irrequieta ambizione accoppiata ad una non meno grande impotenza. E, per poco che perduriamo in questa via, noi diverremo agli occhi altrui un popolo di fanciulli.»
2. Il peggio si è che l’ambizione impotente accieca codesti fanciulli, cosi che nella foga dell’ira, e per soppiantarsi l’un l’altro, tirano fuori vergogne che, almeno per interesse di setta dovrebbero restare sepolte. Cosi, per esempio, il Fanfulla, nel n° 101 pel 12 Aprile, con lo scopo evidente di mettere sull’avviso la Corona, si che oggimai non si fidasse più né poco né punto di Agostino Depretis, perché inetto, pubblicò due brani di lettere scritte da quel raro tipo di rivoluzionario, che fu Camillo Benso di Cavour, appunto mentre sotto la sua direzione si compiva la balossada (cosi la chiamò lo stesso Galantuomo) della spedizione Garibaldina in Sicilia. Ecco codesti gioielli.
«Torino 7 Luglio 1860. «Il generale (Garibaldi) ha chiesto Depretis per R. Commissario. Il Re reputa che tale ufficio sarebbe meglio disimpegnato dal Valerio; però non vuole imporlo al Generale; e, se insiste, gli manderà Depretis. Io credo che il Re abbia ragione. Depretis è stato mazziniano prima e dopo del 48. Era, non è, in corrispondenza con Mazzini, e rifuggi sempre dal disdire in modo solenne e pubblico il profeta. Di più, sotto forme austere, e ad onta di modi che parrebbero indicare un carattere risoluto, Depretis è un uomo indeciso, irresoluto, che mal sa affrontare l’impopolarità. Ha ingegno; ma difetta di studi politici che valgano ad informare i giudizi sulla opportunità degli atti che sono d’indole internazionale. Sarebbe un ottimo esecutore, sotto un capo deciso. Riuscirà un mediocrissimo direttore in un gran movimento politico. C. Cavour.»
A chi furono scritte queste belle cose sul conto del Depretis? n Fanfulla non ce lo ha fatto sapere. Ma si può congetturare che le fossero confidenze fatte al degno complice Villamarina, che intanto a Napoli faceva quei leali uffici stessi, onde si rendette famosa la condotta diplomatica del Boncompagni a Firenze, e del Migliorati e del La Minerva a Roma. Vuolsi tuttavia confessare che codeste confidenze spettavano a cose troppo notorie. Il Depretis era tanto conosciuto per mazziniano, anche dopo il 1848, che tutta la consorteria, allora scarsa, dei repubblicani accoltisi in Torino a farvi il mestiere di emigra, lo salutavano come loro capo. Ed egli sei meritava; e li secondava così bene che, quando pel giorno 6 febbraio 1858 si preparava 1 assassinio degli ufficiali e soldati austriaci che girassero inermi per Milano, il Depretis fece avere al Mazzini le lire 25,000 con cui furono prezzolati i sicari. Laonde a ragione il Cavour scrisse, non sappiamo se nella stessa od in altra lettera, queste altre gravi parole riferite dal Fanfulla sopracitato.
«Di Depretis non ho mai potuto sapere che cosa voglia, né che cosa valga. Con Valerio, tanto quanto sono riuscito ad intendermi, perché parla ed è un uomo leale. Ma… Depretis lo credo uomo fatale alla monarchia. C. Cavour.»
I giornali della regnante e governante consorteria si risentirono forte di codesta pubblicazione dei giudizi del vero fondatore dell’unità politica e statuale dell’Italia, a discredito del presente tutore della Monarchia e Dinastia sabauda; dissero apocrifa cotal lettera, affermando che l’averla inventata e divulgata «non è altro che una indegna ed inqualificabile manovra della Destra.» Così appunto la Gazzetta del popolo di Torino. Ma il Risorgimento dimostrò subito che questo non era stato un artificio adoperato ora, a servigio della Destra; bensì la pura riproduzione di documenti pubblicati da un bel pezzo, cioè dalla Gazzetta piemontese del 26 novembre 1879 n. 236, ed inseriti nel Diario privato politico militare dell’Ammiraglio C. Di Persano, 4. edizione p. 79-80 del Roux e Favale.
3. Troppo più malaccorto fu il Diritto del 15 aprile; il quale, per far credere apocrifa la lettera del Cavour, affermò che di sua spontanea volontà il Re Vittorio Emmanuele II designò il Depretis a R. Commissario in Sicilia. Per mala ventura del Diritto era, in quel giorno, di stanza all’Albergo della Minerva in Roma, il signor William de Rohan; il quale, onorandosi del titolo di «Commodore commanding the 2ni Expedition to Sicily 1860», scrisse il dì seguente, 16, al che la pubblicò nel n° 105, una lettera; nella quale, recitate le parole del Diritto, affermò quanto segue.
«Nel giugno 1860 io conducevo in Sicilia la seconda spedizione di 3,400 volontari (comandati dal colonnello Medici) sui tre vapori Washington, Franklin, Oregon, dei quali fui considerato come proprietario legale
nella mia qualità di cittadino americano e antico uffiziale della marina militare degli Stati Uniti. Dopo l’arrivo della spedizione sono tornato con il Washington a Genova onde imbarcare la terza spedizione: quella di Cosenz.
