Posted by altaterradilavoro on Ott 27, 2019
La porta (la verità), è da quasi due secoli sbarrata sugli accadimenti che portarono all’ unità d’Italia. Faticose “spallate” hanno cercato di aprire uno spiraglio (per la verità, appunto, già dalla prima ora; infatti furono molte le voci autorevoli che gridarono il loro sdegno, all’interno del neo costituito Parlamento italiano!), dal quale sfuggono lezzi nauseabondi, di crimini, soprusi, “AZZOPPAMENTI” economici di plurisecolare efficacia (Questione meridionale).
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Posted by altaterradilavoro on Giu 24, 2019
Fu una breve stagione,
quella della “Primavera Napoletana”.
Il termine “Rivoluzione”,
giunse a Roma nel 1798, insieme alle truppe francesi.
S’insinuò nelle strade,
tra i nobili palazzi di Napoli; deflagrando il 17 gennaio 1799.
I giacobini presero
d’assalto il Castello di Sant’Elmo, che domina la città da un colle.
Il 21, con un Decreto del
Generale Championnet, fu istituito un Governo Provvisorio; era nata
ufficialmente, la Repubblica Napoletana.
Dal suddetto Castello, in
quattro giorni, caddero sotto le palle di cannone, circa ottomila napoletani e
“eroici Lazzari” come riconobbe lo stesso Championnet, ad opera di giacobini
locali, e francesi.
Senza l’ausilio dei
traditori locali, “il potente esercito francese, non avrebbe mai avuto la
meglio, sulla resistenza popolare”, ammise Thiebault nelle sue “Memorie”.
Nel 1734 i Borbone erano
diventati Re di Napoli, e avevano manifestato la ferma volontà di creare uno
Stato autonomo, indipendente, improntato sui valori tradizionali, cristiani e
popolari.
In breve, la Capitale del
Regno divenne uno dei più importanti centri produttivi internazionali, grazie
anche ai porti.
La città, e il suo entroterra, erano in piena
esplosione economica e demografica.
Pregevoli fabbriche di tessuti e ceramiche
(ancora oggi, esistenti!), di lavorazione delle corde e delle vele per la
navigazione, ne decretarono la supremazia commerciale, e culturale a livello
internazionale.
Sul destino del Regno di
Napoli e in generale sull’Europa, però, spirava già il vento “illuminato” della
Rivoluzione pronta a piantare “alberi della libertà” ovunque arrivasse.
La “Primavera Napoletana”
arrivò, e piantò i suoi “alberi della libertà” in ogni piazza della Capitale.
Furono mesi febbrili, il
“cittadino” sostituì il nobile, vennero promulgate leggi che garantivano le
libertà individuali, i diritti feudali abrogati.
Per spezzare la resistenza
del popolo napoletano che abbatteva in continuazione gli “alberi della libertà”
(odiato simbolo di invasione e violenza), i francesi emanarono oltre 1500
sentenze capitali.
Una “Primavera” a tinte
vermiglie.
Il Generale Thiebault si
vantò che la “Campagna Napoletana” era costata la vita a oltre sessantamila
napoletani, in cinque mesi di Repubblica.
La Rivoluzione del 1799
con tutta evidenza, dimostrò d’essere: anti cristiana, anti napoletana, anti
borbonica.
La Repubblica ebbe vita
breve; il 13 giugno il Cardinale Ruffo e la sua Armata Sanfedista, piombarono
su Castel Sant’Elmo annientando l’ultima resistenza repubblicana.
A posto degli “alberi
della libertà”, furono messe le forche, dalle quali penzolarono un centinaio di
repubblichini, subito dopo il ritorno dei Borbone sul Trono.
Poco più tardi, al pennone
della “Minerva” penzolava il corpo dell’ammiraglio Francesco Caracciolo,
affiliato alla Loggia Massonica “Perfetta Unione”.
