DICEVANO DI NAPOLI
La Napoli del Seicento
Maximilien Misson (magistrato francese, 1687) – “La bellezza della sua posizione, la quantità di nobiltà che vi si vede, la moltitudine dei suoi mercanti, il gran numero dei suoi palazzi, la magnificenza delle sue chiese, tutto questo la rende considerevole. È ancora una delle più belle città del mondo, forse anche la più bella … Roma, Parigi, Londra, Vienna, Venezia e tante altre città famose hanno in verità dei bei palazzi; ma questi sono inframmezzati da brutte case, laddove Napoli è generalmente tutta bella.
Jean Baptiste Labat (1663 – 1738 sacerdote, botanico, scrittore, esploratore, etnografo, soldato, ingegnere) – “Ciò che si trova a Napoli, e che non si trova affatto in tutte le altre grandi città d’Europa, è che tutte le case sono belle, con la maggior parte dei tetti a terrazza e le logge per prendere il fresco … Il selciato delle strade è grande, perfettamente tenuto e molto pulito. Oltre la cura che vi si ha nello spazzare le strade, le si inonda per rinfrescarle, e i torrenti d’acqua portano via con sé tutta la sporcizia”.
1787 quando Goethe ammirava il riciclo di rifiuti a Napoli
A circa 80 anni di distanza dall’unità d’Italia – I rifiuti sono utili per il circolo produttivo e sono da considerarsi una ricchezza per un paese. Lo avevano capito i Napoletani di allora e lo aveva capito persino lo scrittore tedesco Goethe, grande amante dell’Italia e della Sicilia, che così scriveva a Napoli il 27 Maggio 1787:
“Moltissimi sono coloro – parte di mezza età, parte ancora ragazzi e per lo più vestiti poveramente – che trovano lavoro trasportando le immondizie fuori città a dorso d’asino. Tutta la campagna che circonda Napoli è un solo giardino d’ortaggi, ed è un godimento vedere le quantità incredibili di legumi che affluiscono nei giorni di mercato, e come gli uomini si dian da fare a riportare subito nei campi l’eccedenza respinta dai cuochi, accelerando in tal modo il circolo produttivo. Lo spettacoloso consumo di verdura fa si che gran parte dei rifiuti cittadini consista di torsoli e foglie di cavolfiori, broccoli, carciofi, verze, insalate e aglio, e sono rifiuti straordinariamente ricercati. I due grossi canestri flessibili che gli asini portano appesi al dorso vengono non solo inzeppati fino all’orlo, ma su ciascuno d’essi viene eretto con perizia un cumulo imponente. Nessun orto può fare a meno dell’asino. Per tutto il giorno un servo, un garzone, a volte il padrone stesso vanno e vengono senza tregua dalla città, che ad ogni ora costituisce una miniera preziosa. E con quanta cura raccattano lo sterco di cavalli e di muli! A malincuore abbandonano le strade quando si fa buio, e i ricchi che a mezzanotte escono dall’Opera certo non pensano che già prima dello spuntar dell’alba qualcuno si metterà a inseguire diligentemente le tracce dei loro cavalli. A quanto m’hanno assicurato, se due o tre di questi uomini, di comune accordo, comprano un asino e affittano da un medio possidente un palmo di terra in cui piantar cavoli, in breve tempo, lavorando sodo in questo clima propizio dove la vegetazione cresce inarrestabile, riescono a sviluppare considerevolmente la loro attività.”
È quasi imbarazzante oggi parlare di Goethe e del suo libro “Viaggio in Italia”, da cui è tratto questo brano. Oggi che Napoli e la Campania tutta, devono vedersela con l’emergenza rifiuti, e con una situazione umiliante che porta gli abitanti di un intero paese (Terzigno) a protestare e lottare per salvaguardare la zona dall’ombra incombente della discarica. Al contrario, lo scrittore racconta con perizia le fasi dello smaltimento dei rifiuti – riporta l’Avvenire in un articolo – esaltando la Campania di più di due secoli fa, un territorio che sapeva come riciclare la propria “monnezza“, e questo accelerava e migliorava la produzione. Tutto ciò quando ancora mancavano ben 80 anni all’Unità di Italia. Il passato come sempre insegna, ma nessuno è disposto ad imparare. di Giorgia Cavera
Stendhal
“Napoli, 11 gennaio 1817. Entrata grandiosa: si scende per un’ora verso il mare attraverso un’ampia strada, scavata nella roccia tenera, sulla quale la città è costruita. Solidità dei muri. Albergo dei Poveri, primo edificio. E’ molto più impressionante di quella bomboniera, tanto vantata, che a Roma si chiama porta del popolo. Parto. Non dimenticherò né la via Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli; ai miei occhi è, senza nessun paragone, la città più bella dell’universo.” Rome, Naples, Florence, Delaunay, Paris 1817.
