VOCABOLARIO NAPOLETANO LESSIGRAFICO E STORICO

articolo tratto da eleaml.or
Pubblichiamo il dotto saggio introduttivo che Vincenzo De Ritis antepose alla sua opera principale. Il Vocabolario napoletano lessigrafico e storico, un’opera che non portò a compimento e che ebbe vita travagliata. Pare che l’autore fosse completamente estraneo al commercio di fogli dell’opera intrapreso dagli stampatori. Un commercio che ovviamente interruppe i finanziamenti ottenuti dal sovrano Ferdinando II.
Vincenzo De Ritis fu intellettuale eclettico, animatore della Accademia Pontaniana e autore di vari testi.
Il Martorana si rammarica che si celebrasse il generale Fanti (in quanto considerato uno degli artefici del Risorgimento) e si ignorasse il De Ritis, nonostante il suo elevato impegno nello studio delle lingue.
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VOCABOLARIO NAPOLETANO
LESSIGRAFICO E STORICO
VOLUME I.
N A P O L I.
DALLA STAMPERIA REALE
MDCCCXLV.
SISTEMA LESSICOGRAFICO
DEL
DIALETTO NAPOLETANO
La lessigrafia di un dialetto altra esser non può, nella sua essenzial parte, se non quella di un comune idioma al quale con altri dialetti appartiene; il quale idioma, con vedute più larghe, vuol considerarsi come un dialetto anch’esso: e così vievia, fin che si giunga, sempre più di mano in mano differenziando, e quel lessigrafico sistema in che consiste la imprescindibile comune gramatica di tutti gli umani linguaggi. Senza la quale non sarebbe possibil cosa che popoli di molte favelle venissero a parlamento tra loro: perciocché le forme rappresentative, o, a dir meglio, risvegliatrici delle nostre idee, tradur non si possono senza di quella da idioma ad idioma e passar quasi di cranio in cranio come un liquido si tramuta di vaso in vaso.
Questa iniziante e primigenia lessigrafia noi troviamo di già stabilita da’ nostri maggiori: ché nulla e mero cangiamento di nomi vi aggiunsero que’ moderni i quali di una così detta Gramatica Universale anfanarono a dichiararsi insegnatori. E però la nomenclatura de vecchi grama ti ci seguiamo; e parole di greca o di latina forma credemmo nostro debito includere nel nostro vocabolario le quali, se tra le parole non si rinvengono de’ volgari, pure della speciale indole del nostro dialetto sol valgono a fissar le condizioni che dagli altri italici dialètti il distinguono e dal comune aulico linguaggio. Del quale, comunque voglia riguardarsi dialetto anch’esso di un primitivo idioma che dir potremmo iapetico, se si vuole, anche falegico o pelasgico; pure, perché contiene in sé eminentemente quel gramaticale sistema modello dal quale fluiscono tutte quante le lingue del mezzogiorno di Europa; abbiano voluto (e ci si condoni questa naziònal debolezza) seguir piuttosto le ragioni come dal Bembo in giù i nostri gramatici le ponevano, e considerar le divergenze non altrimenti che idiotismi, vuoi francesi, vuoi casigliani, vuoi d altra razza.
Ed è questa la giustificazione dell’aver noi allogato nel nostro vocabolario tutto il tecnicismo gramaticale italico; nel quale, e nel qual solo, della speciale indole del dialetto stabilir si potevano con agevolezza e caratterizzare le differenze. Avremmo ben potuto alla profferenza napoletana adagiarlo ma l’autorità ci ha confortati del Buommattei quando disse, che i termini quanto più si fanno volgari, tanto son meno intesi.
Le quali differenze a tre principali obbietti si riferiscono: 1.° di profferenza, e conseguentemente di ortografia; 2. di sintassi 9 e conseguentemente di quegli amminicoli gramaticali che dell’ordinamento di un discorso costituiscono le ragioni; 3. di parole speciali, o dagli antichi idiomi ritenute, o da popoli stranieri introdotte, 0 da noi stessi foggiate secondo che bisogna o fantasia le occasionavano.
Dell’ultimo non è qui ragionamento: e alla parola Etimologia è detto abbastanza. Ma nell’ordine alfabetico per noi seguito (gli articoli che i primi due obbietti riguardano esibir non si potevano in modo che da per sé soli dar potessero un compiuto concetto senza molte ripetizioni. Di qui gli articoli di rinvio che ne offrissero l’iniziativa o il complemento.
E di tali articoli un ordinamento. metodico qui presentiamo, nella cui successiva lezione rinvenir si possa quel che a nostro avviso costituisce il differenziale sistema lessigrafico del dialetto napoletano.
PRONUNZIA ED ORTOGRAFIA
In una sensazione qualunque dell’udito, in un suono qualunque, cinque parti integranti stabilir si possono: la Voce, ed in essa il tuono e la durata; l’articolazione, ed in essa la tempera. Tutte queste cose ab antico ne’ suoni della voce umana si è andato distinguendo e con maggiore 0 minor minutezza notando: ma la voce, il tuono, la durata è argomento più musico che gramaticale; come argomento più gramaticale che musico è stato ed esser dee l’articolazione e la tempera. Perciò gli antichi le articolazioni co’ segni principali notarono, che dissero lettere, e poi tutti gli altri accidenti, con subordinati segni diacritici più o meno copiosamente di mano in mano introdotti.
Ed in vero: perché la voce umana esser possa la enunciativa di un pensiere agevolmente comunicabile, nella ipotesi ancora che con le semplici onomatopee sino a un certo punto provveder potesse; P atteggiamento solo dell’organo stomoideo per emettere un A, un I, una E, ec. già è per sé stesso un’articolazione. Per lo che ci sembra che non si esprimesse con la sua solita precisione il Tracy quando disse:
» Essere la voce quella circostanza del suono la qual fa ch’egli sia un’A o un I piuttosto che un O o un U».
Con miglior senno i nostri antichi queste circostanze del suono non dissero voci, ma vocali, e i più antichi anche mozioni della voce. Di fatti: perché la muta emissione del fiato in voce si trasformi, fa bisogno che perda l’equilibrio e mettasi in oscillazione: la quale (da una protovibrazione sempre mai dipendendo) se isocrona si rimane, esser ben può valutabile per durata; se l’isocronismo non conserva, può discendere al grave e innalzarsi all’acuto, e dall’acceleramento o lentezza delle vibrazioni esser valutabile per tuono. Ma sempre rimane quella condizione che l’espressione meramente musica trascenda e ad un sistema di segni comunicativi d’idee si trasporti: il qual non si rimane al semplice ufizio di risvegliatore ed eccitatore anche della tale o tale altra passione a larghe divisioni compartita, ufizio limitativo della musica; ma che delle minime differenze s’industri a far distinguere i più tenui particolari, e della concezion de’ pensieri si renda insiememente risvegliatore, dilucidatore e ministro, uffizio esclusivo della loquela umana nell’ampia e trascendentale espansione delle sue facoltà.
Quindi è che l’umana voce in espressione logica ed in espressione rettorica si vuol distinguere. E se questa dal ministerio della espressione musicale non poca parte trac della sua energia, e. quella altresì nella più placida enunciazione d’un pensiere da ciò che chiamasi musica del linguaggio non può affatto distaccarsi; pure rimarrà sempre tema incontroverso e solenne assioma, essere nelle articolazioni l’ipomoelio di ogni umano linguaggio. Il che nelle più tenuamente espresse articolazioni vuol da prima considerarsi, e nelle vocali stesse le protovibrazioni andar considerando. E perciò ben disse Platone che le lettere vocali nella laringe pie Orante si formano: perciò lettere gutturali negli alfabeti antichissimi le vocali si rimasero: perciò di uno spirito tenue nella scrittura ellenica tutte le vocali si caricavano se prime si fossero presentate in una parola: e perciò le prime scritture latine tante H iniziali si ebbero di parole e di sillabe che dai più moderni scrittori si andarono poi vievia dismettendo.
Dal che segue che il tocco articolare, la parte plettrante dell’organo stomoideo, è ciò che principalmente vuol essere esaminato nelle sue diverse funzioni se della vera analisi gramaticale allontanar non ci vogliamo da una tal quale recisione. Col progresso della civiltà e l’ingentilirsi delle loquele molte di queste articolazioni ben possono attenuarsi e divenir quasi evanescenti: ma abolirsi affatto non mai: e virtualmente almeno sempremai si riproducono, se delle trasformazioni delle parole ci facciamo a ricercare il perché. ’ Ma in tal disamina dall’avviamento porremo studio a non divergere che i nostri grandi avoli segnarono, ricalcandone quasi le orme.