L’ ammiraglio, aveva
tradito il suo Re, e la sua Nazione. Il codice militare penale, comminò la pena
di morte.
Quell’estate furono
eseguite altre sentenze di morte, a carico di: Gennaro Serra Duca di Cassano,
Michele Natale Vescovo di Vico Equense, Domenico Cirillo; tutti Massoni,
appartenenti alla Loggia “Officina Vittoria” di Napoli, ideatori della
Repubblica.
I Moti che seguirono, e la
stessa Unificazione, furono ideati, finanziati, e realizzati dalla Massoneria
internazionale con l’avallo della Massoneria locale.
La storiografia ufficiale
è scritta da coloro che sono usciti vincitori da quelle vicende.
I Massoni infatti,
rivendicano con orgoglio di essere stati i padri della “Patria”.
Dal Massone Caracciolo, al
Massone Garibaldi. I nemici restano gli stessi di allora.
1860: MASSONERIA E CHIESA
Accertato che, l’élite
repubblicana napoletana fu ispirata dagli ideali massonici; di contro, il
popolo per ripristinare lo status giuridico monarchico, costituì l’Esercito
della Santa Fede, con a capo il calabrese Cardinale Ruffo Fabrizio.
La Massoneria incise (e
incide) molto sul destino della Nazione; dalla Napoli e Milano settecentesca,
fino all’unità d’Italia.
Un “attore”
semisconosciuto (a torto, visto il ruolo decisivo) della Libera Muratoria
italiana tale, Friederich Munter teologo luterano Massone di origine tedesca, affiliato
all’Ordine degli Illuminati una società segreta fondata nel 1776 in Baviera,
agì da agente segreto con il ruolo di “sobillatore”.
Si trattava di
un’organizzazione massonica filo-rivoluzionaria segreta, propugnatrice di
ideali politico-sociali estremisti, che promuovevano su scala internazionale,
piani eversivi, finalizzati a rovesciare governi monarchici e le religioni, con
l’obiettivo di instaurare un nuovo ordine internazionale.
Fu (anche) un conflitto
tra Massoneria e Chiesa.
Nella seconda metà del
settecento, era molto attiva la Massoneria napoletana, la più cospicua e vivace
d’Italia; ebbe un ruolo di prim’ordine nel Regno di Ferdinando IV di Borbone
(ereditato dal padre nel 1759). Nel 1768 il giovane sovrano sposò Maria
Carolina d’Asburgo Lorena, proprio quando i Fratelli napoletani cominciavano a
tradire gli ideali della Massoneria locale, cristiana e legittimista.
Gli stessi ideali che
animavano Raimondo de’ Sangro, volti al miglioramento dell’individuo; progressi
che avrebbero influenzato anche il Governo.
La Massoneria napoletana, si
immischiò nella politica dando il via ad un laboratorio di idee per l’ammodernamento
dei comparti statali, a modello delle massonerie straniere di Francia,
Inghilterra, Olanda.
Gaetano Filangieri,
Francesco Mario Pagano, Francescantonio Grimaldi, si affiliarono alle varie
Logge; pure la Regina si attorniò di uomini legati alla Massoneria, per
arruolarli nella formazione di un partito di Corte filo-austriaco, al fine di
estromettere dal Governo il Primo Ministro Bernardo Tanucci.
Friederich Munter morì nel
1830 durante i Moti Carbonari italiani; aveva guidato e assistito le evoluzioni
della Massoneria napoletana e napoleonica, fino alla Restaurazione.
Recentemente, lo studioso
napoletano Ruggiero Ferrara di Castiglione, professore universitario appartenente
al Grande Oriente, ha donato alla biblioteca del GOI, tutto il carteggio di
Munter con i Massoni del Sud Italia, che va dal 1786 al 1820.
Corrispondenza che
testimonia la mutazione genetica ed ideologica, della Massoneria Napoletana,
dimentica delle sue origini cristiane e legittimiste.
