Alta Terra di Lavoro

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Pontelandolfo e Casalduni, i numeri della discordia. Controcanto al libro di Giancristiano Desideri.

Posted by on Ott 27, 2019

Pontelandolfo e Casalduni, i numeri della discordia.  Controcanto al libro di Giancristiano Desideri.

La porta (la verità), è da quasi due secoli sbarrata sugli accadimenti che portarono all’ unità d’Italia. Faticose “spallate” hanno cercato di aprire uno spiraglio (per la verità, appunto, già dalla prima ora; infatti furono molte le voci autorevoli che gridarono il loro sdegno, all’interno del neo costituito Parlamento italiano!), dal quale sfuggono lezzi nauseabondi, di crimini, soprusi, “AZZOPPAMENTI” economici di plurisecolare efficacia (Questione meridionale).

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1799: PROVE TECNICHE D’ANNESSIONE 1860: Unità d’Italia scontro tra Massonerie

Posted by on Giu 24, 2019

1799: PROVE TECNICHE D’ANNESSIONE  1860: Unità d’Italia scontro tra Massonerie

Fu una breve stagione, quella della “Primavera Napoletana”. 

Il termine “Rivoluzione”, giunse a Roma nel 1798, insieme alle truppe francesi.

S’insinuò nelle strade, tra i nobili palazzi di Napoli; deflagrando il 17 gennaio 1799.

I giacobini presero d’assalto il Castello di Sant’Elmo, che domina la città da un colle.

Il 21, con un Decreto del Generale Championnet, fu istituito un Governo Provvisorio; era nata ufficialmente, la Repubblica Napoletana.

Dal suddetto Castello, in quattro giorni, caddero sotto le palle di cannone, circa ottomila napoletani e “eroici Lazzari” come riconobbe lo stesso Championnet, ad opera di giacobini locali, e francesi.

Senza l’ausilio dei traditori locali, “il potente esercito francese, non avrebbe mai avuto la meglio, sulla resistenza popolare”, ammise Thiebault nelle sue “Memorie”.

Nel 1734 i Borbone erano diventati Re di Napoli, e avevano manifestato la ferma volontà di creare uno Stato autonomo, indipendente, improntato sui valori tradizionali, cristiani e popolari.

In breve, la Capitale del Regno divenne uno dei più importanti centri produttivi internazionali, grazie anche ai porti.

 La città, e il suo entroterra, erano in piena esplosione economica e demografica.

 Pregevoli fabbriche di tessuti e ceramiche (ancora oggi, esistenti!), di lavorazione delle corde e delle vele per la navigazione, ne decretarono la supremazia commerciale, e culturale a livello internazionale.

Sul destino del Regno di Napoli e in generale sull’Europa, però, spirava già il vento “illuminato” della Rivoluzione pronta a piantare “alberi della libertà” ovunque arrivasse.

La “Primavera Napoletana” arrivò, e piantò i suoi “alberi della libertà” in ogni piazza della Capitale.

Furono mesi febbrili, il “cittadino” sostituì il nobile, vennero promulgate leggi che garantivano le libertà individuali, i diritti feudali abrogati.

Per spezzare la resistenza del popolo napoletano che abbatteva in continuazione gli “alberi della libertà” (odiato simbolo di invasione e violenza), i francesi emanarono oltre 1500 sentenze capitali.

Una “Primavera” a tinte vermiglie.

Il Generale Thiebault si vantò che la “Campagna Napoletana” era costata la vita a oltre sessantamila napoletani, in cinque mesi di Repubblica.

La Rivoluzione del 1799 con tutta evidenza, dimostrò d’essere: anti cristiana, anti napoletana, anti borbonica.

La Repubblica ebbe vita breve; il 13 giugno il Cardinale Ruffo e la sua Armata Sanfedista, piombarono su Castel Sant’Elmo annientando l’ultima resistenza repubblicana.