LETTERE VOCALI
» Prendi questo Corano, disse Abscilarvad al suo scribente, e prendi una tinta di color diverso dall’inchiostro: e quando mi vedi aprir la bocca, metti un punto al di sopra della lettera: quando stringerò le labbra tra loro, metti un punto al lato della lettera: ma quando le infrangerò metti un punto al basso della lettera». E di fatti son questi i segni esterni dell’organo stomoideo per distinguere spiccatamente le prime differenze delle voci, le quali tutte, come dicemmo, considerava Platone articolate nella laringe. Ma, oltre a quella protovibrazione nella laringe, aver dee la bocca diverso atteggiamento. Basta solo aprirla nella prolazione dell’A.; bisogna stringer le labbra per profferire un O; infranger le labbra con un atteggiamento linguale per avere una E. Intanto un insegnamento dottrinale e scolastico, per adottar le frasi del beato Agostino, può soltanto segnare i limiti di quell’apertura, ai quel tondeggiar delle labbra, di quell’atteggiar della lingua. Nella volubilità della prolazione della voce umana v’ha un procedere quasi insensibile: ed ecco non tre sole vocali, ma tre classi di vocali» Dall’A chiarissimamente profferita si può far passaggio, senza giugnervi tuttavia, all’E ed all’O, che i Greci segnarono per H ed Ù, e i nostri gramatici con tutta ragione dicono aperti: si può dall’O procedere al TU nostro, stringersi anche più nell’U fiutato degl’italici transappennini e de’ Francesi, e giugnere ancora lievemente a toccarsi e nella più tenue delle labiali, nella V a trasformarsi. E del pari quell’atteggiamento della lingua che alquanto al palato accostandosi determina l’E, può avere un avvicinamento ulteriore, ed ecco l’I; può giugnere lievemente a toccarlo, ed allora nella più tenue delle linguali., nella J si trasforma.
Ecco adunque tre classi delle lettere vocali.
I. Vocale mera gutturale, A, Í, Ð.
II. gutturale labiale, Ù, O, U, r, V,.
III. gutturale linguale, H, E, l, J, t.
L A par che rimanga solitaria; ma sanno i gramatici che ben dieci suoni diversi Prisciano le attribuiva; ed abbiamo di già osservato come con l’Ù e la H (che i nostri chiamano O aperto ed E aperta) non di rado si confonda.
Nelle altre due classi abbiamo evidentissima l’iniziativa delle consonanti. Perché la prima ne mancherebbe? Ma fatevi a pronunziare un A con molta forza, e la consonante in quella vigorosa protovibrazione diverrà spiccante e l’iniziativa vi rinverrete di tutte le gutturali.
Giunti a questo stadio della nostra analisi, già della caratteristica speciale del nostro dialetto cominciano a presentarsi le condizioni..
È dorizzante il nostro dialetto: e conseguentemente all’apertura dell’organo stomoideo sono i Napoletani inchinatissimi. Di qui il tramutare in A, senza eccezione alcuna, quelle articolazioni vocali che altrove giungono appena all’O aperto, alla E aperta: e il tramutare in O ed in E le più strette articolazioni U ed I.
Intanto di quell’avvertimento del Salviati non vuol qui tacersi il ricordo: » Essere non infrequente che più o meno finite le lettere si mandin fuori. » Ma non diremo con lui che ciò si faccia lanciandone addietro una parte ed alla seguente saltandosi: salti non v’ha nella pronunzia delle articolazioni se non quando v’è lo ntoppo, com’ei diceva, nel percotimento delle diverse consonanti; e nemmeno delle consonanti generalmente considerate, ma di quelle che mute i vecchi gramatici denominarono: in tutti gli altri casi le articolazioni strisciano dall’una all’altra lievemente e quasi in un dittongo articolare per dir cosi vengono a trasformarsi.
Dal che segue che delle tenuissime articolazioni delle vocali son due le vicende: 1.° di attenuarsi sempre più ne’ così detti dittonghi raccolti: 2.° di rendersi più spiccanti in quelli che a noi rimangono dittonghi distesi, quando cioè di due vocali sentir bisogna spiccatamente la doppia profferenza.
Ed ecco perché, ne’ volgari d’Italia, molti dittonghi raccolti dittonghi più non sono, essendosi quel mezzo I (e va detto lo stesso del mezzo U) vieppiù diminuito e quasi obliterato, o al semplice tocco dell’articolazione ridotto, e perciò ortograficamente con la J o V figurato; mentre ne’ dittonghi distesi quel lieve tocco articolare in articolazione più spiccante si trasforma. Cosi nelle antiche scritture, come nella bocca de’ volgari di alcune italiche regioni, di Paolo si ha Pagolo e Pòlo, toccando gli estremi della troppo spiccata o troppo liquescente profferenza: gl’intermedi sono Pavolo e Paulo.
Nel dialetto napoletano è costante l’interposizione dell’l, più o meno vibrato, tra due vocali di classe diversa, come maiestà, paiese, maiestra, in vece di maestà, paese, maestra, senza per altro giugnere sino alla J consonante, come in alcune stampe si osserva; e non di rado v’ha l’addizione di quelle mezze lettere per semplicemente attenuare 1espressione della vocale che segue; attenuazione ordinariamente determinata per vedute lessigrafiche, come or ora sarem per vedere.
Ma dalle protovibrazioni tenuissime alle più scolpitamente pronunziale.
SEMIVOCALI
Se una delle caratteristiche spiccanti della lingua italica è quella di conchiudere qualunque parola con una lettera vocale; spiccante caratteristica del dialetto napoletano è quella di conchiudere con una vocale tutte le sillabe ancora.
Ma tra le consonanti alcune ven sono che gli antichi dissero semivocali; e queste, sebbene conchiuder possono una sillaba italica, come conchiudono nel domestico conversare le parole di molti volghi dell’Italia transappennina, e molte parole ancora del comune aulico linguaggio; pure nella loro integrità non rimangono. E ben si dissero liquide tali articolazioni perché strisciano agevolmente e si adagiano con altre sul bel principio di una sillaba in modo da poter essere non di rado in alcuni alfabeti espresse con un sol carattere; e non solo formano un prolungamento della vocale che precede, ma ne modificano altresì la natural profferenza. Tali sono le L, R; M, N; F, S; il cui ufizio nelle varie loro posizioni per ciò che riguarda la profferenza italica, andremo esaminando.
Quando, nel principio di una parola o di una sillaba, solitarie le semivocali si presentano, conservano l’integrità del loro carattere per nulla difforme in tutti gl’idiomi. E nel dialetto napoletano, come nelle lingue semitiche, scrivonsi scempie o doppie per esprimere la loro ordinaria o più spiccante vibrazione. Il che avviene in tutte le consonanti. E qui non è da non rammentare il saggio avvertimento del Salviati, essersi contra ragione e per mero abuso introdotto il costume di non addoppiare al principio delle parole le consonanti le quali spiccatamente si pronunziano e quasi con doppia forza, e di scompagnarle e dividerle tra due sillabe nel mezzo delle parole quando indivisibile esser ne dee la profferenza, non rappresentando le due consonanti una ripetizione del tocco articolare, ma soltanto un tocco più vigoroso il qual, tutto intero, alla seconda sillaba si appartiene.
E tutta intera alla vocale seguente si appartiene altresì la profferenza di quel gruppo di consonanti che dittonghi o trittonghi posson sibbene apparire nella primitiva rigidità dell’organo della parola, ma che per la fusione delle liquide articolazioni coll’andar del tempo in monottonghi s’ingentiliscono: e viceversa ima specie di dittongo compor possono se ad una precedente vocale si aggiungono, come più su dicevamo.
La quale addizione di un altro tocco articolare, ma evanescente, in tutti gli umani idiomi si rinviene. Dopo di avere Abscilarvad indicato al suo scribente i tre segni diacritici delle tre classi delle mozioni di una voce, soggiugneva:
» E se dopo alcuno di tai moti senti un appoggio nasale, o metti due punti invece di uno».
Ed ecco 1indicazione dell’ufizio delle lettere liquescenti il quale nella M e nella N più manifestamente appare, comunque a due tocchi diversi dell’organo stomoideo vadan tali lettere riferite, quella alle labiali, questa alle linguali palatine.
Della N disse Mauro Terenziano:
sonitus fugitur usque sub palato
Quo spiritus anceps coeat naris et oris;
e disse che la M
clauso quasi mugit intus ore.
L’aspirazione nasale della N da noi scolpitamente non si avverte quando la pronunzia è battuta, ma è notabilissima in combinazione, spezialmente nella profferenza de’ nostri Calabresi. Ma allora indubitata cosa è che di tal voce propria non manchi e un dittongo venga quasi a formare con la vocale che le precede. E però semivocale fu a giusta ragione dagli antichi denominata: nel quale ufizio del suo consonante tocco palatino quasi viene a dismettersi, perché assai sottilmente si attenua come nelle articolazioni delle vocali. Ed ecco una quarta classe per dir così di articolazioni che come semplici vocali nasali non già come consonanti vengono al di là delle Alpi dal Beauzée in poi considerate. Ma perché mai tutti quei valentuomini che dopo quel sottilissimo gramatico la vocalizzazione comunque alquanto oscuretta della N riconobbero e l’àn, l’in, l’on, l’un, come vocali mere nel francese idioma van considerando, hanno poi tanto ribrezzo a chiamar semivocali quelle lettere liquescenti che semivocali gli antichi denominarono? Cile che ne sia, nel nostro dialetto non solo, ma nelle regioni ancora di profferenza e di ortografia del comune italico linguaggio, dii una tal classificazione abbiam d’uopo.
Se nel napoletano non v’ha sillaba la qual non si conchiuda con vocale, e la N, dopo la modificazione della vocale che precede, alla sillaba seguente si trasporta; non altrimenti avviene nel Vallo d’Arno, dove, per accostarsi al vezzo di quel volgo, la I rimuovesi dalle parole che hanno l’iniziativa dall’IN. Cosi abbiamo già veduto che ’ncontro invece d’incontro compiacevasi il Salviati di scrivere; e sé chiamò ’nfarinato, e l’amico suo ’nferigno. Non è adunque da berteggiarsi il volgo napoletano se l’aferesi della IN è per esso costante, anche quando questa preposizione è isolata; e se, per seguire il suo analogico andamento, la N, la R, ec. anche dalle altre preposizioni rimuova, e non pronunzi e scriva giammai con, per, e le apocopate N, R, ec. faccia finire e tramutare nella consonante della seguente parola se ve n’abbia, o le trasformi nella D paragogica, more maiorum, come cenneremo più giù e nel vocabolario alla lettera D sarà più ampiamente disviluppato.