Dimentica, degli obiettivi
di miglioramento spirituale e individuale, manifestati ed eternati dalla nobile
pietra della Cappella di Sansevero, nel cuore di Napoli.
Foriera delle sciagure e
del rovesciamento definitivo del Regno delle Due Sicilie 61 anni dopo (1799/1860).
Al netto, di tale
argomentazioni, non è ardito concludere che ci fu uno scontro tra la Massoneria
Repubblicana (internazionale) e la Massoneria Monarchica borbonica; con esiti
letali per la seconda.
Si ringrazia per le fonti: Napoli Capitale Morale di Angelo Forgione (Magenes, 2017), Associazione culturale Neoborbonica.
Lucia Di Rubbio
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Posted by altaterradilavoro on Feb 19, 2019
Diario
di guerra.
IL
succitato libro è un vivido resoconto di una guerra santa, vinta all’ insegna
della Fede e della Croce.
Laddove
non poté un esercito straniero, crudele, avido e ateo, riuscì un’ insegna
bianca, e un motto: “In hoc signo vinces”; a capo, un geniale,
coraggioso, visionario Cardinale, comandante di un esercito raccogliticcio, ed
eterogeneo; ma fervente in amore per il proprio sovrano, la propria religione,
la propria terra e identità.
L’
esercito in oggetto, aveva un nome: “Esercito Sanfedista”, e due
Patroni, uno più grande dell’ altro: Gesù e Sant’Antonio di Padova.
Con
premesse così, il risultato non poteva che essere uno: la vittoria!
I
fatti narrati, a cui la storiografia ufficiale, non dà i reali meriti (così da
proseguire la sua mendace, secolare narrazione), riguardano l’ eroica stagione,
datata 13 Giugno 1799.
Il
reporter di guerra Petromasi
Ma
chi è il narratore, e a che titolo parla?
Domenico
Petromasi, medico siciliano, dalle indubbie capacità umane e professionali,
ampiamente riconosciute dai dotti del suo tempo. Personaggio di notevole
caratura, lasciò un’ impronta nella storia della sua città. Una figura
interessante, che meriterebbe più lustro di quanto ne abbia.
Aveva
33 anni, e si trovava a Messina a motivo della sua professione di medico. Erano
i primi mesi del 1799, e il destino lo sospinse a risollevare le sorti del
regno, insieme al Cardinale Ruffo e la sua Armata Sanfedista; della quale ne
divenne il cronicista fedele, come un inviato di guerra ante litteram.
L’
odio che provava per gli invasori, che il 20 gennaio 1799 ad Augusta avevano
compiuto un massacro, l’ amata capitale Napoli invasa dalle truppe
rivoluzionarie francesi, lo determinarono a gettar via il camice di medico, e
indossare i panni di Commissario di guerra per le operazioni logistiche. Il suo
amor patrio, il coraggio, e l’innata intraprendenza, gli tornarono utili
nell’espletamento delle attività logistiche affidate. Inoltre, le sue
preziosissime capacità di medico, diventarono determinanti, nel contribuire a
portare alla vittoria un’ impresa che pareva impossibile.
“L’
itinerario” opera letteraria e geografica di Antonino Cimbalo, funse da
“scheletratura” per la ricostruzione accurata dei luoghi citati nei
quaderni di guerra del Petromasi.
Alla
riconquista del Regno perduto.
1799:
una stagione memorabile, affollata di personaggi indimenticabili.
Un
esercito che ingrossava le file, partendo dai feudi calabresi del Cardinale
Ruffo.
Creato
e comandato da quest’ultimo, lo aveva posto agli ordini del Re.