A posto degli “alberi della libertà”, furono messe le forche, dalle quali penzolarono un centinaio di repubblichini, subito dopo il ritorno dei Borbone sul Trono.

Poco più tardi, al pennone della “Minerva” penzolava il corpo dell’ammiraglio Francesco Caracciolo, affiliato alla Loggia Massonica “Perfetta Unione”.

L’ ammiraglio, aveva tradito il suo Re, e la sua Nazione. Il codice militare penale, comminò la pena di morte.

Quell’estate furono eseguite altre sentenze di morte, a carico di: Gennaro Serra Duca di Cassano, Michele Natale Vescovo di Vico Equense, Domenico Cirillo; tutti Massoni, appartenenti alla Loggia “Officina Vittoria” di Napoli, ideatori della Repubblica.

I Moti che seguirono, e la stessa Unificazione, furono ideati, finanziati, e realizzati dalla Massoneria internazionale con l’avallo della Massoneria locale.

La storiografia ufficiale è scritta da coloro che sono usciti vincitori da quelle vicende.

I Massoni infatti, rivendicano con orgoglio di essere stati i padri della “Patria”.

Dal Massone Caracciolo, al Massone Garibaldi. I nemici restano gli stessi di allora.

1860: MASSONERIA E CHIESA

Accertato che, l’élite repubblicana napoletana fu ispirata dagli ideali massonici; di contro, il popolo per ripristinare lo status giuridico monarchico, costituì l’Esercito della Santa Fede, con a capo il calabrese Cardinale Ruffo Fabrizio.

La Massoneria incise (e incide) molto sul destino della Nazione; dalla Napoli e Milano settecentesca, fino all’unità d’Italia.

Un “attore” semisconosciuto (a torto, visto il ruolo decisivo) della Libera Muratoria italiana tale, Friederich Munter teologo luterano Massone di origine tedesca, affiliato all’Ordine degli Illuminati una società segreta fondata nel 1776 in Baviera, agì da agente segreto con il ruolo di “sobillatore”.

Si trattava di un’organizzazione massonica filo-rivoluzionaria segreta, propugnatrice di ideali politico-sociali estremisti, che promuovevano su scala internazionale, piani eversivi, finalizzati a rovesciare governi monarchici e le religioni, con l’obiettivo di instaurare un nuovo ordine internazionale.

Fu (anche) un conflitto tra Massoneria e Chiesa.

Nella seconda metà del settecento, era molto attiva la Massoneria napoletana, la più cospicua e vivace d’Italia; ebbe un ruolo di prim’ordine nel Regno di Ferdinando IV di Borbone (ereditato dal padre nel 1759). Nel 1768 il giovane sovrano sposò Maria Carolina d’Asburgo Lorena, proprio quando i Fratelli napoletani cominciavano a tradire gli ideali della Massoneria locale, cristiana e legittimista.

Gli stessi ideali che animavano Raimondo de’ Sangro, volti al miglioramento dell’individuo; progressi che avrebbero influenzato anche il Governo.

La Massoneria napoletana, si immischiò nella politica dando il via ad un laboratorio di idee per l’ammodernamento dei comparti statali, a modello delle massonerie straniere di Francia, Inghilterra, Olanda.    

Gaetano Filangieri, Francesco Mario Pagano, Francescantonio Grimaldi, si affiliarono alle varie Logge; pure la Regina si attorniò di uomini legati alla Massoneria, per arruolarli nella formazione di un partito di Corte filo-austriaco, al fine di estromettere dal Governo il Primo Ministro Bernardo Tanucci.

Friederich Munter morì nel 1830 durante i Moti Carbonari italiani; aveva guidato e assistito le evoluzioni della Massoneria napoletana e napoleonica, fino alla Restaurazione.

Recentemente, lo studioso napoletano Ruggiero Ferrara di Castiglione, professore universitario appartenente al Grande Oriente, ha donato alla biblioteca del GOI, tutto il carteggio di Munter con i Massoni del Sud Italia, che va dal 1786 al 1820.