La M come semivocale altro non importa se non un’attenuazione della N, quando al tocco palatino l’espressione d’una labiale succede. E in questo solo ufizio, non insolito ne’ Latini, può la M considerarsi come una delle lettere semivocali e liquescenti. Che anzi, nel napoletano dialetto, quando pel comune italico non dee considerarsi la M se non come una N attenuata perché seguita da una debole labiale; questa ultima è quella che si attenua e dispare, rimanendo la M non solo in tutta la sua interezza, ma con maggior vigore espressa nella pronunzia, e conseguentemente addoppiata nella scrittura; cosi in vece di mbruoglio, non voglio, ec. dicesi e scrivesi mmruoglio, no mmoglio, ec., comunque sia stato e sia nel costume di alcuni scrivere il non come nel latino letterato e nel comune italiano.
La L nella fine di una sillaba il dialetto napoletano non comporta, ed in U o nell’affine R la va sempremai trasformando. Così ALtare, ALto, ALtro, diviene AUtaro, AUto, AUtro e conseguentemente se la vocale cui la L si lega è un O, dispare anche il dittongo e nella semplice O ovvero in U si ristrigne, secondo che l’O sia aperto o chiuso; così pOLtrone, vOLta, mOLto si cangia in pOtrone, vOta, mUto.
Questa fusione della L fa sentirsi ancora nel Vallo d’Arno; se non che la trasformazione è quasi una mezza I, come disse il Salviati: Altra vOIta, Almo sole, Olmo, vUlgo, in vece di ALtra vOLta, ALmo sole, OLmo, vULgo: esempi da quell’illustre gramatico prodotti.
E se quelle I dell’Alta vOIta toscano nemmen come mezze lettere vai considerando, ma come voci di più in più attenuate; ecco spiccante l’Ata vOta del napoletano dialetto.
E i Napoletani del pari che i Toscani tramutano la L in R. E ci piace dallo stesso illustre gramatico trarre questi esempi: Esempro, G. Villani, Livio M, Maesro Aldobrandino. Asembro, G. Villani, Pistole di Seneca, Giudice Albergano. Compressione (complessione ), tuttavia G. Villani, Giudice Àlbertrano. Affligge (affligge), anche G. Villani, Pistole di Seneca. Obrianza, sempre G. Villani, Ammaestramento degli antichi. Semprice, altresì G. Villani, Maestro Aldobrandino, Vita di Gesù Cristo. E Obbligato… Fragello… Nigrigenza… Sopperire…. E basti cosi.
Nulla diremmo su la F se dell’analogia di questo sibilo labiale con la sibilante palatina S il nostro dialetto non ci offrisse occasione di estendere anche più il novero delle lettere che a buon diritto addimandar si dovrebbero semivocali.
Ogni qualvolta s’incontra quell’articolazione che i Latini esprimevano per FL e nel comune italico si tramuta in Fi, dal volgo di Napoli non altrimenti si pronunzia se non come se dicesse SCI. Intanto non è precisamente uno SCI, e lo Scoppa credè ben fatto esprimerlo per XI, e dal Cortese sino al Pagano fu renduto per SHI.
Cosi si ha
da | FLamma | si ha | Fiamma | SCIamma |
FLato | Fiato | SCiato | ||
FLocco | Fiocco | SCIocco | ||
FLore | Fiore | SCIore | ||
FLumine | Fiume | SCIummo |
si noti in quest’ultima parola l’attenuazione della desinenza, quasi da Fiumane, con la M doppia nel napoletano ad espressione della N svanita nell’ingentilirsi dall’antico linguaggio.
Togliete l’aspirazione alla F, ed abbiamo P. Intanto l’articolazione da’ Latini espressa per PL e che nella favella nobile suona PI i nostri volgari pronunziar non sanno, e dicono CHI schiacciato.
Così
da | PLaga | si ha | Piaga, | CHIaia |
PLumbo | Piombo | CHIummo | ||
PLatea | Piazza | CHIazza | ||
PLuere | Piovere | CHIovere |
E in CHI schiacciato da tutti gl’Italici si risolve quell’articolazione che i Latini notavano per CL: come da CLAro, CHIaro, da CLAve, CHIave; da CLauso (o CLuso come gli antichi dicevano), CHiuso, ec.
Ma questo CHI schiacciato che in bocca di tutti gl’Italici cisappennini si rinviene, donde provenne? Da quell’italico C appunto del quale faticosissima per non dire impossibile ad alcuni popoli è la profferenza: testimonio il noto aneddotto per distinguere i forestieri da’ nazionali ne’ celebri vespri della Sicilia insolare.
E perché quella sì bella parte de’ domini del nostro RE or Sicilia or Cicilia, quando avventata ed oscillante ancora era l’italica ortografia, variamente scrivessi? E fistio stiena, stiavo pronunziarsi e scriversi da volgari nel Vallo d’Arno, quel che nel dir gentile va scritto e pronunziato fischio, schiena, schiavo? A queste interrogazioni sarà agevole il rispondere quando avrem veduto le varie industrie ortografiche da’ Francesi, dagl’Inglesi e da’ Tedeschi adoperate per accostarsi, senza mai giugnervi, a notare la profferenza del nostro C che un sol tocco e gentilissimo tocco articolare riputiamo, scrivendolo nelle per noi ispidissime forme di tsh, tch, tsch, stsh, stch, stsch. E non maraviglieremo se nella morbidissima pronunzia ellenica troviamo al cominciar d’una sillaba certe articolazioni espresse con lettere aggiogate in modo che assai dure per noi sembrano, e quasi impronunziabili, come:
ec.
E forse a quelle apparenti durezze dovremmo scendere ancor noi se ortograficamente a notar ci facessimo il nostro SB, SC, SF, SG, SM; perciocché, dovendosi per vezzo del dialetto pronunziare la S quando precede una di quelle cinque lettere non già seccamente sibilante ma mollemente strisciante, come lo scin ebreo, come lo ch francese, come se in somma esprimer si dovesse quell’articolazione che nel comune italico rendono le due lettere SC avanti l’E e l’I, e strisciando connetterle in un solo suono con quelle mute consonanti, con le quali si accoppiano; ad un ispido accozzamento di lettere ben saremmo obbligati. Ed un esempio ne abbiamo nell’ortografia adottata da uno de’ no6tri scrittori, il quale credè indispensabile scrivere SCPasso, SCBracciato, ec. V. nel Vocabolario Piano (Mattia del).
E qui non taceremo che dai nostri Abruzzesi con inversa vicenda pronunziasi la S come scin solo innanzi alle dentali.
Pe’ quali fatti, che potrebbero ben moltiplicarsi, non maraviglieremo se gli antichi grama tiri anche la X tra le semivocali registrassero. È dessa una lettera, dicesi nelle scuole, doppia, e il suo nome è icchesi, e componesi di CS o GS. Ma non ci si dice che i Romani, adottando quel greco carattere, il quale nella patria natia avea ben altro che l’ispida profferenza dell’icchesi, non con le C e G gutturali univano la sibilante, caratteristica per essi di tutti i loro nominativi maschili; e che costantemente negli altri casi sciogliendo le C e G da quella sibilante per seguire il loro sistema lessigrafico nella inflessione degli altri casi; nelle sole C e G palatino-linguali le scioglievano. Non ci si dice, che, astrazion fatta dal romano vallone (nel qual solo le PL, CL, ec. per gli altri romani idiomi se non impronunciabili, almeno di spiacevole e dura profferenza), fu sempre la X addolcita: e tra noi trasformata o nella grecizzante X veneziana, o nello SCI dolcemente attenuato della Sicilia insolare e di tante altre italiche regioni, non escluso il Vallo d’Arno: o nello SCI alquanto più aspirato de’ Casigliani e de’ Portoghesi: o in aspirazione mera gutturale alla sibilante aggiogala in modo da potersi rendere ortograficamente con una o due S.
Se di nuovi caratteri da aggiugnersi al nostro alfabeto sentesi comunemente il bisogno; spiccantissimo si mostra per le varie profferenze delle sibilanti S e Z: pel nostro napolitano dialetto specialmente, non che per altre italiche profferenze, dopo le acute ma giustissime osservazioni del sagacissimo Salvia ti, al quale per altro anche mancò l’avvertire che per l’italiano alfabeto era indispensabile lo scin. Lo Scoppa pel napoletano credè supplirvi come abbiamo cennato, appunto con la X; e scrisse xaccato, xarra, xuliare quel che ora scriviamo sciaccato, sciarpa; sciuliare. Il Cortese scrisse Shiore, Shiato ciò che ora scriviamo sciore, sciato. Questi valentuomini seguivano nella loro ortografia le ragioni etimologiche piuttosto che la vera profferenza; pure alla vera profferenza con bella industria ingegnosamente si accostavano. —Ma basti il fin qui detto su le semivocali.