1799-
800
Nazione:
Regno di Napoli
Esercito
Corpo d’ Armata
Comandanti:
1° Re Ferdinando IV
2°
Fabrizio Ruffo
Generale
e Vicario del Regno: Dionigi Ruffo (fratello del Cardinale) Duca di
Bagnara
Capitano
e Comandante 1° Colonna: Abate Giuseppe Pronio detto: “Gran Diavolo”
Capitano
Generale e Comandante 2° Colonna: Michele Arcangelo Pezza detto: “Fra’
Diavolo”
Composto
da 25.000 unità così suddivise: Fanteria, Cavalleria, Artiglieria,
Amministrazione militare, Sanità militare.
Soprannome:
Esercito Sanfedista
Patroni:
Gesù e Sant’Antonio
Colore:
Bianco
Marcia:
Canto Sanfedista
Motto:
” In hoc signo vinces”
Battaglie:
2° Coalizione francese
Riconquista
del regno
Assedio
di Modugno
Reparti:
16° Formazione a “Massa”
7°
Formazione “Mista”
16°
Formazione “Militare”
13
Giugno l’ attacco.
Il
13 giugno festa di Sant’ Antonio di Padova a cui Ruffo pose la sua Armata
supplicandone la protezione.
Il
Prelato puntò su Portici, da cui diresse l’attacco per liberare Napoli.
Eroici
Lazzari al grido di “Viva il Re” si misero a caccia di giacobini.
“Così
mercé il coraggio, e valore dell’Armata Cristiana, delle savie disposizioni di
Sua Eminenza, e soprattutto della virtù della Croce per parte del Cielo,
superata videsi ogni forza dei Giacobini, sicché vittoriosi all’ intutto
rimasero i crocesegnati”.
Un
destino irriconoscente
Portata
a termine la mirabile missione, due anni dopo, 1801 Petromasi redasse il suo
diario di guerra. Già nel 1805 dell’ opera cronicistica si perse la memoria, e
un destino irriconoscente, immerse nell’ oblio questo carismatico personaggio,
insieme alla sua opera. Del Petromasi si persero le tracce.
Un
cronista di parte, certamente, ma sostanzialmente onesto; perciò questo
documento è di eccezionale valore
storico.
Un sentito ringraziamento va all’ Associazione Identitaria Alta Terra di Lavoro e al Presidente Claudio Saltarelli che investendo risorse in questo pregevole progetto di ristampa anastatica ha consentito a chi volesse leggere questo libro (che consiglio vivamente), di ripercorrere le eroiche gesta della miracolosa impresa di guerra datata 1799; come se, insieme al Petromasi e all’ Armata Crocesignata, ci fossero anche i lettori, in presa diretta.
Lucia Di Rubbio
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Posted by altaterradilavoro on Gen 23, 2019
La sera del 30 settembre 1860 Francesco Di
Paola Jadopi, figlio di Stefano, 19enne fu macellato a colpi di scure e pugnale. Infine gli furono strappati gli
occhi.
Cosa aveva fatto, per subire una sorte così
tremenda?
Figlio di Stefano, aveva la colpa di essere il
figlio di un liberale, propugnatore dell’unità d’Italia.
Ma chi era Stefano?
Il vescovo di Isernia Adeodato Cardosa, lo
descrisse in questi termini: “uomo di mente elevata, di animo informato a
libero sentire, di cuore nobile e retto”.
Designato dal re di Napoli Ferdinando I quale
membro della Giunta Provvisoria, istituita il 9 luglio 1820; aveva il compito
di esaminare tutte le disposizioni del Governo, fino all’apertura del Parlamento
democraticamente eletto.
Era un aperto riconoscimento, alla sua profonda
cultura, alle sue idee progressiste, avanzate, liberali.
Tra le quindici personalità più influenti del
regno, figurava il suo nome nella Giunta Provvisoria voluta da re Ferdinando I.
Tutti “murattiani” (liberali moderati), esclusi i rappresentanti
della Carboneria.
Con il nuovo regime Costituzionale, re Ferdinando
concesse libertà di stampa, per cui in tutto il regno di Napoli, si sviluppò un
dibattito di alto profilo culturale, di cui il nostro, faceva parte.