«Sbarcato a Genova, il signor Bertani mi disse che non v’era denaro per approvvigionare il Washington e le truppe. Essendo io stato munito di «pieni poteri», partii con un treno speciale per Torino ove vidi il Re e gli esposi la situazione. Sua Maestà mi congedò dicendo che mi avrebbe fatto pervenire la risposta dopo d’aver conferito con il conte di Cavour. Dopo un’ora, Di Cinzano mi portò là seguente lettera, che trascrivo integralmente:
«Commandant, Je vous renvois conclus les deux lettres de Medici que vous mettrez dans d’autres enveloppes et livrerez à Cavour. J’ai déja donné TROIS MILLIONS à Bertani. Retournez immédiatement à Palerme pour dire à Garibaldi que je lui enverrai Valerio en place de La Farina: et qu’il s’avance IMMÉDIATEMENT sur Messina, Francesco (il re di Napoli) étant sur le point de donner une constitution aux Napolitains. — Votre ami Victor Emmanuel 27 juin 1860».
«Arrivato a Palermo il 2 luglio, facevo il mio rapporto a Garibaldi, che mi rispose: «non voglio Valerio, desidero o Cattaneo o Depretis»; e in quel senso il generale faceva immediatamente telegrafare a Torino.
«Io non sono di coloro che vogliono demolire l’on. Depretis; ma i fatti sono fatti, e questi che racconto posso provarli con documenti che ho qui presso di me. «Vostro devotissimo William de Rohan Commodoro.»
Questa lettera gettò, non è che troppo evidente, un vivissimo sprazzo di luce sulla cavalleresca lealtà di Vittorio Emmanuele II, e sulla sua condotta verso il re Francesco II di Napoli suo cugino; a cui intanto mandava belle parole per mezzo dell’ambasciadore napolitano Canofari, negando con parola di Re ogni sua complicità in quella certa spedizione di Marsala, che poco appresso, dal Consiglio di Stato, per bocca di Pasquale Stanislao Mancini, fu altamente dichiarata pirateria. Di che la Voce della Verità nel n. 88 parlò nei termini seguenti.
«Non avevano mai dubitato del perfetto accordo di Garibaldi con Vittorio Emanuele nel 1860; accordo al quale principalmente si deve la spedizione di Marsala e l’invasione delle Due Sicilie. Quello che tuttavia ignoravamo, erano gl’intimi rapporti esistenti fra lo stesso re Vittorio Emanuele e il repubblicano dottor Bertani, a cui il defunto Monarca avrebbe passata la rotonda somma di tre milioni di franchi pel buon successo della rivoluzione nel Napoletano. E un’altra cosa ignoravamo ugualmente. Che, cioè, Vittorio Emanuele, temendo che la costituzione che re Francesco II disponevasi a dare ai suoi sudditi compromettesse il piano della rivoluzione, avesse eccitato Garibaldi a faire vite in vista appunto di quella eventualità.»
Il giornale repubblicano La Lega, alquanti giorni dopo, stampò di essere autorizzata dal Bertani a dichiarare falsa pianta la notizia dei tre milioni inviatigli da Vittorio Emmanuele. Ed ecco il commodoro W. De Rohan scrivere subito al Fanfulla, che la pubblicò nel n. 112, la seguente letterina.
«Signor Direttore. Nella lettera che vi ho trasmesso il 16 corrente (aprile) io diceva che il Re mi scrisse: «J’ai déjà donne trois millions pour la Sicile, je donnerai encore deux millions à Bertani» ecc. e così pure fu scritto. Posso dirvi in questa occasione che fra poco sarà stampata tutta la vera storia in extenso della seconda spedizione nel 1860 ecc. per quanto mi riguarda, con lettere e documenti in appoggio, litografati dagli originali. Scusatemi e credetemi. Vostro devotissimo W. De Rohan.»
«Questa correzione, aggiunse il Fanfulla, era necessaria; difatti io, per mero errore di trascrizione, avevo saltato una linea del manoscritto, e stampala la frase così: «J’ai déjà donné trois millions à Bertani», venendo a dire una cosa che l’on. Bertani ha il diritto di dichiarare falsa».
Da tutto ciò risulta provato che il leale Vittorio Emmanuele II, che molti gonzi credeano strascinato pel capestro dai Garibaldini a secondare gli avvenimenti, n’era invece l’autore, pagando coi denari degli onesti contribuenti, cioè dell’immensa pluralità dei suoi sudditi d’allora, la bagattella di cinque milioni ai capi della onesta impresa per spodestare il suo innocente cugino, per l’arrolamento ed armamento dei soldati, e per comprare i Generali ed i capitani delle navi da guerra napoletane! E di qui pure si vede come si procacciasse poi il plebiscito e l’annessione vale proprio la spesa di demolire un altare, nella prima cappella a mano destra di chi entra nella Basilica di Santa Maria ad martyres per collocarvi in sontuoso cenotafio marmoreo, pagato coi fondi degli Economati RR. Ecclesiastici di Torino e di Napoli, le reliquie di tal santo di nuovo genere, come annunziarono i diarii cortigiani e della rivoluzione!
4. A mettere un termine alla treggenda della crisi giovò la paura di che furono compresi i caporioni delle squadre democratiche della Sinistra, quando videro richiamato a Roma ed a Corte quel volpone di Quintino Sella. La semplice ipotesi che S. M. il Re, dovendo pure in qualche modo provvedere che si costituisse un Ministero, e stanco d’inutili e tediosissime pratiche d’accordo tra i capi della Sinistra, si volgesse a quelli della Destra, li acciecò talmente che trascorsero perfino a minacce contro la Corona. Il giornale La Lega del 15 aprile, in un articolo intitolato: Dietro le quinte, dopo disaminate le condizioni dei partiti, e discussa la probabilità della vittoria di questo sopra quello, conchiuse: «La Sinistra è oggi mai esaurita, e la delusione intera; aspettiamo con sicuro piede il ritorno della Destra al Governo. La Destra al Governo sarà una scatola di dinamite sotto i gradini del trono.»