LETTERE MUTE
Torniamo ai Salviati. Per le varie profferenze della Z egli avrebbe desiderato quattro elementi. Di due soli sentiva il Trissino il bisogno; e da lui non dissenti poscia il Buonmattei. Intanto, ne’ bisogni di averne intera la profferenza, questi elementi ben troviamo nel solo alfabeto degli Arabi:
sin, scin, sain, ssad, dsad, Dal, Dhal, Tda, Thda, Te, The; ai quali elementi, che in combinazione e nella introduzione di parole da linguaggio a linguaggio tutte più o meno spiccatamente in sibilanti si risolvono, se aggiungeremo le sibilazioni della sola uccellisona lingua britanica, ad un numero opprimente ghigneremmo. Nella volubilità dei moti. linguali per tutta l’estensione interna dell’organo stomoideo, dal gorgozzule ai denti, appena gli estremi notar potremo con prerisione e dichiarare inflessibili, come il tocco gutturale ed il dentale; ma dalle gutturali battute nella radice della lingua, come Ca e Ga, insensibile è il passaggio in ragione di profferenza sino alle stesse lettere accoppiate colla terza classe delle vocali, o con la mezza vocale I dopo la H, schiacciate, o con la N, infrante. E perciò come semplice attenuazione della linguale L va considerata la G che le si fa precedere nelle articolazioni italiane che si esprimono con le lettere GLI; e come semplice rinforzo della J l’articolazione espressa con le lettere GHI schiacciate in tutti que’ casi ne’ quali per lessigrafia o per posizione una consonante vuol essere con più forte vibrazione pronunziata, e che per l’adottato sistema ortografico scrivesi doppia.
E perciò nelle altre labiali altresì il dialetto napoletano dall’una all’altra fa non di rado passaggio; e non solo per mera eufonia, quando l’ebbe, il piobbe cangia in appe e chioppe; ma, per le testé cennate ragioni di lessigrafia e di posizione, quando cangia la debole V nella robusta B tutte le volte che la pronunzia semplice vuol essere rafforzata.
Credè il Muratori che fosse costume pe’ Napoletani il cangiare costantemente la V in B; ed un verso riferiva di certo Tedesco:
Felices quibus vivere est libere.
Dovea dire il contrario. Nel dialetto napoletano la B è quella che si cangia in V; la quale, se trovasi poi nella orte vibrazione di B trasformata, ciò avviene per legge gramaticale del dialetto. Del quale l’attenuazione del tocco articolare forma la condizione caratteristica; e siccome la gentile G non gutturale trasforma costantemente nella tenue J, ambo tocchi lingualo palatini; del pari la sonora B nella V, debolissimo tocco labiale, costantemente rammorbidisce: non altrimenti, negli ultimi anni della civiltà greca, il secondo elemento dell’alfabeto vita denominavasi: ed è naturai cosa che poi per più robusta vibrazione quella vita in bita o beta si rafforzi, come appunto lo stesso addiviene della J, la quale per più forte vibrazione, accostar dovendosi la lingua più prossimamente al palato, in GHI schiaccialo si trasforma.
Non progrediremo più innanzi nell’analisi delle lettere, della notazione cioè ai quelle prime vibrazioni articolari delle quali l’umana voce ha bisogno per trasformare un grido vago in una prolazione sillabale espressiva di un pensiere o di un affetto. Lettera per lettera nel Vocabolario può rinvenirsene lo sviluppamento.
LE SILLABE
Oziose e di utili conseguenze infeconde non sono queste minute ricerche per chi della volubilità delle voci umane fissar voglia quelle determinabili prolazioni le quali passar possono nella scrittura. Si è ben detto che con qualunque moltiplicazione di lettere ed altri segni diacritici non si giugnerà mai a tutte poter esprimere le minute differenziali della pronunzia non sol di nazione a nazione, ma di luogo a luogo, ed anche d’individuo ad individuo. Ottimo adunque sarà quell’ortografico sistema che ad un certo limite si arresti: ed ottima fu l’industria de’ nostri maggiori che alle sedici lettere carmentali, che poi con attenuazione alla greca si dissero cadmee e con maggiore attenuazione alla italica casmee, pochissime altre ne andarono aggiugnendo. Ma intanto di quelle attenuazioni appunto è indispensabile la ricerca per la storia delle voci umane ridotte a scrittura, non solo come rappresentatrice del fonismo della parola, ma come enunciativa di pensieri e di affetti senza tema di equivoco comunicabili. E sotto tal riguardo, ben dalle lettere vocali era da instituirsene la disamina, non perché mere voci, ma perché voci con diverso tocco articolare, benché lievissimo, pronunziate, e perciò capaci di formare da per sé una parola bastantemente caratterizzata e distinguibile, e rendersi di un tal pensiere, di un tale affetto, da un altro tal pensiero, da un altro tale affetto, una espressione differenziata.
Ma di ulteriori differenze abbiam d’uopo; e le vocali altre ne sommistrano da sé sole, sia nella loro combinazione, sia nelle semplici condizioni dalle quali non può prescindersi di tempo, di tuono, di vibrazione più o meno spiccanti. La comprensione di tutte queste parti integranti di una voce è ciò che i gramatici dissero sillaba.
Ed una sillaba, una comprensione tutt’insieme di articolazione, di voce, di tempo, di vibrazione o tempra più o meno spiccatamente pronunziata, non mai alla unicità di quelle parti integranti della sillabazione si riduce. Fate oscillare una corda armonica, e la prolungazione decrescente di quel tuono medesimo ascolterete: e nella emissione della voce umana sempre mai quella progressione decrescente non manca. Perciò i popoli rozzi, e conseguentemente le antiche scritture, sillabe precisamente monocrone e monotone non hanno, ed invece di A dicono e scrivono AE; FUE in vece di FU; e così vie via. Ma quell’AE, quello UE ben può considerarsi in una sola comprensione di tempo, in una sillaba sola. Ed ecco il dittongo.
11 quale non già nella sola voce, ma nell’articolazione altresì vuol essere considerato. Per quella J più o meno spiccante, per quella lieve articolazione della V che vi si unisce, vuol riguardarsi come un polittongo articolare; e nell’esempio a disegno per noi scelto, l’iniziativa quasi presentasi di un polittongo articolare, non esprimendo altro la F se non la fusione del tocco aspirante con la forte labiale in un sol carattere espresso: carattere di tarda data che i due primitivi caratteri comprende P, H; e quasi doppia aspirazione che digamma eolico fu dapprima denominato, riguardo alla figura; ma in sostanza lieve tocco del Ãáììá gutturale che fluisce nella sua profferenza toccando le labra, e con quella V si confonde per la quale sentì Claudio il bisogno di un nuovo carattere per l’alfabeto latino e con la doppia Ã, quasi F rovesciata,, volle espresso.
Per queste medesime considerazioni dai dittonghi ai trittonghi si fa passaggio, sia di voci, sia di articolazioni, con un solo o più d’un carattere esibite, ed in una sola comprensione, in una sola sillaba pronunciabili. Ed è da notarsi che dittongo alcuno non v’abbia del quale una delle vocali più attenuate I o U, che il Salviati a ragione denominava mezze lettere, non faccia parte.
Ma dalle condizioni, come dicevamo, non si può prescindere altresì di tempo e di tuono: condizioni che i graffiatici enunciarono con le parole di quantità’ e di accanto. I moderni ideologisti queste condizioni van riguardando ne’ soli rapporti tra sillaba e sillaba, mentre importantissimo è l’esame da instituirsene in una sola comprensione, in una sillaba sola.
LA QUANTITÀ E L’ACCENTO
Due sole condizioni nelle sillabe riguardo alla quantità li antichi gramatici distinguevano, quella di lunga e di breve: e tre soli accenti, il grave, l’acuto, il circonflesso. Perché quest’ultimo? dicono i moderni ideologi.
» Dal momento che il tuono, siccome ogni altra qualità, cangia in un suono, esso non è più il medesimo: e infatti gliene succede un altro, cioè gli succede un’altra sillaba fisica la quale aneli’ essa ha la sua articolazione, la sua voce e la sua durata, cose che tutte debbono essere specificate». Tracv. Ma qui non trattasi di sillaba fisica, ma gramaticale: e che voglia intendersi l’ideologo francese per sillaba fisica io non comprendo.
Come inopportune a me sembrano quelle cinque notazioni di tempo oltre alla sceva la quale per altro può venire anch’essa sempre di più in più ad abbreviarsi: e per quelle abbreviazioni di tempo precisamente la ragion degli acmi e dei gravi tuoni è stabilita e calcolata. Sono ormai nozioni trite e volgari che dalle 32 alle 16384 vibrazioni in un minuto secondo dal più grave al più acuto tuono si ascende in ragion musica valutabili, senza tener computo delle più lente oscillazioni che un rumor cupo ed invalutabile costituiscono come le più rapide uno stridore acutissimo fischiarne. Eppure, anche quel rumore, quelle strida, possono far parte della voce umana parlante: e, il ripetiamo, della voce umana in ragione di gramatica, non nella voce umana in ragion musica dobbiamo occuparci.
E bastano in ragion gramaticale le due sole condizioni di tempo e di tuono che gli antichi ponevano: pel primo, di lunghezza e brevità; pel secondo di acuto o grave accento: idee convertibili, e perciò con un solo seguo diacritico nell’italica ortografia espresso, e il quale per buona ragione non accento tonico ma bensì accento metrico venir dovrebbe denominato.