Corrispondenza che testimonia la mutazione genetica ed ideologica, della Massoneria Napoletana, dimentica delle sue origini cristiane e legittimiste.

Dimentica, degli obiettivi di miglioramento spirituale e individuale, manifestati ed eternati dalla nobile pietra della Cappella di Sansevero, nel cuore di Napoli.

Foriera delle sciagure e del rovesciamento definitivo del Regno delle Due Sicilie 61 anni dopo (1799/1860).

Al netto, di tale argomentazioni, non è ardito concludere che ci fu uno scontro tra la Massoneria Repubblicana (internazionale) e la Massoneria Monarchica borbonica; con esiti letali per la seconda.

Si ringrazia per le fonti: Napoli Capitale Morale di Angelo Forgione (Magenes, 2017), Associazione culturale Neoborbonica.

Lucia Di Rubbio

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Storia della spedizione dell’ eminentissimo Cardinale D. Fabrizio Ruffo di Lucia Di Rubbio

Posted by on Feb 19, 2019

Storia della spedizione dell’ eminentissimo Cardinale D. Fabrizio Ruffo di Lucia Di Rubbio

Diario di guerra.

IL succitato libro è un vivido resoconto di una guerra santa, vinta all’ insegna della Fede e della Croce. 

Laddove non poté un esercito straniero, crudele, avido e ateo, riuscì un’ insegna bianca, e un motto: “In hoc signo vinces”; a capo, un geniale, coraggioso, visionario Cardinale, comandante di un esercito raccogliticcio, ed eterogeneo; ma fervente in amore per il proprio sovrano, la propria religione, la propria terra e identità. 

L’ esercito in oggetto, aveva un nome: “Esercito Sanfedista”, e due Patroni, uno più grande dell’ altro: Gesù e Sant’Antonio di Padova. 

Con premesse così, il risultato non poteva che essere uno: la vittoria!

I fatti narrati, a cui la storiografia ufficiale, non dà i reali meriti (così da proseguire la sua mendace, secolare narrazione), riguardano l’ eroica stagione, datata 13 Giugno 1799.

Il reporter di guerra Petromasi 

Ma chi è il narratore, e a che titolo parla?

Domenico Petromasi, medico siciliano, dalle indubbie capacità umane e professionali, ampiamente riconosciute dai dotti del suo tempo. Personaggio di notevole caratura, lasciò un’ impronta nella storia della sua città. Una figura interessante, che meriterebbe più lustro di quanto ne abbia. 

Aveva 33 anni, e si trovava a Messina a motivo della sua professione di medico. Erano i primi mesi del 1799, e il destino lo sospinse a risollevare le sorti del regno, insieme al Cardinale Ruffo e la sua Armata Sanfedista; della quale ne divenne il cronicista fedele, come un inviato di guerra ante litteram.  

L’ odio che provava per gli invasori, che il 20 gennaio 1799 ad Augusta avevano compiuto un massacro, l’ amata capitale Napoli invasa dalle truppe rivoluzionarie francesi, lo determinarono a gettar via il camice di medico, e indossare i panni di Commissario di guerra per le operazioni logistiche. Il suo amor patrio, il coraggio, e l’innata intraprendenza, gli tornarono utili nell’espletamento delle attività logistiche affidate. Inoltre, le sue preziosissime capacità di medico, diventarono determinanti, nel contribuire a portare alla vittoria un’ impresa che pareva impossibile. 

“L’ itinerario” opera letteraria e geografica di Antonino Cimbalo, funse da “scheletratura” per la ricostruzione accurata dei luoghi citati nei quaderni di guerra del Petromasi. 

Alla riconquista del Regno perduto.

1799: una stagione memorabile, affollata di personaggi indimenticabili. 