Il Procuratore del Re vide, in questa ardita metafora, una minaccia contro la Corona o contro l’ordine monarchico costituzionale; e mandò sequestrare La Lega. Ma ricevette quasi subito il seguente bigliettino: a Io sono l’autore dell’articolo incriminato. Le serva questa dichiarazione per comprendermi nel processo. Con tutto il rispetto: Suo Alberto Mario.» È inutile aggiungere che non si andò oltre.
Per vero dire, troppo chiaro era il senso di quelle parole metaforiche; era un dire: se la Destra tornerà a capo della cosa pubblica, farà tali spropositi e tali rappresaglie, che ne andrà esposta a grave cimento anche la Monarchia; era, a parer nostro, un giudizio, non una minaccia. Piuttosto vedeansi vere minacce contro l’ordine pubblico nei preparativi di dimostrazioni repubblicane, qualora la temuta consorteria ripigliasse il sopravvento; e di fatto una certa agitazione faceasi già sentire nelle Romagne, dove le conventicole settarie non dissimulavano i loro propositi. 1 consigli del Sella, del Farini, e del Tecchio, e la prudenza del Re, per una parte; e per l’altra la tregua, se non la concordia, tra i principali mestatori democratici, sventarono altre trame.
5. Tuttavolta non è da credere che davvero si rinunziasse al proposito di abbattere la consorteria capitanata ora dal Cairoli e dal Depretis. Si aspetta soltanto più propizia occasione. Alli 28 aprile si ripigliarono le sedute della Camera dei Deputati. Il Cairoli, in poche parole annunziò che il Ministero restava in carica, non avendo S. M. il Re giudicato a proposito di accettarne le dimissioni; ed espresse la sua fiducia che la Camera, per amore delle riforme di cui erasi impresa la discussione, sarebbe concorde nell’aiutare il Ministero.
Quindi il Farini annunziò che i deputati Zeppa ed Odescalchi chiedeano schiarimenti sopra la soluzione della crisi; la quale parea loro ripugnante alle tradizioni parlamentari ed agli stessi principii costituzionali. Il Cairoli disse essere pronto a rispondere, chiedendo che si svolgessero sollecitamente codeste interpellanze. Si opponeva il regolamento; ma la Camera, interrogata, con 284 voti favorevoli e 68 contrarii decideva che si procedesse subito a spicciare la cosa; ed il Zeppa fece rilevare come fosse incostituzionale la posizione d’un Gabinetto che si ripresentava alla Camera dopo essere stato colpito d’un voto esplicito di sfiducia. L’Odescalchi si contentò di dimostrare la necessità di spiegazioni precise. Il Cairoli si provò a rispondere e non riuscì che ad un nuovo garbuglio.
«Il presidente del Consiglio, dice l’Opinione, n. 118, fece un discorso più infelice, se è possibile, di quello che egli pronunziò il 6 aprile e che amici ed avversari! giudicarono infelicissimo. Ripeté le consuete frasi sulla concordia, sulle riforme, sollevando spesso l’ilarità e le interruzioni della Camera. Egli negò perfino che di sfiducia sia stato il voto del 7 aprile.
L’impressione del di lui discorso fu si dannosa al ministero, che l’on. ministro dell’interno sentì il bisogno di chiedere la parola, per tentare di diminuire quell’impressione. L’on. ministro dell’interno destò l’ilarità dell’Assemblea, chiedendo la parola. Egli svolse il concetto che la posizione del ministero sia regolare, perché ha la fiducia d’avere la maggioranza, dopo gli accordi con uomini politici che votarono contro nella discussione precedente.
«Gli on. Zeppa e Odescalchi non poterono dichiararsi soddisfatti delle spiegazioni che nulla spiegavano, e proposero mozioni di biasimo.»
Nelle due tornate seguenti si discussero codeste mozioni, e segnalaronsi nel combattere il Ministero i deputali Bonghi e Massari. Il Damiani, che avea rinunziato fin dalla seduta del 28 alla sua interpellanza, parlò invece a favore del Ministero; il quale finalmente, la mercé di Pasquale Stanislao Mancini, impetrò, nella tornata del 30 aprile, il desiderato voto di tolleranza espresso nei termini seguenti: «La Camera, sollecita dell’attuazione delle iniziate riforme, prendendo atto delle dichiarazioni del Ministero, passa all’ordine del giorno.»
Si procedette alla votazione per appello nominale. Erano presenti 409 onorevoli; diedero il proprio voto soli 263; risposero sì 262; rispose no 1; si astennero 146; non pochi dei quali dissero chiaro che l’astenersi esprimeva sfiducia. Coi deputati della Destra, che si astennero, trovaronsi d’accordo parecchi della Sinistra; di che l’Opinione n. 120 inferi, a ragione, che se l’accordo tra le fazioni di questa fosse stato pieno ed intero, le interpellanze non sarebbero state mosse da deputati di Sinistra, né si sarebbero spese in ciò tre tornate. «La verità si è che del famoso e tanto strombazzato accordo nelle idee, nella presente discussione, non vediamo traccia. Vi è, tutt’al più, un accordo di persone, che non si estende neanche a tutto il partito, ma soltanto ad una frazione di esso. Il Ministero si è accordato coll’onorevole Nicotera: ecco ciò che si vede e si sa; ma s’ignorano assolutamente le basi di questa riconciliazione.»
Certo è pure che dee contribuire non poco a screditare la Camera il vederla disdire alli 30 quello che avea detto alli 7 aprile, senza che intervenisse alcun nuovo fatto per cui apparisse che meritava fiducia quel Ministero stesso il quale erano stato dichiarato immeritevole.