E qui non sembra inopportuno il ricordo della differenza che il bealo Agostino poneva tra la prosodia delle scuole e la prosodia della natura: la qual differenza darà ragione del perché molte sillabe che già furono lunghe or come brevi van pronunziale, e viceversa lunghe alcune altre che come brevi nell’artifiziato sistema delle scuole si stabilivano; del perché due o più sillabe antiche in una sola or si raggruppino, ed una sillaba breve non venga più inflessibilmente come a metà di una sillaba lunga a considerarsi. Brevità e lunghezza nella emissione della voce umana son parole prive di significato se quello non contengano altresì di più tenue o di più vibrata prolazione; e la parola accento negli odierni idiomi non altro che una profferenza esprime di maggiore vivacità al paragone delle altre. E tal forse n’era il vero concetto anche presso gli antichi per condizione necessaria de’ nostri organi della parola.
Due tempi, due tuoni, e sempre disuguali, in qualunque emissione della voce umana voglion considerarsi, quantunque fisicamente e musicalmente disuguali non sieno; e ciò dalla più semplice alla più complicata, dalla monosillabica alla sesquipedale, ed in tutte quante le combinazioni di essa, sempre mai alle ragioni dell’arsi e della tesi aggiogata: vale a dire, sia che una sola parola, sia che più parole, sia che più come, Aia che più versi comprenda l’espressione di un pensièro, d’un affetto, con emissione di voce più o meno complicata; si avranno sempre due condizioni valutabili per durata e per vigore, e sempre l’una ali’ altra subordinata, sempre l’una dall’altra diversa per energia di profferenza.
Per le quali considerazioni la ragion metrica si ristabilisce nell’italian verseggiare che comunemente vien riputato sillabico. E ci è grato rinvenire anche su di ciò nell’acutissimo Salviati analogia di pensieri.
» Tanti dittongi, ei disse, se l’uso della lingua posti gli avesse in opera, nel volgar nostro si possono pronunziare, quanti de’ suoni delle vocali fieno gli accoppiamenti, che a quarantanove aggiungono, s’io non sono ingannato… Ma che vero sia ciò che io dico di tanto numero di dittongi, può ciascuno accertarsene per se medesimo ne’ versi de7 poeti per entro alla parola, dove vedrà, che ad ogni suono di vocale un altro suono di altra vocale si può aggiugnere, senza che delle sillabe si venga a crescere il novero. E abbiam detto per entro alla parola: perciocché quelli che per dittongi tra voce a voce dal Trissino sono proposti, dittongi, per mio avviso, non son da riputare, posciaché in una sillaba non si pronunziano, come al dittongo è richiesto. Ma comporta la natura del nostro verso, quantunque d’undici sillabe, quanto alla regola, la sua misura sia, quasi per entro il suo corpo, il trascorso delle vocali, in guisa che dicendo:
Voi che ascoltate in rime sparse il suono,
non solamente non si pronunzia.
Vo’ ch’ascoltate ‘n rime sparse ‘l suono;
ma non è vero che il voi in una sillaba si raccolga, come alcuni hanno detto: ed a cui caglia di chiarirsene, pruovi a mandarlo fuori con ogni maggior lentezza in due sillabe, e mandatolo, fermisi eziandio con la voce, e faccia una lunga posa, e altrettanto adoperi nell’ascoltate in, e nello sparse il, e vedrà che non pure il suon del verso danno non patisce, ma ne divien migliore e più robusto e più bello».
L’applicazione di questi principi è da vedersi nel Vocabolario alle parole Quantità’, Accento, Versificazione, Periodo. Quello che ora importa al nostro scopo è l’osservare:
1.° Che con tante modificazioni che ricever può la voce umana nella sua più o meno complicata comprensione in una o più sillabe, si ha quanto basta per costituire un segno fonico enunciativo di pensieri e di affetti anche nelle più lievi minutezze differenziati;
2.° Che un sistema alfabetico qualunque sempre considerar dobbiamo come mera tachigrafia; e che nessuna industria ortografica provveder può ad esattamente esprimere la vera pronunzia del tale o tale altro popolo nella volubilità de’ dialetti, anche moltiplicando i tanti segni diacritici della vecchia e della nuova masora.
3.° Che conseguentemente, di nulla alterando il sistema ortografico adottato per la lingua nobile d’Italia, ad esprimere le differenze foniche del nostro dialetto è più che sufficiente l’ortografica industria adoperata dal Cortese, dal Capasso, dal Lombardi: con le sole avvertenze che la S avanti alle lettere mute, escluse le dentali, vuol pronunziarsi come uno scin; che nelle sillabe brevi, e mollo più nella fine delle parole, le vocali addivengono alquanto oscurette, e, non di rado nell’ultimo caso, precisamente una sceva; e che l’accento prosodiaco, ai modo latino, i Napoletani non protraggono al di là dell’antipenultima sillaba.
LESSIGRAFIA E SINTASSI
Dall’esame instituito sinora abbiasi veduto come mai le voci umane venir possano ad esser significative non di sole passioni o volontà vagamente enunciate, ma rendersi abili altresì, nella combinazione dalle varie articolazioni e modificazioni della voce, a variare notabilmente l’una dal1 altra profferenza in modo che, nelle sue numerosissime ma ben diffinite varietà, enuuciative si rendano delle più minute manifestazioni de’ pensieri e degli affetti umani. Or dalla possibilità ai fatti.
Quando l’acre ingegno del nostro Vico una lingua ideale eterna iva rintracciando alla quale tutte le umane lingue, antiche e nuove, si adagiassero; quella generosa strada rompea primiero che modernamente i più acuti ingegni della nostra età con piii o meno felice buona riuscita van calcando e ricalcando. Da prima lo studio delle lingue era opera, quasi direbbesi, di pedagogico dogmatismo: ora affrontar tali studi non è dato se non con tutta la forza dell’analisi alla vastità sublimata delle più sottili speculazioni. Ma tutta quest’opera dell’intelletto, che soltanto per novità di nomenclatura addivenir può astrusa e disamabile, è la più agevole, la più naturale, la più spontanea delle opere umane. La scienza del linguaggio da’ più rozzi popoli è con tanta felicità posseduta; tanta sublimità ed armonia di metodo, tanta industria e finezza di pensieri nel sistema gramaticale de’ più agresti parlari si rinviene: che i più acuti filosofi il più diffidi problema sempremai riputarono delle loro speculazioni quello di metterlo in accordo con la rozzezza e grossolanità de’ popoli che pur si dicouo di questo o di quel tale altro linguaggio inventori; e il loro stupore diminuir tentano, ora più antichi sapientissimi popoli fantasticando che dei volgari idiomi a que’ rozzi ed inesperti esser potessero in segna tori; ed ora, da insegnato » ad insegnato» sempreppiù addietro invan procedendo, nella necessità si quetano al fine di pur proclamare il primo tipo di qualunque linguaggio come miracol divino.
E al certo divin miracolo è quello che ci fa vedere nella più tenera età tutto ciò che forma la più sottile metafisica del linguaggio da’ più teneri fanciullini fra pochi anni nella lingua della nutrice simmetrizzato.
Or qual è questo amorevole modo che insegna ai teneri fanciullini il materno linguaggio? — Con troppa leggerezza si è detto esser l’uomo animai mero imitativo. No: egli è assai più di quel che si pensi e inventivo e ragionatore. La stessa ripugnanza che i fanciulli dimostrano nel seguire un insegnamento che sol si riduce a far loro apprendere una filza di parole cui legar non possono una distinta idea, quella stessa ripugnanza è il più valido argomento che l’intelligenza, suprema forza regolatrice di tutte le opere umane, con più o meno di energia sibbene, ma in ogn’istante della vita non manca giammai di esercitare il suo potere. La autrice indica al fanciullo un’azione, un obbietto; e poi dà loro il nome: e non avverrà giammai che la parola la quale il ricordo esprime di quell’azione o di quell’obbietto venga dal fanciullo dimenticata o invertita, comeché soventemente ad obbietti ed azioni analoghe la trasporti. Quindi è costante che, nella precision vera de’ significati, parlare e ragionare son la cosa medesima. Ma quel ragionamento esser non può da prima se non vagamente e nella sua generalità interpetrato. Quando divien determinabile e speciale, allora il parlare incomincia. Seguiamo la genesi di queste determinazioni: e tutta la teorica dell’umano linguaggio verrà spontanea a mostrarsi. a Distinguono i grammatici le parole in variabili ed invariabili; e quelle poi in declinabili ed in coniugabili: son declinabili i nomi, essi dicono, e coniugabili i verbi: invariabili le preposizioni, gli avverbi, ec. Noi tutte variabili le rinverremo, almeno per accidenti armonici di profferenza; e coniugazione poi rinverremo in tutte le parole polissilabe, e nelle monosillabe altresì non di rado inflessione, non già per mero eufemismo, ma non di rado per accidenti dilucidativi di significanza. Intanto, nel nostro proposito di non dipartirci dalla nomenclatura de’ gramatici antichi, seguiremo per lo sviluppameli to di questi nostri pensieri la serie da essi data delle varie parti dell1 orazione, permettendoci solo invertirne l’ordinamento.
PARTI DELL’ORAZIONE
INTERPOSTI. Delle primitive espressioni della voce umana di pensieri e di affetti vagamente enunciati, un residuo rimane in ciò che i gramatici chiamano interposti. E in molti di questi benanche i gridi primitivi si conservano e quel mormorar primitivo che il balbettar compongono e il gridacchiar degli individui e de’ popoli fanciulli. Ecco perché dagl’interposti incominciamo. Ma non intendiamo con ciò concorrere ne’ pensieri de’ recenti ideologisti; e non sembra che ben si apponesse chi volle definirlo essere l’interposto quella parola la quale esprime una proposizione compiuta. Perciocché, una proposizione ben compiuta esprimono le parole amo, leggo, seggo: e non sono interposti.