Un esercito che ingrossava le file, partendo dai feudi calabresi del Cardinale Ruffo. 

Creato e comandato da quest’ultimo, lo aveva posto agli ordini del Re.

1799- 800

Nazione: Regno di Napoli 

Esercito Corpo d’ Armata

Comandanti: 1° Re Ferdinando IV

2° Fabrizio Ruffo 

Generale e Vicario del Regno: Dionigi Ruffo (fratello del Cardinale) Duca di Bagnara 

Capitano e Comandante 1° Colonna: Abate Giuseppe Pronio detto: “Gran Diavolo”

Capitano Generale e Comandante 2° Colonna: Michele Arcangelo Pezza detto: “Fra’ Diavolo”

Composto da 25.000 unità così suddivise: Fanteria, Cavalleria, Artiglieria, Amministrazione militare, Sanità militare.

Soprannome: Esercito Sanfedista 

Patroni: Gesù e Sant’Antonio 

Colore: Bianco

Marcia: Canto Sanfedista 

Motto: ” In hoc signo vinces”

Battaglie: 2° Coalizione francese

Riconquista del regno

Assedio di Modugno

Reparti: 16° Formazione a “Massa”

7° Formazione “Mista”

16° Formazione “Militare”

13 Giugno l’ attacco.

Il 13 giugno festa di Sant’ Antonio di Padova a cui Ruffo pose la sua Armata supplicandone la protezione. 

Il Prelato puntò su Portici, da cui diresse l’attacco per liberare Napoli.

Eroici Lazzari al grido di “Viva il Re” si misero a caccia di giacobini.

“Così mercé il coraggio, e valore dell’Armata Cristiana, delle savie disposizioni di Sua Eminenza, e soprattutto della virtù della Croce per parte del Cielo, superata videsi ogni forza dei Giacobini, sicché vittoriosi all’ intutto rimasero i crocesegnati”.

Un destino irriconoscente

Portata a termine la mirabile missione, due anni dopo, 1801 Petromasi redasse il suo diario di guerra. Già nel 1805 dell’ opera cronicistica si perse la memoria, e un destino irriconoscente, immerse nell’ oblio questo carismatico personaggio, insieme alla sua opera. Del Petromasi si persero le tracce.

Un cronista di parte, certamente, ma sostanzialmente onesto; perciò questo documento è di eccezionale valore 

storico.

Un sentito ringraziamento va all’ Associazione  Identitaria Alta Terra di Lavoro e al Presidente Claudio Saltarelli che investendo risorse in questo pregevole progetto di ristampa anastatica ha consentito a chi volesse leggere questo libro (che consiglio vivamente), di ripercorrere le eroiche gesta della miracolosa impresa di guerra datata 1799; come se, insieme al Petromasi e all’ Armata Crocesignata, ci fossero anche i lettori, in presa diretta. 

Lucia Di Rubbio

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Unità d’Italia: frammento di storia locale, Stefano Jadopi di Lucia Di Rubbio