Siamo tuttavia persuasi che questo risultato debba, più che ad un contratto, per interessi personali, tra i capi della Sinistra, attribuirsi alla ripugnanza grandissima che dovette provare ogni uomo non isfornito d’un poco di buon senso, a volersi caricare dell’eredità del Cairoli pel latente conflitto colla Francia.
6. I mali umori tra i Governi del Re Umberto e del presidente Grévy non s’inaspriranno certamente per l’ostentazione che ogni anno, dal 1871 in qua,
si mette nel celebrare sul Gianicolo, a Porta S. Pancrazio, presso gli avanzi della diroccata villa del Vascello, la commemorazione del fatto d’armi ivi accaduto alli 30 aprile 1849, tra i Garibaldini ed i Francesi che n’ebbero la peggio, e furono costretti a ritirarsi fino a Castel di Guido, lasciando circondati e prigionieri qualche centinaio di loro soldati con parecchi ufficiali. Secondo il solito, la Questura lasciò che i pochi superstiti di quel combattimento, con la giunta d’un grosso numero di partigiani della repubblica una, eterna ed indivisibile proclamata nel 1849 dai podio del Campidoglio, si recassero con loro fanfara al Gianicolo; ed ivi da certi romagnuoli giovanotti si dicessero corna contro la Francia, e mirabilia della Repubblica romana. Soltanto ci fu un guaiuccio quando si vide appendere ad una inferriata una corona di alloro, da cui pendea un gran nastro rosso. La Questura volle togliere quell’emblema: i dimostranti vi si opposero; si venne alle busse; il nastro scomparve senza che i questurini potessero sequestrarlo; si procedette a qualche arresto; crebbe allora il tumulto; e la forza pubblica dovette procedere, previo un doppio squillo di tromba, a disperdere i tumultuanti. Si intentò un processo contro due romagnuoli che, più ardenti, si erano ribellati contro i questurini; ma il Tribunale trovò qualche vizio di forma nell’istruttoria del processo; e mandò rimettere in libertà gli arrestati.
7. Sibbene è da temere che, se le truppe francesi non riportano prontamente una decisiva vittoria sopra i Krumiri (1), usandone poi il Governo del Grévy con molta circospezione e temperanza nei suoi procedimenti verso il Bey di Tunisi, possa l’Italia trovarsi impigliata in qualche grave conflitto, almeno diplomatico, ma sempre assai dannoso, col Governo di Parigi. Imperocché non può negarsi che l’Italia, almeno in quanto è rappresentata colà dal suo Console generale Macciò, parteggiò più o meno incautamente pel Bey contro il Governo francese; e per altra parte la spedizione militare della Francia contro i Krumiri, sudditi del Bey, a malgrado delle protestazioni di questo Sultano barbaresco che interpose anche un ricorso alla Sublime Porta, se dee essere efficace all’intento, dee andare molto più in là; non senza offesa e danno degli interessi politici e finanziarii dell’Italia.
1 Si bandi dai francesi che lo scopo del loro esercito era di circondare i Krumiri per castigarli tutti insieme; e che già i Krumiri chiuso loro ogni varco, erano concentrati in fortissima posizione sulla vetta d’un monte. La mattina della domenica 9 maggio, dodici battaglioni francesi, con incredibili stenti, si arrampicarono lassù, e vi trovarono alcune armi e tende, e, nel solitario marabutto un solo vecchio tutto in pel bianco; il quale disse essere stati 11, poc’anzi, 200 Krumiri, che se n’erano andati via. Il che dimostra che: od erano immaffiuarii i 10 o 12 mila Krumiri, ed inventati a servizio della causa, che diceansi lassù aspettare l’assalto; ovvero l’operazione militare del circondarli andò fallita.
Il Governo francese si protestò, è vero, di non avere intenzione veruna di annettere la Tunisia all’Algeria; anzi andò fino a ripudiare il disegno d’imporre a quella Reggenza un protettorato od altre condizioni di cose che ne offendano l’indipendenza. Tuttavia coll’essersi impadronito prima dell’isola di Tabarca, che ora si viene fortificando, poi della città di Biserta che dista sole due tappe, o giornate di marcia, da Tunisi, diede ragionevolmente a temere che, in realtà, il Governo francese miri a ben altro che a guarentire soltanto dalle scorrerie di alcune tribù selvagge le proprie frontiere dell’Algeria.
Nella seduta pomeridiana del 7 maggio i deputati Di Rudinì e Massari chiesero spiegazioni circa l’occupazione armata dei francesi a Biserta. Il Rudinì ricordò le risposte date dal Cairoti alli 7 aprile, quando affermò che le armi francesi si sarebbero limitate ad ottenere ragione delle offese ricevute per le depredazioni dei Krumiri citò le parole dette allora dal Gairoli sulla fede delle assicurazioni avute sì dall’ambasciadore italiano a Parigi, e sì dalle dichiarazioni ufficiali dello stesso Governo francese; fece rilevare che appena il Ministero del Cairoli ebbe ritirate le sue dimissioni, perché non accettate dal Re, seguì immediatamente l’occupazione di Biserta da parte di 2,000 (che poi crebbero fino a 12,000) uomini di truppe ivi sbarcate dall’armata navale francese. Il Rudinì insinuò che ciò potesse essere avvenuto per connivenza, almeno tacita, del Ministero italiano; congetturò che il Governo francese in realtà si accingesse a ben altro che non fosse quello che dapprima avea confessato di voler fare; parlò dell’importanza di Biserta e di Tunisi; esagerò i diritti dell’Italia, dicendo che là dove sono interessi italiani, ivi è l’Italia; e finì chiedendo se il Ministero avesse ricevuto dal Governo francese spiegazioni soddisfacenti intorno a quel fatto.