E a nostro credere, non sembra ben detto che gl’interposti non danno veruna regola di costruzione e di sintassi. Sono molto bene nella costruzione e nella sintassi di tutto il genere umano questi o altri modi simili: Ahimè ahi di te! ahi la coscia! E in quell’ahi v’ha l’espressione, sebben vaga, di una sensazion dolorosa nel suo generale e primordiale concetto, da potersi poi limitare ed attribuire ad alcune persone, ad alcuna parte di una persona, e ricevere vievia tutte quante le modificazioni possibili che ad un linguaggio è dato di somministrare ne’ diversi stadi del suo incivilimento.
E quelle limitazioni, quelle modificazioni non altrove che in alcune altre interiezioni si rinvengono che alle prime interiezioni si £congiungono, e che, sia isolatamente, sia fuse tra loro, tante parole significative vengono a comporre, le quali poi con certo metodo ordinate, un discorso esprimono agevolmente comunicabile ed intelligibile da uomo ad uomo.
Che importa adunque ciò che intender dobbiamo per una interiezione? Non altro che l’espressione di essere una persona o un soggetto qualunque nel tale o tale altro stato di passione, della quale sarà poi da limitarsi e definirsi il suggetto che il soffre, e poi tutte le altre circostanze di luogo, di tempo, e di modalità qualunque, con più o meno innoltrata analisi….
Ma la principal determinazione da farsi sta in quella di stabilire qual sia quel suggetto, quale la persona cui quel tale o tale altro stato attribuir si deggia.
PERSONE. E tre sono in tutti i linguaggi umani i suggetti,. le persone cui qualunque modificazione di essere nel tale o tale altro stato si attribuisce: 1.° la persona che parla, 2.° la persona alla quale si parla, 3.° la persona o la cosa di chi o ai che si parla: nomi primordiali ed eminentemente sostantivi in tutti gli umani linguaggi. Anzi unici sostantivi veri, de’ quali tutte le altre parole che diconsi nomi a mere più o meno ampie modificazioni sono da riferirsi. E l’inerenza di tali sostantivilà è tanto necessaria in una parola per esser nome» quanto necessaria è l’inerenza del sostantivo essere in una parola per esser verbo, come sarem per vedere.
E queste tre persone, sono le tre prime sostantività del discorso che PRENOMI direi non pronomi, come da’ nostri antichi vennero denominate. E ciò per la loro preeminenza e precedenza, nella genesi de’ pensieri, a qualunque altra determinazione di subbietto od obbietto al quale ai nome può darsi la significanza.
Naon è dell’attuale argomento l’andar viemaggiormente intrattenendoci su queste idee e tutta disvilupparne la teorica. Ma un cenno, a nostro avviso, non era da trascurarne per dar ragione del perché ne’ moderni idiomi, mentre delle declinazioni per casi manca la consuetudine, i pronomi se l’abbiano per designare con una parola sola il loro essere nelle condizioni di subbietto di abbietto, di rapporto in un’azione passione qualunque dalla interiezione (come da noi diffinita) ovvero sia da un tema di verbo designata. E ne avremmo anche fatto a meno se ci fosse noto che ne avesse altri sinora instituito ricerca.
NOMI. Ma perché gl Italici declinazione pei nomi non hanno? Sia un antico gramatico dilucidatore de7nostri pensieri.
» Le inflessioni possibili di ogni parola primigenia, dicea Varrone, sono nel dir latino intorno alle cinquecento: e questo novero potrebbe pur crescere al decuplo, al centuplo, all’infinito, se di tutti quegli affissi terrem cómputo quali al principio aggiungonsi delle parole. Utile e necessaria cosa fu al certo l’introdurre nel discorso le inflessioni: perciocché senza quegli amminicoli che danno tante diverse signifìcanze ad una voce primigenia, né tutte le parole che infinite pur sorgono in una favella avrem potuto rattenere, né delle rattenute le relazioni discernere e le dipendenze. Ma non ogni voce di tutte quelle cinquecento inflessioni è fornita: ché alcuna di esse porta col nascere originaria sterilezza, ed altra esser dee, secondo la varia indole dell’idioma al qual si appartiene, più o meno feconda. Chepperò diversa, e inegualmente copiosa esser dovea la guisa d’infletter le voci alla greca, alla latina ed alla ‘vernacola. Pertanto ottimo riputar si vuole quel gramaticale andamento, che ha lucide regole e brevi. E P infletter delle voci piii da natura che da arte si compone. Fa pur d’introdurre vocaboli nuovi: essi non cangeranno l’indole del linguaggio; il popolo darà loro tutte le inflessioni che potran ricevere, e cittadini diverranno. E noi veggiamo che de’ servi nuovamente introdotti in numerosa famiglia se fai conoscere il nome, comunque esso sia strano, già su le labbra di tutti quanti i conservi, con le inflessioni di consuetudine, il vedrai propagato. E se fallan talora, non è da far le maraviglie: forse i primi trovatori delle voci fallavano. Tenace è il”£opolo nelle sue antiche consuetudini di favella: e i nuovi ardimenti de’ poeti non lo sviano dal suo costante andamento. Si cerchi pure nella storia il nascimento e l’introduzione delle voci straniere: ma non si abbandonino le inchieste su i modi natii del linguaggio che quelle voci nuove adagiar fanno al sistema eterno delle analogie dal quale il popolo non si discosta giammai. » Cosi ragionava quel sagace: e i vari tratti che qui riuniti ne offrimmo alla meditazione de’ nostri leggitori, ci serabran bastanti a tutta comprendere la teorica dell’umano linguaggio ne’ diversi ordinamenti gramaticali che i vari popoli adottarono.
Dal vago delle prime enunciazioni di pensieri e di affetti non può giugnersi ad una determinazione senza che si vadano di mano in mano apgiugnendo altri segni, altre enunciazioni, altre parole in somma che nel progresso de’ linguaggi disviluppati si diranno aggettivi, si diranno particelle, si diranno inflessioni; ma che in origine non altro che tanti nomi esser doveano con un altro nome aggiogati. Stabiliti appena questi nomi differenziali, e determinati questi necessari amminicoli il linguaggio è formato, e co’ suoi caratteri specifici un gramaticale andamento procede. Altro non rimane che accrescerne il glossàrio.
E se lucide regole e brevi aver dee, per essere ottimo, un gramaticale andamento; a che que’ cinque casi de’ Greci, a che que’ sei casi de’ Latini? E prescindendo che, nella gran classe de’ nomi neutri, al bisogno di distinguere il subbietto dall’obbietto dell’azion del verbo non provvedevano; non di rado, nelle desinenze de’ casi di rapporto, inflessioni simili si adoperavano per esprimere idee diverse non solo ma opposte. Erano adunque quelle desinenze un lusso per dir così, una vana pompa del linguaggio: e conseguentemente i volgari adottar non le doveano. Ed adottar dico non conservare: perciocché nel sesto caso appunto, nel caso delle preposizioni, e sempre vocalizzante, per testimonio dello stesso Varrone le condizioni consistevano di tutti quanti i nomi dell’italico linguaggio. E tutta quanta la lessigrafia e conseguentemente la sintassi de’ popoli italici nelle coniugazioni si stabiliscono, vai dire in quelle particelle significative che ai verbi si congiungono ed ai nomi, e che tanto a proposito da Varrone denominavansi amminicoli del linguaggio.
Le quali particelle furon da prima parole intere, interiezioni nel senso da noi diffinite, per vievia andar manifestando e più o meno specificamente distinguendo il vario stato, le varie passioni o azioni, le varie apparenze delle tre personalità sostantive alle quali quello stato, quelle azioni, quelle passioni, que1 fenomeni sono da rapportarsi.
Si è detto molto a proposito avvenir delle parole come delle monete, le quali quanto più sono in uso e corrón frequenti nel commercio tanto più quell’impronta vengono a perdere che nell’uscir dalla zecca le Iacea spiccatamente distinguere. Ma v’ha dippiù. Nelle monete ‘rimane tuttavia la qualità del metallo da contraddistinguersi, la quantità del fino, il peso, e sempre qualche traccia dell’impronta; ma nelle parole la significanza di una inflessione, a una desinenza o d’un affisso in un elemento è da cercarsi talmente attenuato che non di rado ad una lettera, ad una maggiore o minor forza nel profferirla, al semplice spostamento dall’accento prosodiaco si riduce. Così appo i Greci bastò per caratteristica della designazione de’ tempi, nel loro complicato sistema della coniugazione de’ verbi, aspirar nel passato, sibilar futuro.
Ma prima d’innoltrarci alla speciale disamina di queste attenuate parole che in segni declinativi e coniugativi si trasformarono., è d’importanza determinare quelle condizioni di subordinazione e di legame senza le quali esser non vi può ordinamento, sintassi, nell’uman favellare.
L’ATTIVO E IL PASSIVO
Allorché l’antesignano della scuola Lochiana la sua sensiente statua al solo organo dell’odorato limitava, ed accostantola all’atmosfera odorosa di un fiore facea che sciamasse: Io odor di rosa; per la buona via nelle ricerche ideologiche si drizzava, ma il suo scopo non raggiunse. Non Io odor di rosa, ma IO dir può un essere pensante limitato alla sua prima sensazione: e alla seconda, non altro che io il qual sento, in relazione dell’io il qual sentiva.