Posted by on Gen 23, 2019

Unità d’Italia: frammento di storia locale, Stefano Jadopi di Lucia Di Rubbio

La sera del 30 settembre 1860 Francesco Di Paola Jadopi, figlio di Stefano, 19enne fu macellato a colpi di scure e pugnale. Infine gli furono strappati gli occhi.
Cosa aveva fatto, per subire una sorte così tremenda?
Figlio di Stefano, aveva la colpa di essere il figlio di un liberale, propugnatore dell’unità d’Italia.
Ma chi era Stefano?
Il vescovo di Isernia Adeodato Cardosa, lo descrisse in questi termini: “uomo di mente elevata, di animo informato a libero sentire, di cuore nobile e retto”.
Designato dal re di Napoli Ferdinando I quale membro della Giunta Provvisoria, istituita il 9 luglio 1820; aveva il compito di esaminare tutte le disposizioni del Governo, fino all’apertura del Parlamento democraticamente eletto.
Era un aperto riconoscimento, alla sua profonda cultura, alle sue idee progressiste, avanzate, liberali.
Tra le quindici personalità più influenti del regno, figurava il suo nome nella Giunta Provvisoria voluta da re Ferdinando I. Tutti “murattiani” (liberali moderati), esclusi i rappresentanti della Carboneria.
Con il nuovo regime Costituzionale, re Ferdinando concesse libertà di stampa, per cui in tutto il regno di Napoli, si sviluppò un dibattito di alto profilo culturale, di cui il nostro, faceva parte.
Sorsero quotidiani, riviste settimanali, giornali di informazione, e discussione politica.
Re Ferdinando I consentì anche spinte autonomistiche; nella Costruzione erano previsti Consigli Comunali elettivi, come elettivi erano i membri della Deputazione Provinciale, i cui Presidenti, dovevano essere approvati dal re.
Conquiste importanti e innovative, che avevano un compito propulsore di progresso a tutto campo, nel Regno di Napoli.
C’è da dire, che i sovrani italiani, il Papa, e Vittorio Emanuele I, non videro di buon occhio la Costituzione napoletana, temendo il diffondersi della Rivoluzione, e iniziarono forti pressioni per farla abrogare.
L’Austria corse in aiuto dei sovrani (lamentatori) e il 7 marzo 1821 sconfisse l’esercito napoletano, soffocando nel sangue l’esperimento liberale, ripristinando l’assolutismo borbonico.
A Isernia, il seme liberale, continuò a germogliare nella figura di Stefano Jadopi.
Fuse nella sua persona, i principi della dottrina cattolica, con le idee laiche e liberali.
Queste due concezioni apparentemente idiosincratiche, diedero vita ad un uomo equilibrato e moderato; credente, saggio amministratore della cosa pubblica, attento ai reali bisogni dei cittadini.
Queste lodevoli qualità, fecero la sua fortuna politica da un lato, dall’altro, furono fonte delle tragedie che si abbatterono sulla sua famiglia.
Le sue idee moderate e progressiste, lo resero inviso alla classe politica, e alle gerarchie ecclesiastiche.
Cresciuto severamente dal padre, fu sempre soggetto a crisi depressive, che rendevano il suo carattere nervoso e irascibile, specie nei momenti di forte tensione emotiva.
Sposato con Olimpia de Lellis, figlia di un potente politico isernino, da cui ebbe nove figli, tra cui lo sfortunato Francesco, massacrato la notte del 30 settembre 1860.
Ottimo amministratore dei beni pubblici, fu riconfermato nelle sue cariche, anche dopo i fatti inerenti il 1860.
Nell’adempimento delle sue funzioni, ricevette grandi elogi da parte delle autorità superiori.
Ricordiamo alcuni dei suoi meriti:
