CARRELLADA DI “EROI” CAP: VII
Durante la discesa delle orde nordiste per invadere proditoriamente le nostre terre, una parte dei centoventimila soldati, cioè una colonna mobile comprendente due reggimenti di fanteria, squadroni di cavalleria con tutti gli altri servizi necessari alla vita dei militari, al comando del generale Ferdinando Pinelli, fu la prima a violare i nostri confini dalla parte dell’Abruzzo.
Essendo armato di tutto punto, l’altezzoso generale era convinto che oltrepassare i confini, chiaramente con intenzioni ostili, fosse una semplice passeggiata e che la popolazione locale, alla vista di un esercito con al seguito artiglieria leggera e pesante, corresse rapidamente in chiesa per far suonare le campane a festa o che mandasse avanti la banda del paese per accoglierlo a suon di fanfara. Quali non furono, invece, la sorpresa e l’umiliazione allorché dall’alto pastori e contadini, armati solo di sassi, mortificarono la superbia del grande condottiero con una gragnuola di pietre che andavano tutte a segno a motivo della dimestichezza e del continuo allenamento che costoro avevano col tipo di proiettili. Ovviamente la sassaiola non poteva avere lo stesso effetto di colpi sparati da un’arma da fuoco, ma, umiliando la boria del presuntuoso “duce”, ne inasprì ulteriormente l’animo già incline alla violenza e al sopruso. Fu per questo motivo che, appena entrato nel capoluogo, decretò lo stato d’assedio ed emanò un’ ordinanza con la quale, in poche righe e in appena tre articoli, alla popolazione fu tolta ogni libertà e concessa solo la libertà di respirare. Bastava uno sguardo di disprezzo verso il ritratto di un re che nessuno conosceva, che nessuno aveva chiamato e che nessuno amava per finire nelle grinfie di un’ improvvisata corte marziale e uscirne poco dopo per essere fucilato. Durante la permanenza in Abruzzo, un giorno il Pinelli ebbe occasione di recarsi a Pizzoli. Memore, però, della sassaiola che l’aveva accolto all’ingresso, il generale si fece accompagnare da un battaglione e due cannoni.
Come narra uno dei primi ricercatori “revisionisti”[1], il generale, entrando in paese “fucilò a capriccio”[2], poi alloggiò nella casa di tale Alessandro Cicchitelli, ove ovviamente non si accontentò a pranzo di pane e noci; di pane e formaggio o di pane e cipolle. Consumato il pranzo nonché notevole quantità di vino, dato che era un convinto bevitore, si ritirò a riposare. Al mattino, nell’accingersi a lasciare la casa, per ringraziare dell’accoglienza ricevuta, nel giardino retrostante, fece fucilare l’ospite alla presenza della di lui moglie.
DAL DIARIO DEL GARIBALDINO E POI BERSAGLIERE SABAUDO G. FERRARIO
Nel paese di Rossano <<vi erano carceri grandissime nelle quali rinchiudevano i manutengoli e i conniventi dei briganti. Due o tre volte al mese giungevano colonne di persone state arrestate dalle pattuglie volanti. Nei paesi o nei casolari; eranvi anche donne scapigliate coi pargoli al petto, preti, frati, ragazzi, vecchi, i quali tutti prima di passare nelle carceri, venivano ricoverati provvisoriamente nei locali vuoti del Quartiere e su poca paglia, piantonati da sentinelle, per essere poi interrogati al mattino successivo dal Pretore, dal Maresciallo e dal mio Capitano . Queste colonne di venti o trenta persone ciascuna, la maggior parte pezzenti e macilenti, facevano compassione a chi aveva un po’ di cuore; li vedevo sofferenti per la fame, per la sete, per la stanchezza di un viaggio a piedi di 40 – 50 chilometri. Venivano sferzati dai Carabinieri e dai soldati di scorta, se stentavano camminare per i dolori ai piedi, od anche se si fermavano per i bisogni e si insudiciavano per evitare bastonate, tutti questi incriminati, alcuni dei quali innocenti. E le donne specialmente>>. Quando, dopo una “passeggiata” del genere li imprigionavano << … venivano slegati per dar loro riposo, ma per compenso si torturavano coi ferri, detti pollici,[3] che i Carabinieri ed i Sergenti in specie stringevano fino a far uscire il sangue dalle unghie. Poteva io assistere a tali supplizi senza sentire pietà! Tosto allontanati i carnefici, io allentava loro i ferri colle mie chiavi, e quei disgraziati riconoscenti, piangevano, baciando i lembi della mia tunica, persino gli stivali. Prima dell’alba, li rimetteva al supplizio come erano stati lasciati. Scene poi da vera inquisizione succedevano dopo, allorquando venivano interrogati i rei nelle loro celle, io fungeva da segretario e da teste, il Capitano ed il Maresciallo dei Carabinieri da giudici; questi volevano sapere il rifugio, il nascondiglio ed i nomi dei briganti che essi favorivano, ed alle loro risposte negative erano bastonate sulla testa che ricevevano. Da far grondare sangue>>. (in CARNEFICI di Pino Aprile Ed. Pickwick 2021 pagg. 17-18)
Ecco come si portano libertà e civiltà a chi ne ha bisogno. Documentatevi e vedrete che, relativamente alla storia della nostra martoriata terra, troverete molte similitudini con un altro momento storico, il 1799, quando con gli stessi metodi, facendo violare i confini della propria patria da un esercito straniero, si pretese di portare ordine, fratellanza e uguaglianza a chi non aveva avanzata alcuna richiesta.