Johann Wolfgang Goethe
“Come fanno i ragazzi più vispi quando si comanda loro qualche cosa, anche i Napoletani finiscono con l’assolvere il loro compito, ma ne traggono sempre argomento per scherzarvi sopra. Tutta la classe popolana è di spirito vivacissimo ed è dotata di un intuito rapido ed esatto: il suo linguaggio deve essere figurato , le sue trovate acute e mordaci. Non per nulla l’antica Atella sorgeva nei dintorni di Napoli; e come il suo prediletto Pulcinella continua ancora i giuochi atellani, così il basso popolo si appassiona anche adesso ai suoi lazzi. Ora che tutte queste spiagge e i promontori e i seni e i golfi, isole e penisole, rocce e coste sabbiose, colline verdeggianti, dolci pascoli, campagne feconde, giardini di delizie, alberi rari, viti rampicanti, montagne perdute fra le nubi e pianure sempre ridenti, e scogli e secche, e questo mare, che tutto circonda con tanta varietà e in tanti modi diversi – ora, dico, che tutto questo è presente nel mio spirito, ora soltanto l’Odissea è per me una parola viva. Quando io vorrei esprimermi a parole, appaiono soltanto immagini davanti ai miei occhi: il bellissimo paesaggio il mare libero, le isole scintillanti, la montagna ruggente: mi manca la capacità di descrivere tutto ciò. Napoli è un Paradiso, tutti ci vivono in una specie di inebriata dimenticanza di sé; [..] ed é per me una strana esperienza quella di trovarmi con gente che non pensa ad altro che godere.” Viaggio in Italia, Sansoni 1970.
Fernand Braudel
“Dimentichiamo il malessere epidermico; Napoli affascina il visitatore frettoloso d’oggi, come ieri gli amministratori ed i soldati di Carlo V e di Filippo II, alle prese con gli enormi problemi di gestione di un agglomerato tanto vasto: il secondo, per popolazione, del Mediterraneo del XVI secolo, dopo Istanbul; il secondo, anche, del cristianesimo occidentale, dopo Parigi. Impossibile restarvi indifferenti. Ma essa sa, ha sempre saputo difendersi. Ed io mi dichiarerò volentieri colpevole di essermi dato vinto troppo rapidamente o di aver mancato della perseveranza o dell’astuzia necessarie. Impossibile, nondimeno, per me non vagheggiare per Napoli una sorte diversa da quella che le conosco oggi e non invitare i miei amici italiani, per assaporarne reazioni, tanto più inorridite in quanto siano originari di Milano, di Bologna o di Firenze, a immaginare quale avrebbe potuto essere il destino dell’Italia ed il volto attuale di questa città se essa fosse stata preferita a Roma come capitale del nuovo Stato. Roma, che nulla qualificava a svolgere questo ruolo, salvo la sua leggenda e il suo passato, quando Napoli era – e di gran lunga – , malgrado i rapidi progressi di Torino, la sola città ad essere, verso il 1860-70, all’altezza del compito…”
Pier Paolo Pasolini
“Come il tuo nome immediatamente suggerisce, sei Napoletano. Dunque, prima di andare avanti con la tua descrizione, poichè la domanda sorge impellente, dovrò spiegarti in poche parole perché ti ho voluto Napoletano. Io sto scrivendo nei primi mesi del 1975: e, in questo periodo, benché sia ormai un po’ di tempo che non vengo a Napoli, i Napoletani rappresentano per me una categoria di persone che mi sono appunto, in concreto, e, per di più, ideologicamente, simpatici. Essi infatti in questi anni – e, per la precisione , in questo decennio – non sono molto cambiati. Sono rimasti gli stessi Napoletani di tutta la storia. E questo per me è molto importante, anche se so che posso essere sospettato, per questo, delle cose più terribili, fino ad apparire un traditore, un reietto, un poco di buono. Ma cosa vuoi farci, preferisco la povertà dei Napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei Napoletani alle scuole della repubblica italiana preferisco le scenette, sia pure un po’ naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi Napoletani alle scenette della televisione della repubblica italiana. Coi Napoletani mi sento in estrema confidenza, perché siamo costretti a capirci a vicenda. Coi Napoletani non ho ritegno fisico, perché essi, innocentemente, non