Il Massari dal canto suo desiderò sapere che cosa ne pensasse il Gabinetto di Londra, che mandò la corazzata Monarch nelle acque di Tunisi; e che cosa ne pensassero gli altri Governi europei.
Il Cairoli si sbrigò facendo notare che le dichiarazioni da sè fatte il 6 e 7 aprile erano la riproduzione ufficiale di quelle fatte dal Governo francese all’Italia ed all’Inghilterra; ed esprimendola fiducia che l’occupazione di Biserta, per quanto sembrasse oltrepassare i limiti indicati dal Governo francese, potea tuttavia essere imposta dalle necessità strategiche per ottenere lo scopo inteso e bandito senza reticenze. Ed aggiunse che una corazzata italiana, la Maria Pia era già partita per tutelare, come il Monarch i diritti e gli interessi degli inglesi, così essa quelli degli italiani, ove fosse d’uopo. In sostanza si vede che il Cairoli, all’interrogazione: dove vai? rispose: porto pesci. Gli si chiese se avesse avuto spiegazioni circa l’occupazione di Biserta; ed egli si sgabellò con appellare alle spiegazioni avute e comunicate un mese prima.
Laonde a ragione pochissimi furono soddisfatti del risultato dell’interpellanza, essendosi il Rudinì ed il Massari contentati di prendere atto della risposta avuta. L’Opinione, nel n. 127, non dissimulò il suo malcontento, e lo espresse in questi termini.
«È stato giustamente osservato che l’on. Cairoli, nella sua risposta agli or. Di Rudinì e Massari, s’è riferito alle prime dichiarazioni del governo francese; ma non ha punto detto che quel governo abbia fatto nuove comunicazioni al gabinetto italiano dopo l’occupazione di Biserta. Per verità, il silenzio della Francia a nostro riguardo contrasta grandemente con le spiegazioni che il governo francese si è stimato in dovere di dare ancora il giorno 5 all’Inghilterra e che furono riferite alla Camera dei lordi da lord Granville. Questa diversità di trattamento fra l’Italia e l’Inghilterra va notata, e dimostra sempre più che la Francia non crede necessario curarsi del governo italiano.»
L’Italia, isolata ora, e priva del poderoso soccorso diplomatico e militare, a cui va debitrice delle conquiste del 1859 e delle annessioni del 186061, del 1866 e del 1870, è costretta a dissimulare, e mandar giù bocconi amari. Ed amaro assai dovette sentire questo del disdegnoso silenzio della Francia, pur si cortese verso il Gabinetto di Londra, a cui spontaneamente indirizzò spiegazioni categoriche circa i suoi intendimenti in Tunisia, appunto perché dall’occupazione di Biserta non si traesse colà argomento a sospettare d’una premeditata annessione di Tunisi all’Algeria. Siffatte spiegazioni furono comunicate alla Camera dei Lordi nella tornata del 6 maggio; ed un telegramma ufficioso le divulgò subito nei termini seguenti.
«Lord Granville, rispondendo ad una interrogazione, non Uova irragionevole che i francesi si risentano degli oltraggi sulla frontiera dell’Algeria, e che prendano misure per impedire che si rinnovino. Il governo francese, soggiunge il ministro, diede costantemente l’assicurazione che non è intenzionato di annettere Tunisi, e ieri ancora Barthélemy SaintHilaire invitò lord Lyons ad assicurarci che non esiste alcuna idea di conquista o di annessione. Il governo inglese non è geloso dell’influenza che un grande paese, come la Francia, deve esercitare sopra un vicino debole e molto meno civilizzato, finché questa influenza non sia esercitata contro i trattati e gl’interessi dei nostri nazionali.
«Mi sembra inutile di soggiungere, concbiude il ministro, che sarà dovere del governo di vegliare accuratamente sugli accordi che possono risultare dalle attuali operazioni e di vedere che non siano contrari a questi diritti.»
8. Queste spiegazioni date dal Governo francese ed accettate dall’inglese, non rassicurarono punto L’Opinione che, nel n. 126, in un articolo intitolato: Brutti sintomi, reca a colpa dei Ministeri di Sinistra, regnanti e governanti in Italia dal 1876 in qua, i danni e le onte che ora si patiscono da parte della Francia. Eccone le precise parole.
«La Francia ha voluto occupare il territorio della Reggenza, ed ora si prepara ad esercitare un protettorato (poco imporla se di diritto o di fatto soltanto) che equivale al possesso di tutta quella parte dell’Africa.
«Nessun equivoco, dunque, può esistere più su questo punto. La Francia sa bene ciò che vuole e noi conosciamo le sue intenzioni. Ci troviamo davanti ad un fatto compiuto, sul quale sarebbe ozioso discutere. Era in potere del ministero d’impedire invasione? L’antagonismo tra l’Italia e la Francia risaliva ad antica data, ma colla prudenza, colla reciproca tolleranzasi era sempre riusciti a renderne meno dannosi gli effetti. E certo nonsarebbe entrato così presto nel periodo acuto, né la Francia si sarebbe ritenuta sciolta da ogni riguardo, se da cinque anni il nostro governo non ci avesse condotti, colla sua politica, ad uno stato di perfetto isolamento in Europa.»