Sorsero quotidiani, riviste settimanali, giornali
di informazione, e discussione politica.
Re Ferdinando I consentì anche spinte
autonomistiche; nella Costruzione erano previsti Consigli Comunali elettivi,
come elettivi erano i membri della Deputazione Provinciale, i cui Presidenti,
dovevano essere approvati dal re.
Conquiste importanti e innovative, che avevano un
compito propulsore di progresso a tutto campo, nel Regno di Napoli.
C’è da dire, che i sovrani italiani, il Papa, e
Vittorio Emanuele I, non videro di buon occhio la Costituzione napoletana,
temendo il diffondersi della Rivoluzione, e iniziarono forti pressioni per
farla abrogare.
L’Austria corse in aiuto dei sovrani (lamentatori)
e il 7 marzo 1821 sconfisse l’esercito napoletano, soffocando nel sangue
l’esperimento liberale, ripristinando l’assolutismo borbonico.
A Isernia, il seme liberale, continuò a germogliare
nella figura di Stefano Jadopi.
Fuse nella sua persona, i principi della dottrina
cattolica, con le idee laiche e liberali.
Queste due concezioni apparentemente
idiosincratiche, diedero vita ad un uomo equilibrato e moderato; credente,
saggio amministratore della cosa pubblica, attento ai reali bisogni dei
cittadini.
Queste lodevoli qualità, fecero la sua fortuna
politica da un lato, dall’altro, furono fonte delle tragedie che si abbatterono
sulla sua famiglia.
Le sue idee moderate e progressiste, lo resero
inviso alla classe politica, e alle gerarchie ecclesiastiche.
Cresciuto severamente dal padre, fu sempre soggetto
a crisi depressive, che rendevano il suo carattere nervoso e irascibile, specie
nei momenti di forte tensione emotiva.
Sposato con Olimpia de Lellis, figlia di un potente
politico isernino, da cui ebbe nove figli, tra cui lo sfortunato Francesco,
massacrato la notte del 30 settembre 1860.
Ottimo amministratore dei beni pubblici, fu
riconfermato nelle sue cariche, anche dopo i fatti inerenti il 1860.
Nell’adempimento delle sue funzioni, ricevette
grandi elogi da parte delle autorità superiori.
Ricordiamo alcuni dei suoi meriti:
dimostrò grande zelo nella campagna contro il
vaiolo arabo, che mieteva vittime nelle nostre zone; ridusse le disfunzioni e
gli abusi commessi dagli esponenti della Commissione Vaccinica; si rese
promotore della costruzione della Strada dei Pentri “compiuta
perfettamente fino alla Centrale della Provincia, che apre l’adito con più
facilità agli Abruzzi”; diede un forte impulso a tutte le opere pubbliche,
in particolare, alla costruzione dei Campi-santi; si oppose strenuamente, al
dissennato disboscamento; aumentò razionalmente, gli addetti all’agricoltura,
definiti da lui stesso: “la classe più utile della società”;
riuscendo a ottenere per loro, un miglioramento di vita e di lavoro; da Sindaco
lottò per l’istituzione dell’ospedale, e il già citato cimitero cittadino,
dando l’incarico nel 1818 a Michelangelo Petitti, ingegnere di Napoli.
Re Ferdinando I ordinò che nella Provincia del
Molise fossero costruiti tre ospedali: a Campobasso, a Isernia, a Larino.
Stefano Jadopi, si occupò anche di questo; portò a compimento il lavatoio
pubblico, la fontana monumentale in Piazza d’Isernia (non più esistente);
costruì la strada per Castelromano, onde valorizzare e sfruttare a fini
economici, le acque termali; ottenne per la città, l’illuminazione pubblica,
secondo “caso” dopo la città di Napoli, capitale del Regno.
Ma i suoi generosi successi, non lo tennero al
riparo dal malanimo dei suoi concittadini, a causa delle sue idee liberali.