DA UNA LETTERA DI ANTONIO CATTANEO, UFFICIALE SABAUDO, AI PROPRI AMICI
<< … Vi posso assicurare che qualche vendetta la facemmo anche noi, fucilando quanti capitavano, anzi il giorno 23 (settembre 1866) condotti fuori porta circa 80 arrestati colle armi alla mano il giorno prima, si posero in un fosso e ci si fece fuoco addosso finché bastò per ucciderli tutti … In una chiesa, entrato un ufficiale alcuni soldati che visti due frati che suonavano a stormo li fucilò con le corde in mano. Davanti alla Vicaria, uno speziale che rifiutò di far qualche cosa a un ferito, fu fucilato alla sua porta, e lo stesso giorno essendo stato fatto prigioniero un mascalzone che per cinque notti m’aveva tenuto desto pel suo grido “all’erta sentinella”, ed essendo stato tradotto nelle carceri, io voleva fucilarlo, ma essendo in mano al potere giudiziario, mi accontentai di strappare una carabina di mano a un guardiano,e, messo l’assassino tra me e il capo guardiano, ci demmo tante calciate di fucile nei fianchi, tanti pugni e tanti e poi tanti schiaffi che fu per forza portato in prigione finché non stava più ritto.>> (CARNEFICI, pagg. 350-351)
IL PASTORELLO PUGLIESE – Dal resoconto di Angiolo De Witt
Nel corso di un pattugliamento tra le campagne e i rilievi della Capitanata per snidare i briganti dai loro rifugi, l’ufficiale piemontese Angiolo De Witt scorge da lontano una figura che potrebbe essere assimilata in tutto alla “piccola vedetta lombarda” di deamicisiana memoria e che sarebbe potuta essere ricordata dalla storia come la “piccola vedetta pugliese”. La figura, a causa della lontananza, non è chiaramente distinguibile. Ma dato che ormai nelle nostre terre, appoggiati dalle armi, i piemontesi la facevano da padroni, l’ufficiale dà ordine a cinque dei suoi soldati di andare a catturare quella persona e condurla al suo cospetto, escludendo a priori che quest’ultima potesse non essere d’accordo. Ormai la libertà delle proprie azioni, nel vituperato e “tirannico” regime che si era venuti ad abbattere, era un lontano ricordo.
Una volta al suo cospetto, l’ufficiale ha modo di notare che si tratta di un giovane pastore e gli chiede le ragioni di quel suo gesticolare all’avvistamento della pattuglia. Vuole sapere a chi erano diretti quei segnali e cosa volessero significare. Dato che nella zona operava la banda di Nunzio … l’ufficiale ne deduce che il pastorello avesse voluto avvisare quest’ultimo circa l’ arrivo della pattuglia e quindi non poteva che essere o un brigante lui stesso o un manutengolo … e riunisce subito il tribunale, in cui i suoi sottoposti erano testimoni e pubblica accusa, per decidere della sorte del pastorello.