Se il Governo italiano volesse fare un serio e spassionato esame di coscienza circa i fatti suoi, forse arriverebbe a capire ciò che mostra di non capire L’Opinione; cioè che il «perfetto isolamento» è frutto genuino di quella lealepolitica per cui, incominciando dal Re Galantuomo e scendendo fino alCairoti, i suoi uomini di Stato meritarono che niuna Potenza possa fidarsi della sua amicizia o fare assegnamento sulla sua alleanza. Come l’Austria-Ungheria può rinfacciare, tanto ai Ministeri di Destra quanto a quelli di Sinistra, agitazione or tollerata ed ora incoraggita per l’Italia irredenta ed i maneggi settarii e soppiatti con cui si mira ad attizzare il fuoco della ribellione a Trento ed a Trieste; così la Francia ha qualche ragione di essere indispettita per le rivendicazioni di Nizza e della Savoia, da parte d’una Italia cbe essa fece colle sue I armi, colla sua diplomazia, coi suoi milioni e col sangue dei suoi soldati.
Non intendiamo di compilare qui un processo, fondato sulle prove dei fatti, e dimostrare che la politica versipelle dei Ministri di Vittorio Emmanuele II contro l’Austria nel 1866, contro la S. Sede dal 1859 al 1870, e contro il Re di Napoli nel 186061, è la vera causa per cui il deputato Bovio, nella tornata del 29 aprile p. p. dovette esclamare dolorosamente: «Alleati, amici veri non avemmo né prima del 1876 né dopo!» (Atti uff. p. 5160). La duplicità e la perfidia dei maneggi soppiatti, in piena contraddizione con le dichiarazioni ufficiali di leale amicizia, contribuirono al presente isolamento del Governo italiano, troppo più che non altre cause, che la Perseverala del 18 marzo attribuisce esclusivamente al Governo degli uomini della Sinistra, affermando che «con una politica piana e presuntuosa ci siamo resi tutti avversi.» Questa condotta insipiente e funesta fu ereditata e copiata da quel tipo raro di politico fraudolento che fu Napoleone III, poderosamente aiutato dal Galantuomo, da Camillo Cavour e da una squadra di diplomatici senza onore e senza coscienza; d’uno dei quali fu detto nel Parlamento inglese: che avea meritato d’essere impeso per la gola fuor del balcone del palazzo Pitti. Sicché il male è vecchio e dava già in cancrena almeno 10 anni prima che il Governo cadesse tra le branche della Sinistra.
Non a torto, pertanto, la Nette Freie Presse di Vienna, diario liberalissimo e giudaico, parlando dell’Italia e della sua politica agitatrice, uscì m queste parole.
«Non è cosa degna, né savia, per una nazione, la quale, favorita dalla sorte, senza grande cooperazione da parte sua, ha ottenuto molto più di quello che avevano sperato i suoi più ardenti uomini di Stato, di provocare incessantemente delle nuove complicazioni allo scopo di aumentare il suo bottino con mezzi facili. Da molto tempo l’Austria attribuiva al suo vicino dei cattivi sentimenti. Ora è la Francia che è provocata; spetta ad essa dare una lezione umiliante alla nazione sorella ed a respingere le sue esagerate pretese nel Mediterraneo».
Il signor Barthélemy Saint Hilaire è andato anche più oltre; e scrivendo al suo amico, onorevole Correnti, ha detto degli italiani: «Voi avete voluto fare una politica molesta alla Francia, ma non avete saputo farla; non siete stati né lupi, né agnelli».
Isolati, dunque, e scherniti! Ecco il bel guadagno che ha fatto l’Italia sotto il governo dei liberali. Ci è di che andarne superbi!
9. Chi semina vento raccoglie tempesta. Lo sa e lo sente ora il Governo democratico d’Italia, a capo di cui stanno due antichi e fervidi Mazziniani, il Cairoli ed il Depretis; il primo dei quali fu tra i fondatori e promotori più efficaci della setta pericolosa che ha per iscopo di liberare l’Italia irredenta. Qual è il Governo straniero tanto scimunito che voglia e possa affidarsi alla lealtà di tal partito? Nè soltanto i Governi stanno in guardia; ma anche i popoli, e quello soprattutto della Francia che fece l’Italia, ne diffidano e paiono anelare a qualche cosa di peggio.
Infatti il Diritto, diario di tutta fiducia del Depretis, pubblicò in capo al suo n° 129 pel lunedì 9 maggio, una corrispondenza da Parigi, sulla quale richiamò l’attenzione dei suoi lettori; e che manifestamente ha per iscopo di distogliere i liberali italiani dalle loro pericolose spavalderie, e di preparare tutti a saper soggettarsi anche a qualche grave umiliazione. Ciò risulta evidente da due tratti che reciteremo qui di tale importante corrispondenza.
«Sono a Parigi da quindici giorni soltanto: ma in questi quindici giorni sono stato in rapporto con uomini di vario partito e di diverso grado, ho studiata ed esplorata l’opinione pubblica, e mi son convinto di un fatto doloroso, che non si tratta cioè di ciarle de’ giornali soltanto, ma sibbene di convinzioni generali, vivacissime.
«Tutto ciò che si dice contro di noi dalla stampa è ripetuto dal pubblico, anzi talora fin il linguaggio del Figaro o della Franco può parere parlamentare e calmo… in confronto a ciò che si sente dire dell’Italia, anche ne’ circoli migliori. E l’irritazione è addirittura più che vivace nel partito militare, il quale ho oramai udito l’odor della polvere e non vorrebbe arrestarsi alla così detta spedizione ed alla così detta campagna di Tunisia.
«Tutto ciò occorre, è indispensabile che l’Italia sappia esattamente. Illudersi non giova, e quando non si conosce con precisione il male, non si sa a qual sistema di cura si debba ricorrere. Ora l’opinione pubblica francese è veramente e con molta violenza eccitata contro di noi, e mentre ha incominciato dapprima col chiedere una politica risoluta contro il Bey, e poi si mostra finanziariamente ostile all’Italia, si avvia ora per un cammino ancor più pericoloso cogli attacchi contro il Macciò, e colle pretese che, a questo proposito si avanzano.»