Nel novembre 1853, si giunse alle denuncie da parte
dei suoi avversari politici, che miravano all’allontanamento dell’illustre
personaggio dalla città.
Iniziarono così mille difficoltà, tra cui il
domicilio coatto, ma Jadopi resistette a tutte le intimidazioni e le minacce.
Eppure la piccola città era molto amata da Jadopi;
infatti, benché incompleta, una breve monografia su Isernia ha dato un
contributo importante alla conoscenza storica della città.
La vittima predestinata fu Stefano Jadopi, che
fortemente impegnato nella causa dell’unità nazionale, ne pagò un immane
prezzo.
La reazione forte, da parte della città, durò dal
30 settembre al 20 ottobre 1860.
Tristi avvenimenti, che fecero versare fiumi
d’inchiostro.
Il 7 settembre 1860, Garibaldi entrò a Napoli
autonominandosi Dittatore, costrinse il legittimo sovrano del Regno delle Due
Sicilie Francesco II a rifugiarsi a Gaeta.
Lo stesso giorno, ad Isernia, il sottintendente
Venditti, nominò Stefano Jadopi sindaco, affinché, pacificasse gli animi, e
creasse un clima favorevole allo storico passaggio di regime. Ad Isernia, però
gli animi erano di fuoco, capeggiati dal vescovo Gennaro Saladino.
La dinastia Borbone in città era molto amata, si
ricordava infatti la visita del re Ferdinando I nel 1837.
Inoltre, la città fa sfoggio di un notevole gioiello
architettonico, un palazzo costruito dall’architetto napoletano Vanvitelli (lo
stesso che costruì la reggia di Caserta), donato alla figlia del re; ospitò,
per un breve soggiorno, l’augusto padre.
Il vescovo Saladino, avvisò il sindaco Jadopi di
dimettersi al più presto dalla carica, paventando disordini e azioni
rivoluzionarie, che potevano mettere in pericolo l’incolumità dello stesso, e
della sua famiglia.
L’ amore per la sua città, e l’intenzione di
traghettare la stessa, il più pacificamente possibile, verso il nuovo
(osteggiato) regime, fallirono miseramente, la sera del 30 settembre 1860.
Al grido di viva Francesco, morte a Garibaldi, i
contadini armati entrarono in città. Agli ordini del vescovo Saladino, i
contadini, dapprima assaltarono la Guardia nazionale, per rifornirsi di armi;
indi si diressero al palazzo del Governo, mettendo in fuga il maggiore
Ghirelli, il sottogovernatore Venditti, un drappello di garibaldini, e uno
sparuto gruppetto di liberali isernini. Subito dopo l’assalto al palazzo del
Governo, si diressero alle abitazioni dei liberali, mettendole a ferro e a
fuoco; tra cui palazzo Jadopi. Il giovane Francesco di Paola Jadopi, fu
massacrato, e la dimora saccheggiata e data alle fiamme. Sulla ringhiera del
suddetto palazzo, vi furono infilzate le teste di sette garibaldini trucidati.
Il ragazzo martoriato ed agonizzante, fu
imprigionato. La mattina seguente, il vescovo Saladino diede l’ordine che
venisse riconsegnato alla madre, nelle cui braccia spirò, dopo alcune ore, e
dopo aver vanamente chiesto asilo al nonno (tramite la madre); che rifiutò ogni
soccorso, per codardia.
I disordini si protrassero fino alla mattina del 20
ottobre, quando l’armata piemontese, nella piana del Macerone, sbaragliò le
truppe borboniche, e la massa dei contadini armati.
Lo stesso giorno, trionfante, entrò in città il
feroce Enrico Cialdini, preceduto dalle avanguardie del generale Griffini.