Qualunque tentativo dovessimo mettere in atto per suscitare commozione nei lettori o per descrivere l’ atrocità e la crudeltà dei protagonisti non riuscirebbe ad eguagliare il ribrezzo suscitato dal racconto dello stesso autore del delitto. Ecco le sue parole, affidate addirittura ad un trattato storico – politico: <<Quel pastorello di appena diciassette anni, era vestito di pelle di agnello, come usano i pastori delle Puglie ed aveva in mano un piffero di legno, col quale richiamava a sé le sue caprette, aveva dei lunghi capelli neri, ed una fisionomia chiusa ed arcigna, sicché indicava ferocia superiore alla sua età … Non vi era dubbio, costui era, o una spia, o un brigante, o forse un affiliato segreto della banda di Nunzio, questa idea fu condivisa da tutti i miei soldati, perloché credetti di non commettere cosa indoverosa nello stramazzarlo al suolo con un colpo della mia sciabola che gli aprì il cranio e lo lasciò ivi più morto che vivo.>> (da Storia politico – militare del brigantaggio nelle Provincie Meridionali d’Italia di Angiolo De Wiit)
MEMORIA DEL TENENTE CESARE AUGUSTO BRACCI
INV.34/Bracci 30 luglio 1861- << Pattugliando da 6 ore con un forte caldo arrivammo nei campi di Casalduni e qui scorgendo un cafone nella campagna decisi di far riposo sfruttando quel momento. Afferratolo per il collo gli intimai di dirci chi nel suo paese fosse contrario alla nuova Italia. Guardando fisso nel basso non pronunciava alcunché bensì ansimava. Ed allora gli ordinai di urlare viva Vittorio Emanuele. Ma niente. Poi afferrata la pala gli ordinai di scavarsene la fossa e questi quasi a compiacersene si diede a farlo di gran lena. Finito il lavoro il sergente Bertacchi ridendo di cuore lo fece entrare nello sterrato ed il disgraziato eseguì e prese a pregare come se stesse per finire di li a qualche momento la sua esistenza. Poi fu ricoperto con la terra fino al mento e con sassi e massi intorno e sopra la testa. Solo in quel momento, con poca voce ripeteva quanto prima gli era stato comandato. Allora il sergente gli disse di essere libero e di andarsene ma con le sue forze. Fu un gran ridere per tutti ed il cafone starà ancora là ad invocare il nostro amatissimo sovrano ed a cercare di uscire dalla sua tomba>>. (Fonte sudindipendente.it)
L’episodio relativo alla sorte del Bracci è riportato pure dal De Witt alle pagine 43 – 44 dell’opera citata, dove l’ autore si scandalizza per la reazione di quel “popolaccio” e di quella “inferocita plebaglia, che al grido di viva Francesco secondo aveva lì per lì sposato la causa dei briganti”. Giusto scandalizzarsi, secondo la visione dell’ufficiale piemontese, perché se un soldato di Sua Maestà Vittorio uccide un cafone, sotterra vivo un povero Cristo, si esercita al tiro al piccione con le persone che incontra lungo il cammino certamente lo fa per “civilizzare”. E questo è il motivo per cui è stata emanata anche una legge proprio per legalizzare queste azioni. Ma se un cafone osa ribellarsi e la sua reazione ha come conseguenza la morte di uno o più soldati sabaudi, il fatto acquista una risonanza planetaria ed esige un castigo esemplare.
IL CAPITANO CREMA. IL MATAMOROS DALLA FRUSTA FACILE
Nello stesso trattato storico-militare del De Witt molte pagine sono dedicate alla feroce e arrogante figura di un altro ufficiale, sedicente civile e civilizzatore, che, come molti suoi altri colleghi, sapeva assumere atteggiamento autoritario e violento solo nei riguardi di persone inermi, contro le quali, come un intercalare, era solito rivolgersi a suon di scudisciate, malignamente dirette sempre sul viso, in modo da sfregiare o mutilare i malcapitati che avevano la sventura di non interpretare subito e inequivocabilmente i “desiderata” del grande condottiero. Lo stesso De Witt, collega del Crema, non può evitare di definire “dittatoria” la direzione della compagnia affidata al Crema.
Ecco alcune azioni gloriose del nostro.
A Colletorto, per mancanza di caserme, la compagnia di fanteria composta da sessanta militari di bassa forza e tre ufficiali, fu accasermata nella chiesa parrocchiale. <<Il capitano Crema comandante quella compagnia, meno cortese di un capobrigante (pag.75)>> si rivolge al canonico Tommaso Aliprandi, ordinandogli di sgombrare gli altari poiché questi dovevano essere adibiti all’uso di scrittoi. Al che il povero curato, ritenendo sicuramente di fare cosa gradita, dice al capitano che se gli concede pochi minuti gli procurerà addirittura una vera scrivania. Gli desse solo il tempo di provvedere! Il Crema rispose che non era venuto a Colletorto per fare il comodo di un prete e, aperto il ciborio, si impadronisce della pisside per gettarla lontana con tutte le ostie. Al che, al grido di”lascia stare Cristo”, don Tommaso afferra il capitano per la barba e lo allontana dall’altare. Inutile dire in che condizioni fu ridotto il canonico e che fine fece la pisside con il suo contenuto. La notizia dell’accaduto si sparse subito per il paese e per i dintorni. Il suono delle campane avvisò i paesani che era accaduto qualcosa di brutto, così, ognuno con l’attrezzo della propria attività, si precipitò minacciosamente verso la chiesa per fare giustizia. E qui rifulge tutta la codardia del grande condottiero che, nonostante potesse contare su sessanta militari armati di armi sicuramente più efficaci dei bastoni o delle roncole, rimase senza voce dalla paura e non riuscì a trovare nemmeno la forza << bastevole per proferire il comando avanti >> , tanto che un suo luogotenente (Carlo Patriarchi) gli chiese il permesso di prendere il comando della compagnia. (76)
Approssimandosi ad entrare nel paese di Castelciprano ordina ai suoi quattro trombettieri di suonare un inno patriottico per annunciare – novello Alessandro Magno – il suo ingresso. Deluso e contrariato dalla scarsa attenzione prestata alla sua trovata, comincia a prendere a frustate le prime persone che gli capitano a tiro. Il primo a sperimentare la “civiltà” del Capitano è il bidello municipale che era venuto a consegnargli i biglietti su cui erano riportati i luoghi destinati agli alloggi degli ufficiali e della truppa. Occupata la piazza del paese, ordina che i componenti della guardia nazionale si presentino subito a rapporto. Constatata la scarsa risposta, ordina a quattro militari di svellere i paletti di recinzione da qualunque campo e con quelli andare di casa in casa e prendere a randellate tutti coloro nella cui abitazione venissero rinvenuti i fucili che li indicavano come componenti della guardia nazionale.