L’autore della lettera trova un lenitivo, da spandere sulla ferita, nell’interesse dei banchieri e dei capitalisti francesi, cui mette bene di profittare del mercato finanziario che dee aprirsi in Italia per 1 abolizione del corso forzoso della carta moneta; e si studia di provare che non debba troppo temersi, laddove si abbia prudenza e pazienza, una guerra i finanziaria, che nelle presenti congiunture le sarebbe rovinosissima; e consiglia di cedere alla Francia nelle cose politiche e militari della Tunisia, ma tener fermo nei rapporti finanziari. Ecco un tratto della perorazione. «Tale essendo lo stato delle cose, che resta da fare all’Italia, nei suoi rapporti politici e fìnanziarii colla Francia?
«Nei suoi rapporti politici oramai non v’è che una linea di condotta. Dignità, calma e ferma risoluzione di non lasciarci trascinare da alcuna passione. Il contegno della Francia è offensivo: a torto od a ragione, di Tunisi s’era fatta una grave questione, e la Francia risolvendola da sola tocca la suscettibilità e l’amor proprio dell’Italia, ne ferisce gli interessi. Ma è obbligo delle nazioni in certi momenti supremi saper dominarsi e saper attendere. Puossi sopportare con dignità anche una violenza, anche una prepotenza, puossi sopportare con nobiltà anche un’umiliazione. Questo appunto tocca ora fare all’Italia.»
10. Il Diritto, ossia il Governo del Cairoti e del Depretis, sembra disposto a fare di necessità virtù, ed a schivare tutto ciò che paia accennare a qualche intendimento bellicoso, onde venisse un pericolo di romperla colla Francia, almeno diplomaticamente. Ma si è impuntato in £ voler sostenere come al tutto innocente quel suo rappresentante a Tunisi, che la Francia riguarda come il principal colpevole nei maneggi che lacostrinsero alla spedizione delle sue truppe nella Reggenza. I francesi sono tutti d’accordo in ciò. Lo dice l’autore della corrispondenza di cheabbiamo parlato testé. «Anche i nostri più caldi e sinceri estimatori credono alle accuse contro il Macciò, e via discorrendo.»
Il corrispondente ha ragione. Quale amico più sincero e più fervido ha l’Italia in Francia, che il Journal des Débats. E tuttavia quello che accreditò, divulgò e rendette credibili in tutta la Francia le più gravi accuse contro Licurgo Macciò Console Generale d’Italia a Tunisi, fu appunto il Journal des Débats; che nel suo foglio del 3 maggio (ediz. della sera per gli Spartimenti) stampò una lettera, che disse essergli stata scritta da chi conosce tutta per filo e per segno la storia del Mostakel, e dalla quale risulterebbe che il Macciò fosse realmente, a saputa e col consenso del suo Governo, il fondatore, il prezzolatore e lo spacciatore fra gli Arabi Algeriui e Tunisini, di codesto giornate; il cui titolo significa L’Indipendente, ed il cui scopo è di sollevare a ribellione gli Arabi discreditando il Governo e la politica e le forze della Francia.
L’impressione prodotta da codesta lettera fi1 tale, che anche ‘Opinione di Roma, nel n. 124 pel 5 maggio, se ne mostrò, non sappiamo qual più, se irritata o sgominata, pur mostrando di non prestare alcuna fede alle cose in essa affermate, circa la complicità del Macciò, e del suo interprete Pestalozza, nella compilazione e diffusione del Mostrivi, che stampavasi a Cagliari in lingua araba, per cura del signor De Francesco, direttore del giornale L’Avvenire della Sardegna. L’Opinione recò la traduzione della lettera al Débats; e, come giunta alla derrata, recò pure la traduzione di un articolo del National, in cui è tratto in mezzo un tale ZainZain, che dicesi compilatore del Mostakel, e che attestò cose gravissime circa i supposti maneggi del Macciò e del Pestalozza in guisa da renderne mallevadore anche il Governo di Roma.
Per coronamento dell’opera, L’Opinione stampò, nello stesso a IH quanto segue: «Il Temps, dopo aver anch’egli asserito che il console Macciò è il principale autore della propaganda antifrancese e l’inspiratore del Mostakel, va più innanzi ed afferma che il console italiano a Tunisi ha compromesso il suo Governo, il quale ha l’obbligo di sconfessarlo. Questo, come abbiamo detto, è in generale, il linguaggio dei giornali francesi senza distinzione di partito, e in ispecie di quelli che godono fama di interpretare il pensiero del Governo. Le loro parole hanno, dunque, una gravità, che non dobbiamo esagerare, ma neanche negare, se non vogliamo andare incontro ad altri avvenimenti impreveduti.»
Noi ci contentiamo di far notare che il Temps è in voce del pi autorevole tra i giornali ufficiosi del Governo francese; e che perciò è di molto peso la insinuazione fatta dal, che il Governo italiano debba, per obbligo, colpir di biasimo il suo Console Generale a Tunisi, cioè riconoscerlo e condannarlo come veramente colpevole dei maneggi che gli furono imputati. Ed infatti corse la diceria che la Francia avesse chiesto, il che non par vero, che fosse rimosso da Tunisi il Console Maciò, come autore di tutto il dissidio.