La qual seconda sensazione ben della prima riproduce l’idea, ma dallo stato di attività a stato di passività trasformata: perciocché dell’io che allor sente, dell’io attivo, subbietto della sensazione, essere allora non può quell’io che sentiva se non un obbietto di paragone.
Ed in ciò e non altro è la sintassi., l’ordinamento necessario di tutti i linguaggi de’ figliuoli di Adamo. E non so comprendere come i filosofi del secolo decimottavo da questa ingenita condizione dell’uman genere ricedevano; e come, e mentre per essi tutto all’intorno della mente umana operava, questa sola a passività mera ridur volessero. Alla seconda sensazione, già può la mente nostra rentrar con sé stessa a parlamento, e la seconda persona alla quale i suoi pensieri rivolge spiccatamente si mostra; ed alla quale, a vicenda, la qualificazione di ’ attività può trasportare e la passività a sé stessa.
Ma se più oltre procede, non altro che di una terza sostantività può sorgere l’idea, e questa terza persona che il compimento a formar viene di un’azione qualunque, d’un qualunque pensiere, è quel massimo agente che ne’ linguaggi primitivi il tema determina di tutte le parole, e che del mondo fenomeno la più o meno complessiva immagine racchiude e la più o meno specificata determinazione, in tutte le grama ti che, in tutti i sistemi possibili di segni comunicativi.
Questa tripla personificazione, e non altra, la prima, la imprescindibile condizione a stabilir viene dell’umano linguaggio, e l’inerenza conseguentemente d’una specifica inflessione delle parole eminentemente significative di una nostra qualunque idea. Nella quale tripla personalità è l’inerenza del verbo essere, a buon diritto denominato verbo sostantivo, il quale inerente con quella tripla personalità si rimane in tutte le forme verbali, a buon diritto da1 nostri antichi denominate coniugazioni. E però nel solo verbo è il necessario legame di ogni umano discorso: tutte le altre parole a mere semplicissime modificazioni ulteriori vanno a riferirsi.
TEORICA. DEL VERBO
Molte idee la forma del verbo in una parola sola racchiude; ed è strano che i più perspicaci sieno incorsi nel difetto di non tutte andarle ravvisando, e molto più di non averne andato subordinando progressivamente l’importanza.
Con una stessa parola tre distinti attributi ha il verbo; 1.° di determinare una certa qualità di essere una persona o un obbietto qualunque f nel tale o tale altro stato; 2.° di esservi nel tale o tale altro tempo; 3.° di esservi o la persona che parla, o la persona a cui si parla, o la persona o altra cosa della quale o di che si parla.
Ma queste tre considerazioni non sono speciali ed esclusive dal verbo: perciocché al primo ufizio adempir possono tutti gli adiettivi; al secondo gli adiettivi stessi in alcuni sistemi di linguaggio; ed al terzo i prenomi personali. Sarebbe egli mai che nella sola riunione di questi tre requisiti consistesse la natura del verbo? Ma qualunque verbo al modo infinito manca del secondo e del terzo. Or perché mai i verbi al modo infinito non si confondono con gli aggettivi?—L’essenza, la caratteristica speciale del verbo è conseguentemente in quella qualità che gli aggettivi non hanno, nel formare cioè l’affermativa dell’esistenza, e il legame del discorso.
Per la qual cosa qualunque verbo si risolve nella comprensione tutt’intera delle seguenti idee:
1.° Affermazione di una esistenza;
2.° Indicazione di una esistenza nel tale o tale altro modo modificata;
3.° Indicazione di quella tale esistenza e di quella tale modificazione ne’ rapporti di tempo ed anche talora di spazio;
4.0 E modificazione in fine di tutto ciò nelle relazioni di chi parla, di chi ascolta, e della persona o della cosa su la quale o su di che il discorso si versa.
Noi abbiam notato tutte le considerazioni che in una espressione del verbo possono riunirsi; ma è agevole il vedere che non tutte queste qualità si riuniscono sempre in qualunque espressione del verbo. Le abbiam notate nella subordinazione d’importanza che hanno, e di che andar possono di mano in mano a sceverarsi, finché alla sola prima si riduca; la quale sola se venisse a mancare, la parola cesserebbe affatto di poter essere riputata come verbo.
E però, siccome nel concetto di qualunque parola, per divenir nome, includer si dee il concetto di sostantività di una delle tre personalità eminentemente sostantive ed uniche vere sostantive; cosi dal comprendere nel verbo l’inerenza del sostantivo essere non si può prescindere.
Dopo le quali considerazioni, non si cerchi che qui da noi si vadano raggruppando le varie nozioni di fatto che del sistema di espressione nelle varie lingue intorno a ciascuno de’ sopra classificati attributi del verbo ci fanno accorti. Assistiamo all’amorosa industria della nutrice per venire a parlamento col suo bambino; e limitandoci a quel tipo italico che tutte le lingue romane adottarono; semplicissima delle condizioni del verbo apparir vedremo la teorica, e spontanee le differenze si mostreranno che nelle inflessioni verbali dal comune aulico linguaggio il nostro dialetto caratterizzano} per sole condizioni di pronunzia determinate.
GLI ÀMMINICOLI DEL LINGUAGGIO
Per lungo tempo il colloquio infantile sarà un misto di cenni e monosillabi: ma in que’ cenni vi sarà la comprensiva tutta intera e P espressione del verbo che primitivo ne’ bambini è volere. E però il primo modo verbale non altro esser può se non quello che nelle scuole si denomina imperativo e che in tutti i linguaggi in espressione monosillabica si rinviene o a’ monosillabi inchinante.
Ma quella volontà aver dee uno scopo, un obbietto: come indicarlo? Ed ecco che il bambino sporge l’indice della sua manina: e lo scopo, l’obbietto del suo desiderio manifesta. Così scorge 1’articolo precedente e qualunque nome; originario e primordiale segno comunicativo ai tutti i linguaggi, ed unico indispensabil mezzo per dare un nome agli obbietti.
Torniamo al contillachiàno Io odor di rosa Indubitatamente quella statua sensiente non sarà affetta dalla sensazione di odor di giacinto; ma quella sensazione di odor di rosa, comunque dalia rosa occasionata, per trasformarsi in prima idea e divenire un segno rammentativo, dal tutto insieme del suo sentire la mente umana può trarlo e dal sentimento di piacere o di dispiacere sarà caratterizzato; e se un nome vuol dargli, dirà un nome qualunque; ma il qual dica: Io piacevole o dispiacevole odore: ed anche più genericamente io bene, io male. Queste parole che poi si diranno astratte, son le primitive e direttamente formate.
In gruppo, e non altrimenti sorgono i concetti umani; e quel gruppo di concetti render non si possono comunicabili se non con quelle vaghe ed indeterminate espressioni che la poetica costituiscono di tutti i linguaggi primitivi. Di qui tutta la ragion de’ traslati. V. nel Vocabolario questa voce. E di qui la vera analisi delle varie parti dell’orazione, e il loro ordinamento, la loro sintassi.
Tornino il bambino e la nutrice a parlamento: — Voglio, — Che vuoi? — Là… No… là… più là… più qua… Così e non altrimenti un bambino si esprime. Sarà diverso da idioma ad idioma il fonismo delle parole: ma il concetto sarà sempre lo stesso: ma sempre saranno quelle parole le prime ad appararsi.
E se dalla semplicità delle coniugazioni l’antichità dei linguaggi desumer si volesse; antichissime dobbiamo riputar quelle lingue nelle quali troviamo tre sole notazioni stabilirsi per la distinzione de’ tempi, il passato, il presente, il futuro: e un solo movimento pel presente e pel futuro dal passato, d’onde il tema del verbo: perciocché, dare un nome non si può ad un’azione, ad un obbietto imporlo, se prima nel passato non siasene determinata l’idea. Avrà i numeri duali, quanti appunto ne bisognano tra i due che concorrono a formarsi un linguaggio, un sistema comunicativo di pensieri e di affetti nella tale o tale altra maniera. E per mezzo di affissi e terminazioni non solo le tre distinzioni personali vorrà esprimere, ma nelle prime e seconde persone il mascolino dal femminile distinguere, ed alle sole condizioni di attività, di passività e d’intransitività non restarsi, ma le qualità comprendervi altresì di luogo e di strumento.
Tutte queste cose ben connetter si possono nella infanzia del linguaggio degl’individui e delle nazioni. E non altrimenti nel linguaggio infantile tra la nutrice e il suo bambino succede. Tutte le parole son generiche: qualunque cibo è pappa: qualunque bevanda è Lobo; qualunque cosa che piaccia o che dispaccia, è una bella, una brutta cosa. E ben disse il Vico quando disse che in questa sola parola cosa è tutto intero il vocabolario dell’infanzia degl’individui e de’ popoli. Sintetizzante nasce ogni umano linguaggio: vengono assai tardi le analisi.
E non sembra regolare quel procedere analitico che tutto il discorso umano vorrebbe far consistere nell’espressione di un’esistenza che si afferma negli obbietti esteriori, ed in relazione quasi esclusiva degli obbietti reali del mondo fisico. Tutta l’opera interna dell’intelletto e del cuore è ciò che forma l’essenzial parte della favella; e tutti gli oggetti esterni altro rappresentar non possono nel discorso se non occasioni di connettere il mondo fenomeno colle leggi invariabili della intelligenza e della volontà secondo le norme che l’Eterno prescrisse per qualunque operazione de’ figliuoli di Adamo. Ecco perché tutti gli umani linguaggi nel loro gramatical procedere presentano analogia non solo, ma identità. Ed ecco perché in tutta la verità della espressione fece l’Alighieri che quel primo padre dicesse;
Opera naturale è ch’uom favella; intanto con tutta verità faceagli poscia soggiugnere:
Ma così 0 così natura lascia.