ce l’hanno con me. Coi Napoletani posso presumere di poter insegnare qualcosa perché essi sanno che la loro attenzione è un favore che essi mi fanno. Lo scambio di sapere è dunque assolutamente naturale. Io con un Napoletano posso semplicemente dire quel che so, perché ho, per il suo sapere, un’idea piena di rispetto quasi mitico, e comunque pieno di allegria e di naturale affetto. Considero anche l’imbroglio uno scambio di sapere. Un giorno mi sono accorto che un Napoletano, durante un’effusione di affetto, mi stava sfilando il portafoglio: gliel’ho fatto notare, e il nostro affetto è cresciuto. Potrei continuare così per molte pagine e, anzi, trasformare questo mio intero trattatello pedagogico in un trattatello dei rapporti tra un borghese settentrionale e i Napoletani. Ma per ora mi trattengo, e torno a te […]. Ma il fatto che tu sia napoletano esclude che tu, pur essendo borghese, non possa essere anche interiormente carino. Napoli è ancora l’ultima metropoli plebea, l’ultimo grande villaggio (e per di più con tradizioni culturali non strettamente italiane): questo fatto generale e storico livella fisicamente e intellettualmente le classi sociali. La vitalità è sempre fonte di affetto e ingenuità. A Napoli sono pieni di vitalità sia il ragazzo povero che il ragazzo borghese.” Lettere luterane, Einaudi Torino 1976.
Sergio Lambiase
Napoli diventa subito per i Tedeschi una città-convalescenziario, idealmente posta a metà strada fra Berlino e la costa africana, lontana dai teatri della guerra europea, sporca ma sprofondata in un clima eccezionale, accattivante, cordiale, finanche servile. Già dunque nel ’40-41 la città pullula di soldati e ufficiali tedeschi, vi è una sezione del partito nazionalsocialista, un nucleo di Hitlerjugend, un’associazione italo-germanica che svolge una febbrile attività di tipo cultural-propagandistico. Per ministri e gerarchi del Reich in visita in Italia, Napoli è una tappa d’obbligo. L’escursione a Capri, Pompei, Sorrento ecc. fa parte addirittura di una convenzione turistica che risale almeno a Goethe. Così a sud di Roma ci vengono tutti, con la tacita determinazione di rimanerci il più a lungo possibile […]. Venire a Napoli in “convalescenza”, addirittura “morire” a Napoli, diventa l’aspirazione segreta di moltissimi soldati tedeschi. Si stabilisce un ponte aereo fra il fronte cirenaico e la città. All’aeroporto gli “ospiti” troveranno un’autoambulanza in attesa; per chi guarisce c’è il miraggio di Capri o di Sorrento[…]. Dalla Germania vengono, nella primavera del 1942, cinquanta mutilati, per trascorrere a Capri un lungo periodo di convalescenza. E’ il primo nutrito gruppo di grandi feriti della guerra europea, che troveranno nell’isola l’illusorio risarcimento delle loro terribili menomazioni. Alla stazione di Napoli accolgono gli ospiti rappresentanze della camicie nere e dei gruppi rionali, reparti d’onore di avanguardisti e giovani fascisti, il console tedesco a Napoli, i membri dell’associazione italo-germanica, dell’Associazione mutilati di guerra e dei fasci femminili. E’ un momento di generale commozione, solenne e importante, mentre la banda suona l’inno dei due paesi alleati. A Capri i mutilati divengono gli ospiti di maggior riguardo. E’ chiaro che i nazisti vogliono dare particolare solennità all’avvenimento, quasi a sottolineare il ruolo che essi vogliono assegnare, non solo nell’immediato, ma nel futuro, a “Die Insel”. Prima di tornare in Germania, i mutilati visitano Pompei. E’ l’obiettivo dei fratelli Troncone ci restituisce una immagine addirittura simbolica del rapporto che i Tedeschi stabiliscono con la terra che li ospita. Non un rapporto con i vivi, ma un rapporto con cose “morte”: strade vuote e splendidi orizzonti archeologici su cui indugia la portantina dell’ufficiale mutilato. Napoli 1940-45, Longanesi Milano 1978