Non occorre che recitiamo qui codeste rivelazioni; alle quali il signor De Francesco, incolpato anch’egli di codesti fatti, contrappose dm particolareggiata narrazione di quanto concerne il Mostakel, con lettera stampata nell’Opinione n. 126 pel 7 maggio, e dalla quale resterebbero pienamente giustificati il Macciò ed il Pestalozza, e dimostrati menzogneri e calunniatori il ZainZain e gli altri tratti in scena dal Débats, dal National, dal Temps e da quasi tutti i giornali francesi. Il De Francesco scese a sì minuti particolari, allegò tali testimonianze, pose in tanto rilievo le assurdità di che formicolavano le narrazioni dei mentovati giornali, che, a vero dire, egli dovrebbe essere un impostore matrici per cinismo, se la sua esposizione non fosse veritiera.
Ad avere bastante e piena contezza dei maneggi e dei fatti attribuiti al Macciò, basta leggere la seguente nota ufficiosa pubblicata nel n. 127 del Diritto pel sabato 7 maggio. La quale trascriviamo, perché il tono risentito e riciso delle mentite dimostra quanto grave sia l’irritazione prodotta dal contegno del giornalismo francese. Vero è che talvolta codesti sdegni d’alterigia procedono da altre cagioni, che non da amore della verità, e fanno ricordare il motto: Tu te fâches? donc tu as tort.
Ma qui non sembra il caso; e ad ogni modo giova tenerne conto, con isperanza che da codesto garbuglio non abbiano ad uscire brutti guai, e che niuno abbia ragione di dire poi d’aver preveduto che: Lieve scintilla gran fiamma seconda. Ecco la nota del Diritto.
«Sappiamo che il Governo si era preoccupato, secondo che era debito suo, delle insinuazioni e delle gravi accuse enunciate da giornali e da corrispondenti francesi contro il regio agente e console generale in Tunisi, commendator Macciò; e sappiamo altresì che, questi, interpellato in termini precisi, ha in modo riciso e categorico dichiarate menzognere e calunniose quelle voci e quelle accuse.
«Il commendator Macciò dichiara falso che egli abbia mai presa una ingerenza qualsiasi, diretta o indiretta, nella direzione del—
falso che egli abbia mai cooperato alla sua diffusione; — falso che l’arabo ZainZain, l’autore delle pretese rivelazioni a suo carico, sia stato fatto venire di Siria dal signor Pestalozza, interprete del regio consolato; — falso che egli, commendator Macciò, o l’interprete, signor Pestalozza, abbiano mai inviato all’arabo ZainZain lettere ed articoli per il Mostakel; — falso che egli, commendator Macciò, abbia usato minaccia qualsiasi per ottenere che lo ZainZain gli dichiarasse di non aver mai ricevuto dal signor Pestalozza articoli da pubblicarsi nel giornale, non avendo lo ZainZain, del resto, altro incarico che la composizione tipografica dello scritto arabo; — falso, che egli commendator Macciò, siasi mai sognato di inviare emissarii al campo di Ali bey, comandante le truppe tunisine; — falso che egli abbia mai fatto pressione alcuna sul Bey per incoraggiarlo alla resistenza; — e false, del pari, tutte le altre imputazioni dello stesso genere contro di lui lanciate, e aventi tutte lo stesso intento.
«È inutile aggiungere, ancora una volta, dopo di ciò, che non hanno valore alcuno i commenti e gli apprezzamenti varii che già eransi voluti fondare sopra quelle dicerie, oramai nettamente e formalmente smentite.»
Siamo di parere che il tono rabbioso di questa notat il quale si fa sentire anche nella risposta data dal Cairoli, nella tornata seconda del 9 maggio, ad una interrogazione del Fabrizi apunto circa la condotta del Macciò, non gioverà punto a mitigare l’asprezza dei sentimenti dei francesi contro gli italiani. E parliamo dei rivoluzionarii delle due nazioni; perché i cattolici, vittime tanto in Italia quanto in Francia della tirannia Massonica, non desiderano che la pace. Or egli è manifesto che l’opinione pubblica dei francesi liberali contro i loro fratelli italiani deve essere in uno stato d’orgasmo acuto, se è vero quel che L’Opinione nel n. 129 pel 10 maggio, stampò come ricevuto per lettera da Parigi.
«L’avversione per l’Italia non ha limiti nelle sue manifestazioni. Alla guerra seria che si fa alla parte d’influenza che ci spetta a Tunisi, alle invenzioni maligne sull’azione del console Macciò. si aggiunge lo scherno, la beffa, il ridicolo che si getta sulla nazione. È impossibile ridirvi, in una lettera, quel che leggo da più mesi sui giornali o che veggo disegnato e dipinto su pei chioschi dei boulevards!»
E qui, dopo una tirata di due fitte colonne di descrizioni delle impertinenze dei francesi che rendono tanto più spregevole la grulleria del Ministero Cairolino, L’Opinione, cioè il suo corrispondente, esce in uno sconfortante vaticinio, che un cattolico forse non potrebbe prudentemente esprimere senza incorrere le ire del Fisco, che ci vedrebbe un voto di distruzione dell’Italia!
«Oh sii La repubblica francese servirebbe un buon piatto democratico all’Italia, se il krupp prussiano non vegliasse sul Reno! Non scordiamo mai che Roma ci fu resa dal caso; (Oh! noi credevamo che il Galantuomo se la fosse presa col portentoso valore delle cinque Divisioni del suo esercito e dei suoi 80 cannoni!) e che dal vincitore di Sédan può esserci conservata fino a che non saremo in grado di difenderla colle nostre proprie forze. Che Dio ce lo conceda presto!»
LA CIVILTÀ CATTOLICA
ANNO TRIGESIMOSECONDO – VOL. VI. – DELLA SERIE UNDECIMA
fonte