dimostrò grande zelo nella campagna contro il vaiolo arabo, che mieteva vittime nelle nostre zone; ridusse le disfunzioni e gli abusi commessi dagli esponenti della Commissione Vaccinica; si rese promotore della costruzione della Strada dei Pentri “compiuta perfettamente fino alla Centrale della Provincia, che apre l’adito con più facilità agli Abruzzi”; diede un forte impulso a tutte le opere pubbliche, in particolare, alla costruzione dei Campi-santi; si oppose strenuamente, al dissennato disboscamento; aumentò razionalmente, gli addetti all’agricoltura, definiti da lui stesso: “la classe più utile della società”; riuscendo a ottenere per loro, un miglioramento di vita e di lavoro; da Sindaco lottò per l’istituzione dell’ospedale, e il già citato cimitero cittadino, dando l’incarico nel 1818 a Michelangelo Petitti, ingegnere di Napoli.
Re Ferdinando I ordinò che nella Provincia del Molise fossero costruiti tre ospedali: a Campobasso, a Isernia, a Larino. Stefano Jadopi, si occupò anche di questo; portò a compimento il lavatoio pubblico, la fontana monumentale in Piazza d’Isernia (non più esistente); costruì la strada per Castelromano, onde valorizzare e sfruttare a fini economici, le acque termali; ottenne per la città, l’illuminazione pubblica, secondo “caso” dopo la città di Napoli, capitale del Regno.
Ma i suoi generosi successi, non lo tennero al riparo dal malanimo dei suoi concittadini, a causa delle sue idee liberali.
Nel novembre 1853, si giunse alle denuncie da parte dei suoi avversari politici, che miravano all’allontanamento dell’illustre personaggio dalla città.
Iniziarono così mille difficoltà, tra cui il domicilio coatto, ma Jadopi resistette a tutte le intimidazioni e le minacce.
Eppure la piccola città era molto amata da Jadopi; infatti, benché incompleta, una breve monografia su Isernia ha dato un contributo importante alla conoscenza storica della città.
La vittima predestinata fu Stefano Jadopi, che fortemente impegnato nella causa dell’unità nazionale, ne pagò un immane prezzo.
La reazione forte, da parte della città, durò dal 30 settembre al 20 ottobre 1860.
Tristi avvenimenti, che fecero versare fiumi d’inchiostro.
Il 7 settembre 1860, Garibaldi entrò a Napoli autonominandosi Dittatore, costrinse il legittimo sovrano del Regno delle Due Sicilie Francesco II a rifugiarsi a Gaeta.
Lo stesso giorno, ad Isernia, il sottintendente Venditti, nominò Stefano Jadopi sindaco, affinché, pacificasse gli animi, e creasse un clima favorevole allo storico passaggio di regime. Ad Isernia, però gli animi erano di fuoco, capeggiati dal vescovo Gennaro Saladino.
La dinastia Borbone in città era molto amata, si ricordava infatti la visita del re Ferdinando I nel 1837.
Inoltre, la città fa sfoggio di un notevole gioiello architettonico, un palazzo costruito dall’architetto napoletano Vanvitelli (lo stesso che costruì la reggia di Caserta), donato alla figlia del re; ospitò, per un breve soggiorno, l’augusto padre.
Il vescovo Saladino, avvisò il sindaco Jadopi di dimettersi al più presto dalla carica, paventando disordini e azioni rivoluzionarie, che potevano mettere in pericolo l’incolumità dello stesso, e della sua famiglia.
L’ amore per la sua città, e l’intenzione di traghettare la stessa, il più pacificamente possibile, verso il nuovo (osteggiato) regime, fallirono miseramente, la sera del 30 settembre 1860.
Al grido di viva Francesco, morte a Garibaldi, i contadini armati entrarono in città. Agli ordini del vescovo Saladino, i contadini, dapprima assaltarono la Guardia nazionale, per rifornirsi di armi; indi si diressero al palazzo del Governo, mettendo in fuga il maggiore Ghirelli, il sottogovernatore Venditti, un drappello di garibaldini, e uno sparuto gruppetto di liberali isernini. Subito dopo l’assalto al palazzo del Governo, si diressero alle abitazioni dei liberali, mettendole a ferro e a fuoco; tra cui palazzo Jadopi. Il giovane Francesco di Paola Jadopi, fu massacrato, e la dimora saccheggiata e data alle fiamme. Sulla ringhiera del suddetto palazzo, vi furono infilzate le teste di sette garibaldini trucidati.
