Bella, fidanzata, sana, ma un po’ timida: chiede l’eutanasia
Kelly è giovane, ha un fidanzato, è bella e sana: ma dice di non piacersi e di essere timida. Per questo chiede l’eutanasia. Il Belgio è spaccato su un caso che svela le bugie sull’eutanasia, mentre i numeri della dolce morte si impennano: oltre 2300 decessi nel 2018. Una volta che un Paese accetta l’idea che talune vite non siano degne di essere vissute, la morte si manifesta per l’influencer che è, con le «vite indegne» che crescono continuamente di numero.
– LA LETTERA/ A FLORES D’ARCAIS: NESSUNO VUOLE LA MORTE, di Marco Berchi
Ha appena 23 anni. E’ fisicamente sana, carina, ha il suo giro di amici e anche un fidanzato, Bregt. I giornalisti che l’hanno incontrata riferiscono di un «sorriso accattivante che, ogni tanto, le compare sul viso». Ciò nonostante desidera morire, e nel modo più sconvolgente: con l’iniezione letale. Parliamo di Kelly, una giovane belga del tutto simile ai 50.000 studenti che affollano la vivace città di Lovanio, sede della più grande università del Paese; ma a differenza di altri lei vuole appunto morire. Per motivi psichiatrici.
Più precisamente, il suo problema è che non si piace: «Quando mi guardo allo specchio, vedo un mostro. Davvero, non mi piace ciò che vedo». Una situazione per descrivere la quale il Daily Mail ha parlato di «crippling shyness», «paralizzante timidezza». Per questa ragione adesso, a pochi giorni dal suo ultimo compleanno, conta di andarsene. Una richiesta che non è detto sia accolta dato che oggi nel pur individualista Belgio molti psichiatri – e la maggior parte degli stessi cittadini – si oppone all’estensione della «dolce morte» a chi ha problemi psicologici. Una contrarietà motivata forse dal fatto che i devastanti effetti della legislazione eutanasica iniziano a farsi sentire. Anche solo sotto un profilo meramente numerico.
Lo testimoniano, implacabili, i numeri: i primi 235 casi di «dolce morte» del 2003 sono lievitati ad oltre 1.000 già nel 2011, in meno di dieci anni, per poi salire fino agli oltre 2350 del 2018. Non solo. Uno studio pubblicato nel marzo 2015 su The New England Journal of Medicine, basato sui dati del 2013, ha messo in evidenza come solo quell’anno più di 1.000 persone siano decedute con procedure di morte assistita mai richieste in precedenza. E non mancano fatti singoli molto inquietanti. Basti pensare a Godelieva De Troyer, uccisa nell’aprile 2012, a 65 anni, dal dottor Wim Distelmans solo perché depressa e senza neppure che i figli della donna ne fossero informati.
Tutto questo deve aver scosso la comunità belga, che adesso è spiazzata dalla richiesta della giovane Kelly, la quale non sta prendendo affatto bene tanta indecisione: «Mi sembra una discriminazione e mi fa arrabbiare. E’ semplicemente ingiusto». La determinazione della giovane a voler morire è tale che i genitori, la sorella gemella e il fratellino hanno appreso di questa sua volontà di morte solo pochi giorni fa, quando la notizia ha iniziato a circolare. In attesa di capire quali sviluppi avrà la vicenda, qualche considerazione sorge spontanea.
Anzitutto perché il caso di Kelly ne ricorda uno simile avvenuto a fine maggio di quest’anno: quello di Noa Pothoven, la diciassettenne olandese che, pur sana, ha ottenuto il permesso di lasciarsi morire perché segnata da tre stupri. Ora, possibile che tra i giovani europei – quelli istruiti, sani e intelligenti, che del Vecchio Continente rappresentano presente e futuro – inizi a radicarsi una simile, lucida tendenza autodistruttiva? Come si spiega? Da dove nasce un simile rifiuto della vita? E’ quanto meno doveroso chiederselo.
Allo stesso modo, anche se nessuno vuole minimizzare i problemi che può avere una giovane come questa ragazza belga – già reduce da ricoveri ospedalieri, tentativi di suicidio, disturbi alimentari, atti di autolesionismo -, è impossibile non registrare nella sua richiesta di morte l’ennesima conferma della cultura mortifera generata dall’eutanasia di Stato.
Non può difatti essere un caso il fatto che Pothoven e Kelly provengano rispettivamente dal primo e dal secondo Paese del mondo ad aver legalizzato la «dolce morte». Il legame è evidente: una volta che un Paese accetta l’idea che talune vite non siano degne di essere vissute, la morte si manifesta per l’influencer che è, con le «vite indegne» che crescono continuamente di numero. Non solo. Nella misura in cui lo Stato accetta l’eutanasia ma fissa parametri clinici senza i quali non si può morire, non regolamenta: discrimina. Su questo Kelly ha perfettamente ragione. Sta però a noi farle capire che il vero problema non è chi non le consente di morire, ma una cultura necrofila che ha dimenticato quanto la vita sia bella anche quando sembra brutta. E quanto, nonostante tutto, sia bello lottare.
Giuliano Guzzo