Il processo per i fatti di sangue, accaduti alla
famiglia Jadopi, prende il via, dopo un esposto, presentato il 25 ottobre a
Napoli, dinanzi al Commissario della Prefettura Antonio Reale, dallo stesso
Stefano Jadopi, dopo che aveva riunito fortunosamente, a Roma, la famiglia
superstite.
Lo svolgimento del processo, si tenne a Santa Maria
Capua Vetere, dopo una fase istruttoria lunga e laboriosa, durata quasi due
anni, 21 mesi per la precisione.
La sentenza fu emessa il 25 agosto 1864, che
condannava sostanzialmente, gli esecutori materiali dello scempio, lasciando
intatti coloro che Stefano Jadopi, considerava i mandanti; nel frattempo, anche
il vescovo Saladino era morto. Al danno, la beffa:
una parte della sentenza (volutamente?), era così
ambigua, “rifacimento del danno” a favore della parte civile, che
alla fine, Jadopi, non ricevette nessun risarcimento.
La sentenza destò clamore, e si gridò allo
scandalo, sopra tutte le pagine dei giornali, varcando anche le soglie, della
neonata Nazione.
Nel frattempo, morì anche la moglie Olimpia,
inconsolabile dal giorno in cui le ammazzarono il figlio.
Stefano come reazione alla delusione per gli esiti
del processo, si chiuse in sé stesso.
Non tollerava che, chi un tempo aveva osteggiato
l’unità d’Italia, oggi si ergeva a paladino della stessa; e disgustato, si
isolò sempre più, nel suo casino di campagna in contrada Selverine a Isernia.
La sua unica consolazione fu erigere a museo della
reazione di Isernia, la Cappella Gentilizia di famiglia, in cui riposavano
anche i resti del padre Vittorio, stroncato dal colera nel 1838. Vi traslò in
seguito, anche il corpo del figlio Francesco. Tutt’intorno alle tombe, collocò
grosse lastre di marmo, con incisi passi del processo, tenuto a Santa Maria
Capua Vetere; e le motivazioni della sentenza. Inoltre, importanti notizie
riguardanti il palazzo dato alle fiamme, nonché il suo valore economico, fino
al suo atto di vendita.
Lo scopo prefisso da jadopi, era di fissare sulla
pietra le sciagure che si erano abbattute sulla sua casa, a motivo della unità
nazionale.
La morte, lo sorprese la notte del 19 novembre 1872
nel suo rifugio di campagna in contrada Selverine. Venne seppellito nella
cappella-museo, e sulla sua tomba, aveva fatto scrivere: “Questa dimora
ultimo riposo, a sé a suoi apparecchiò Stefano Jadopi, con affetto di figlio, di
marito e padre.
… il saccheggio, l’incendio della casa,
l’uccisione del figlio. Esule volontario, visse lontano da ogni cosa diletta,
provando a vincere la nequizia degli uomini. Non vale integrità di vita, amore
del pubblico bene.
Anelò liberi tempi…
Rivolse alla tomba le deluse speranze”
Fonte: Stefano Jadopi, la proprietà illuminata
Fernando Cefalogli Editore Cosmo Iannone
Lucia Di Rubbio
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Posted by altaterradilavoro on Giu 25, 2017
Maria Luisa Fortunata de Molina Sanfelice nacque a Napoli il 28 Febbraio 1764 dai Duchi di Agropoli e Lauriano. Il padre Pietro era un Generale dell’esercito borbonico dell’Armata di Carlo III giunto a Napoli nel 1733 di origine spagnola, la madre, la nobildonna Camilla Salinero.
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Posted by altaterradilavoro on Giu 19, 2017
Francesco Gennaro Giuseppe Saverio Giovanni Battista, nacque nel Palazzo Reale a Napoli il 19 Agosto 1777 secondogenito di Ferdinando IV di Borbone Re di Napoli e di Maria Carolina d’Austria. Divenne erede al Trono di Napoli e Sicilia dopo la prematura dipartita nel 1778 di Carlo Tito fratello maggiore (1775 -1778).
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