Il titolare del locale bar, che era anche sergente della guardia nazionale, si era permesso (ma guarda un po’ quante libertà si prendono questi cafoni!) di chiudere il bar alla solita ora, ma quest’ora non andava bene ai “comodi” del capitano e della truppa. Per di più non si era presentato a rapporto. Allora il capitano cosa fa? Fa forzare la serratura del bar e … sorpresa, all’interno vi trova il sergente che stava giocando a carte con un amico. Inutile dire che il malcapitato fu subito preso a frustate ed inutile precisare la parte del corpo preferita dal grande condottiero. Le frustate date sul viso del sergente della guardia nazionale << … e quel suo brusco modo di malmenare la gente fu cagione che dopo due o tre giorni venisse richiamato a Campobasso e messo agli arresti per eccesso di misure repressive>> (pag. 226)
Al Crema fu ordinato dal proprio superiore (Colonnello Galletti) di dar la caccia ai briganti. << Simile consegna data al Capitano Crema, comandante la nostra compagnia, valeva lo stesso che invitare (come suol dirsi) la lepre a correre; onde egli, che nei mesi allora decorsi, aveva terrorizzato su quelle popolazioni a segno tale, che dovette essere più volte richiamato all’ordine dal colonnello, non capiva più nella pelle per aver riavuto l’autorità e il mezzo di frustare ben bene chiunque avesse avuto il nome o l’apparenza di reazionario … Non so dire quanto valesse come uomo di coraggio individuale; il lettore, dal fatto di Colletorto può facilmente arguire che di quello ne aveva poco>> (ibidem pag.214)
Al posto del coraggio, però, il nostro (abitudine comune a molti dei nostri generali) aveva una smisurata vanità, per raccontare la quale ricorriamo ancora alla descrizione del De Witt: <<In onta al regolamento esigeva quattro ordinanze per solo suo uso, delle quali due erano destinate al di lui servizio personale, una per il suo cavallotto morello, a cui aveva dato il nome di Solferino, e la quarta aveva l’incarico di governare la sua animalesca famiglia, composta di cani, gatti, agnelli, cinghialotti, pappagalli, canarini, ed altri volatili.>>.
E sempre per il coraggio e la tracotanza riportiamo quest’ultimo ritratto:
<< … lungo le vie di Campobasso, per avere egli diretto parole poco convenienti alla graziosa sorella del duca F … fu mandato a sfidare da uno dei di lei fratelli, e che egli per tutta risposta gli fece sentire che se il giovane duca non ritirava la disfida, lo avrebbe fatto ammanettare dai suoi soldati, per poi farlo consegnare all’autorità politica come reazionario>> (ibidem pag.215)
Ecco. Questi sono i fatti d’arme di cui si gloriarono i nostri “liberatori”e che, su policromi nastrini, andarono a riempire di onore e di orgoglio i loro petti.
Da “CUORE … NAPOLITANO “ di
Castrese Lucio Schiano
[1] Carlo Alianello – La conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale – Rusconi Editore
[2] Questo” fucilare a capriccio” non è un’affermazione gratuita del ricercatore. E’ un modo di comportarsi che vedremo applicato “normalmente” nelle nostre terre per tutta la durata dell’invasione
[3] Di questi “pollici”, ai quali ovviamente non poteva ricorrere altri che il Capitano Crema, parla anche il De Witt nel suo “Storia del brigantaggio nelle Provincie dell’Italia Meridionale Ed. G.Coppini, 1884 Firenze, pag.217.