Il ragazzo martoriato ed agonizzante, fu imprigionato. La mattina seguente, il vescovo Saladino diede l’ordine che venisse riconsegnato alla madre, nelle cui braccia spirò, dopo alcune ore, e dopo aver vanamente chiesto asilo al nonno (tramite la madre); che rifiutò ogni soccorso, per codardia.
I disordini si protrassero fino alla mattina del 20 ottobre, quando l’armata piemontese, nella piana del Macerone, sbaragliò le truppe borboniche, e la massa dei contadini armati.
Lo stesso giorno, trionfante, entrò in città il feroce Enrico Cialdini, preceduto dalle avanguardie del generale Griffini.
Il processo per i fatti di sangue, accaduti alla famiglia Jadopi, prende il via, dopo un esposto, presentato il 25 ottobre a Napoli, dinanzi al Commissario della Prefettura Antonio Reale, dallo stesso Stefano Jadopi, dopo che aveva riunito fortunosamente, a Roma, la famiglia superstite.
Lo svolgimento del processo, si tenne a Santa Maria Capua Vetere, dopo una fase istruttoria lunga e laboriosa, durata quasi due anni, 21 mesi per la precisione.
La sentenza fu emessa il 25 agosto 1864, che condannava sostanzialmente, gli esecutori materiali dello scempio, lasciando intatti coloro che Stefano Jadopi, considerava i mandanti; nel frattempo, anche il vescovo Saladino era morto. Al danno, la beffa:
una parte della sentenza (volutamente?), era così ambigua, “rifacimento del danno” a favore della parte civile, che alla fine, Jadopi, non ricevette nessun risarcimento.
La sentenza destò clamore, e si gridò allo scandalo, sopra tutte le pagine dei giornali, varcando anche le soglie, della neonata Nazione.
Nel frattempo, morì anche la moglie Olimpia, inconsolabile dal giorno in cui le ammazzarono il figlio.
Stefano come reazione alla delusione per gli esiti del processo, si chiuse in sé stesso.
Non tollerava che, chi un tempo aveva osteggiato l’unità d’Italia, oggi si ergeva a paladino della stessa; e disgustato, si isolò sempre più, nel suo casino di campagna in contrada Selverine a Isernia.
La sua unica consolazione fu erigere a museo della reazione di Isernia, la Cappella Gentilizia di famiglia, in cui riposavano anche i resti del padre Vittorio, stroncato dal colera nel 1838. Vi traslò in seguito, anche il corpo del figlio Francesco. Tutt’intorno alle tombe, collocò grosse lastre di marmo, con incisi passi del processo, tenuto a Santa Maria Capua Vetere; e le motivazioni della sentenza. Inoltre, importanti notizie riguardanti il palazzo dato alle fiamme, nonché il suo valore economico, fino al suo atto di vendita.
Lo scopo prefisso da jadopi, era di fissare sulla pietra le sciagure che si erano abbattute sulla sua casa, a motivo della unità nazionale.
La morte, lo sorprese la notte del 19 novembre 1872 nel suo rifugio di campagna in contrada Selverine. Venne seppellito nella cappella-museo, e sulla sua tomba, aveva fatto scrivere: “Questa dimora ultimo riposo, a sé a suoi apparecchiò Stefano Jadopi, con affetto di figlio, di marito e padre.
… il saccheggio, l’incendio della casa, l’uccisione del figlio. Esule volontario, visse lontano da ogni cosa diletta, provando a vincere la nequizia degli uomini. Non vale integrità di vita, amore del pubblico bene.
Anelò liberi tempi…
Rivolse alla tomba le deluse speranze”

Fonte: Stefano Jadopi, la proprietà illuminata
Fernando Cefalogli Editore Cosmo Iannone

Lucia Di Rubbio

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IL BREVE REGNO DI FRANCESCO I: IL RE DIMENTICATO

Posted by on Giu 19, 2017

IL BREVE REGNO DI FRANCESCO I: IL RE DIMENTICATO

Francesco Gennaro Giuseppe Saverio Giovanni Battista, nacque nel Palazzo Reale a Napoli il 19 Agosto 1777 secondogenito di Ferdinando IV di Borbone Re di Napoli e di Maria Carolina d’Austria. Divenne erede al Trono di Napoli e Sicilia dopo la prematura dipartita nel 1778 di Carlo Tito fratello maggiore (1775 -1778).

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