Da Napoli è stato bandito l’agio di muoversi. Il passante si inoltra nel labirinto cieco del tocco e del ritocco, dell’invadenza del prossimo suo presso se stesso. Struscio, scansamento, rinculo e percussione sono tecniche primarie del procedere. E’ invece vana la simulazione della fretta, pantomima altrove efficace a farsi largo. La fretta qui è considerata la manifestazione di un disturbo nervoso. Si è parte di una vischiosità generale che non si può aggirare, in cui si districa meglio chi più sguscia sfruttando la spinta dei corpi altrui, anziché esercitarne una propria. Si è immersi per strada in una dinamica dei fluidi. Non è stata estratta una formula che illustri questo fenomeno: che le strade di Napoli sono flussi regolati da una crisi. Al punto di massimo intralcio si determina una fluidità che sospende in parte la gravità dei corpi, dotandoli di leggerezza e di oleodinamicità. E’ l’effetto che si manifesta nella vasca dei capitoni. […] Napoli viene da oriente, il Tirreno fu solco di vele dall’Egeo. I marinai del grecale vennero a fondare una polis tutta nea e le dettero un nome di ragazza: da allora per chi c’è nato, Napoli è una costola. Chi perde questo luogo è per forza disorientato. Mi è capitato di vedere Napoli sotto altre città. Sotto Gerusalemme, non la geografica, ma la scritta nelle storie sacre, la città in cima alle salite: la lingua ebraica, quando non la maledice, la nomina con un affetto parallelo, anche se superiore, a quello delle canzoni napoletane dedicate al luogo. […] Si vuole che la città appartenga al Sud, anche se si trova al centro del Mediterraneo, che è il continente e contenitore della penisola. Siamo d’Europa solo per la cresta di gallo delle Alpi, siamo di mare per tutto il resto del corpo. Per chi è nato qui, in questo esatto centro, dirsi del Sud è un errore geografico recente, dovuto all’unità d’Italia. Se tracci una linea da Marsiglia a Beirut, da Trieste a Tripoli, dal delta del Nilo a quello del Rodano, dalla Voiussa all’Ebro, trovi lì la città, bisettrice del mare che rende Africa e oriente, slavi, arabi e latini, popoli di un’unica riviera, tutta gente di costa. Quel mare è la stanza su cui si aprono le nostre porte, comprese le acque del Mar Nero e la città di Odessa, carica di vigne e di fichi, di pagine meridionali scritte dal suo Isaak Babel’.
Novantanove In vita mia mi sono appassionato di rivoluzioni. I tristi fatti del 1799 a Napoli non rientrano nella specie. Si trattò invece di un cambio di regime introdotto dalle armi francesi e crollato appena quelle armi si ritirarono. Le rivoluzioni non si possono appaltare. I francesi agirono a Napoli da occupanti e da predoni: impedirono la formazione di un esercito repubblicano indipendente, imposero tasse a loro beneficio e portarono via un bel pò di patrimonio artistico.
Allora spendo due parole di stima per il popolo di Napoli, non plebe ma popolo, che da solo e disarmato fermò l’ingresso del più forte esercito d’Europa. Per due giorni sbarrò ogni strada e capitolò solo perché tradito dai giacobini locali che consegnarono con la frode il forte di Sant’Elmo ai francesi. Credo che il popolo avesse ragione di stare dalla parte dei suoi re, perché con loro erano cittadini di una capitale europea e coi francesi diventavano provincia d’oltremare. Napoli si è mal adattata a ogni riduzione di rango. Non ho paura di mettere anche gli italiani in fondo all’elenco degli occupanti del golfo, perché questo furono i Savoia traghettati dai Mille. Garibaldi non veniva a liberare Napoli ma a prenderla e si affrettò a spiegarsi meglio confermando a prefetto il famigerato Liborio Romano, capo della polizia borbonica. A Napoli mancò uno straccio di re che capisse che nell’Europa delle nazioni l’Italia era destino inevitabile. Mancò un re che stipulasse coi modesti Savoia, signori di una provincia subalpina, un contratto Italia almeno alla pari, non tra occupanti e occupati. Napoli da allora è una capitale europea abrogata, non decaduta ma soppressa, come se Londra fosse stata soppiantata da Edimburgo.
Così è andata e questa è la materia della sua ragionevole strafottenza verso la condizione di capoluogo di regione. Se non si vede l’evidenza dell’enorme orgoglio assopito nei suoi cittadini, non si sta parlando di lei.