Poi fare a voi siccome che vi abbella.
Le forme gramaticali, tutta la sintassi del discorso, sono necessaria cosa e da natura fluente; è poi umana cosa e variabile che le parole rappresentative di quelle forme vadan diversificando da popolo a popolo.
Ma se legge del pensiero è ravvisar gli oggetti nelle condizioni di tempo e. di spazio; di connessione o isolamento; e nell’imprescindibile legame di cagioni e di effetto, e conseguentemente di possibilità, di similitudine o dissimilitudine: e tuttociò nelle considerazioni di maggioranza o minoranza più o meno ravvicinate; è legge altresì del cuore determinare la volontà pel bello o pel buono; di espandere il proprio essere, con generoso desiderio di connettere col proprio l’altrui bene, e di rimuovere da sé e da’ suoi tutto ciò che render si possa cagione di odio e di spregio.
Tutte queste condizioni in quelle particelle si rinvengono, le quali sia per affissi, sia per desinenze, sia anche per parole distaccate, in preposizioni, avverbi, congiunzioni, desinenze significative si cangiano nel dottrinale andamento delle scuole, e parti subordinate dell’orazione vengon considerate, mentre al contrario non altrimenti che principali e primarie determinazioni considerar si vogliono, e, come tanto a proposito le denominò Varròne, veri amminicoli del linguaggio. Quando di tali amminicoli si possiede l’integrità; il linguaggio è formato: altro non rimane se non la nomenclatura: e questa non è più opera di gramatica ed appartiene tutta intera al glossario.
Ora, prescindendo dagl’idiomi troppo da noi lontani, se la maggior parte di tali amminicoli è fusa quasi nelle lingue romane; nelle germaniche ne appaiono evidentissime le commessure: ed affatto isolati si mostrano nella lingua inglese, nella quale quasi tatti il loro significato intiero ne presentano. Son pregevoli gli antichi linguaggi per quelle industriose fusioni; ma nella disviluppata civiltà, come far che una parola sola tanti elementi contenga per quante diverse significanze esprimer si vorrebbero? Quegli affissi, quelle desinenze di più in più sempre mai si andranno a contrarre, e a trasformarsi in quelle erose monete che non hanno più corso: e però limitar sen dee quanto più ristrettamente sen possa la circolazione. Ed ecco il complicato schema degli antichi verbi greci, ai meri bisogni ricondotto nel greco moderno: ecco lo schema latino negli odierni romapi idiomi a semplicità prodigiosissima armonizzato. La quale semplicità non apporremo a difetto: non diremo per quella men lucide ed efficaci le odierne loquele. Nella semplicità della lessigrafia inglese armonizzava un Newton un Dryden i più sublimi concepimenti dell’intelletto, le più soavi emozioni del cuore.
Ma dall’altro canto, quella simmetrica disposizione delle parole, quel ritmico andamento, quella musica del linguaggio che tanto più si mostra quanto più sono men culle e disviluppate le loquele, certe giunte e sottrazioni e permutazioni nelle parole introdusse le quali a mera insignificante prolazione si riducono, e non di rado a certe lussureggianti sillabazioni che molto a proposito ripieni i nostri gramatici denominarono. Non son questi da considerarsi tra que’ varroniani amminicoli del linguaggio in ragione di significanza, ma semplicemente in ragione di mera eufonia; e per ciò che riguarda differenze tra il comun linguaggio e il dialetto napoletano e gli altri italici dialetti, gli esempi ne abbiam raccolto agli articoli AFERESI, SINCOPE, APOCOPE, PROTESI, EPENTESI, PARAGOGE, E METASTESI, ché se in tali eufoniche diminuzioni ed aumenti e spostamenti articolari tutta le ragioni si determinano delle anomalie che nelle coniugazioni do verbi il dialetto presenta, ed in tutte le desinenze lessigrafiche de’ nomi e delle altre particelle significative che il dir napoletano compongono; per doppia cagione dobbiam di esse più studiosamente occuparci, onde tutti insieme diffinirne l’individua caratterisca, e spianar la via onde più agevolmente ricondurlo alla nobiltà di quell’aulico linguaggio del quale ben può dirsi l’origin prima e dal quale tanto poco e per sole condizioni di profferenza si discosta. Perciocché, cóme sarem per vedere, se mai facciasi astrazione dalle varie industrie ortografiche in vari tempi adottate per esprimere con la scrittura quelle minute diversità di suoni che qua e là si ascoltano ‘iiel profferire articolazioni similari; non solo tanta diversità di dialetti verranno a disparire, ma un modulo comune verrà quasi spontaneo a presentarsi cui tutti i dialetti adagiar si potrebbero.
Giunti a questo termine della nostra analisi, parrebbe che tutto ciò che credevamo premettere al nostro Vocabolario, per quel che importa pronunzia, ortografia, lessigrafia e sintassi, bastar potesse, rimettendone lo sviluppamento alle parole gramatica li nel Vocabolario inserite, tanto maggiormente perché ci abbiam fatta la legge di esibirle come appunto comunemente si adoperano ne’ rudimenti. Nulla di meno el sembra pur d’uopo che dalle generiche riflessioni a qualche cosa di speciale si discenda. Ma per ciò fare con minor dispendio di parole, vengano i soli fatti a presentarsi: e ben pare che non più pel già corso e ricorso campo delle generalità ci convenga tuttavia raggirarci.
BELLA FORMA MATERIALE DEL DIALETTO NAPOLETANO
Dà quegli amminicoli varroniani della favella è d’importanza iniziare la nostra ricerca; e lo stesso Varrone, il qual ci fece testimonio della esistenza di una lingua vernacola contemporanea al greco ed al latino, venga egli stesso insegnatore della caratteristica differenziale di quel ch’ei disse vernacolo linguaggio.
» Le fondamenta delle analogie, diceva egli, o dalla volontà degli uomini, o dalla natura delle parole si a voglion ripetere, o dall’una e dall’altra cosa insieme. E volontà dico essere la imposizione delle voci; natura, la declinazione alla quale senza dottrina si discorre… E con tale industria dai retti casi gli obliqui dagli obliqui i retti, e dai singolari le moltitudini e dalle moltitudini i singolari non di rado ricuperar si possono. Quella via pertanto precipuamente è da seguirsi nella quale n sia fondamento da natura; ché là, nelle declinazioni, ii la ragione è più trita. Perciocché di leggieri si scorge ii potersi andare in fallo viemaggiormente in quelle imposizioni che per lo più nei retti casi singolari si fanno da imperiti uomini e dispersi i quali parole impongono i alle cose comunque non ragionata volontà invitolli. Natura però e di ordinario per sé fluente quando non sia che ignoranza di consuetudine la depravi. Per la qual cosa se nei naturali casi piuttosto che negl’impositivi il principio di analogia si riponga parecchie cose nelle consuetudini si chiariranno, e quasi da natura le inconsiderate volontà dell’uomo verran corrette, non da queste quella; chepperò per la mala strada si rivolgono quei che a seguire imprendono le imposizioni. E dai singolari avviandosi, dal SESTO CASO convien prendere le mosse, perocché quello è caso proprio: E I LATINI ALTRO CASO NON HANNO. Conosciute che avrai quelle differenze delle lettere, più facilmente la varietà delle altre apparar potrai; perii ciocche quelle differenze alle uscite si riducono o in A come ab hac terra; o in E, come ab hoc lance; o in I, come ab hoc levi; o in O, come ab hoc caelo; ii ovvero in V, come ab hoc versu. Per lo che, a chiarir le declinazioni, questa una strada te ne dà due.»
Quella cioè del latin letterato e del latino vernacolo.
Che un tal latino vernacolo sia quel medesimo che ne’ ludi istrionici e negli esodi atellani faceva la delizia del popolo romano anche ne’ più bei giorni di sua floridezza vedremo in appresso. Per ora basti averne ravvisato la caratteristica in quel caso eminentemente latino che i Greci non ebbero, che si disse e fu caso delle preposizioni con le quali all’uffizio di tutti gli altri casi si suppliva, e che indifferentemente anche dagli elegantissimi scrittori nel dir letterato si adoperava, come nella sua acroasi il dotto Ciampi fece dimostrazione nel proposito di provare che almeno dal sesto secolo della nostra Era la lingua italiana fosse già bell’e formata. Ma con le trascritte parole di Vairone, non so come da altri non avvertite, l’esistenza dell’italico idioma vuol ritrarsi ad epoca più assai lontana. Ed in fatti, riducete al caso delle preposizioni il latin letterato; e l’italiano sorgerà tutto intero senza que’ contorcimenti che il dotto scrittoi’ pisano andava con somma dottrina ed ingegno proponendo.
Or la condizione di conchiudere ogni parola con una vocale, si estende nel dialetto napoletano ad ogni sillaba, come abbiam cennato di già, e come andrem vedendo vie via. il che vieppiù si dimostra nel giuoco delle particelle, e nel sistema lessigrafico de’ verbi.
Del quale, a legge della profferenza napoletana, è come segue lo schema.