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“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) introduzione di Gianandrea de Antonellis (III)

Posted by on Dic 14, 2022

“Ernesto il disingannato” (romanzo del 1874) introduzione di Gianandrea de Antonellis (III)

Lo TrovatoreIl passato ed il presente ovvero Ernesto il disingannato Prefazione S.A.R. Don Sisto Enrico di Borbone Abanderado de la Tradición Introduzione e cura del testo Gianandrea de Antonellis Postfazione

Prefazione S.A.R. Don Sisto Enrico di Borbone Abanderado de la Tradición Introduzione e cura del testo Gianandrea de Antonellis Postfazione
Francesco Maurizio di Giovine con due scritti inediti di Don Carlos vii, Duca di Madrid e di Francisco Elías de Tejada

Introduzione Dal Legittimismo al Carlismo

Un editore coraggioso

Chi era l’audace editore che affrontava gli attacchi della censura (pagando anche con il carcere) per far sentire la propria voce? Si chiamava Pasquale Tomas, subentrato a Don Saverio[1] in qualità di direttore del giornale nel suo quarto anno[2], dopo una carcerazione preventiva di 32 giorni![3] Tomas risulta essere un “tipografo-editore” che aveva la propria amministrazione in Largo del Mercatello 42/43 (odierna piazza Dante) e della cui produzione libraria rimangono pochissimi titoli[4], mentre una quarantina sono quelli editi dallo Stabilimento Tipografico Partenopeo, che essendo ubicato allo stesso indirizzo probabilmente doveva fare capo a lui[5].

Fu comunque un punto di riferimento a Napoli per la pubblicistica religiosa, visto che la «Civiltà Cattolica» – anche quando dopo il 20 settembre 1870[6] fu costretta a spostarsi da Roma a Firenze – continuava a segnalare alcuni volumi che si potevano trovare presso il suo indirizzo.

Il giornale da lui diretto dal 1869 (prima ne era comunque il proprietario) si segnala da un lato per la passione ed il coraggio con cui difende i principi legittimisti; dall’altro – occorre dirlo – dalla scarsa attenzione alla forma. Prendiamo proprio il romanzo Ernesto il disingannato; a prima vista, bisogna ammettere che è scritto male: infarcito di errori di stampa, provvisto di una punteggiatura talvolta fuorviante, eccessivamente sintetico nel delineare il carattere dei personaggi (soprattutto nella seconda parte), non privo di anacoluti, di ripetizioni e di concordanze errate, in palese difficoltà nel gestire i periodi più lunghi, per tacere della confusione su elementi secondari[7]. Insomma, se fosse un tema scolastico, i segni rossi e blu abbonderebbero ed il voto sarebbe indubbiamente negativo: tanti, troppi errori. Così tanti e talvolta così evidenti che non possono non far pensare, prima ancora che ad una incapacità nello scrivere, a sviste maturate in sede di composizione del giornale, probabilmente ad una difficoltà nel “tradurre” in caratteri a piombo la veloce grafia corsiva dell’au­to­re, con interpretazioni che hanno esiti di comicità involontaria.

Facciamo un solo esempio: se si sostiene che per sbarcare a Marsala Garibaldi e i suoi Mille siano partiti dal Parco, anziché da Quarto, escludendo di avere a che fare con un precursore di Achille Campanile, possiamo ragionevolmente ritenere che tale svista clamorosa – come gran parte degli altri errori presenti – sia semplicemente un refuso dovuto alla fretta del compositore di caratteri e che già nella versione in volume (non conservata in alcuna biblioteca pubblica, ma pubblicizzata in vendita a Lire 2,00 nella quarta del giornale) saranno stati presumibilmente emendati.

Invece, superando la mera forma e concentrandoci sul contenuto, il giudizio cambia radicalmente. Per cui perdoniamo la superficialità nella composizione di un giornale che – immaginiamo – per la scarsità di personale e per la fretta dovuta al timore che giungesse un qualche ordine questurino a chiudere la tipografia o a bloccare la vendita dei fogli già stampati, non poteva essere sottoposta ad una attenta revisione. Del resto, è facilmente immaginabile che ai lettori di allora (e come dar loro torto?) interessasse ben più il contenuto che la mera forma: una riprova di ciò è data dalla sparizione (dal primo numero del 1871) della simpatica, ma ingombrante immagine della testata che caratterizzava immediatamente il giornale, togliendo però non poco spazio nella prima pagina. Evidentemente il semplice nome Il Trovatore attirava i seri e nostalgici lettori del giornale assai più che la vignetta ironica[8]; inoltre, dal 1870, il programmatico sottotitolo «Giornale pe lo popolo» (poi sarebbe divenuto «Giornale politico pel popolo») sostituì la dicitura, anch’essa programmatica, «pubbrecarrà tutto chello che trova» e soprattutto il sottotitolo «Giornale spassatiempo»: evidentemente, il tempo dello spasso era ormai finito.

I primati di un romanzo di battaglia

Conscio dell’importanza della letteratura nella battaglia politica, Tomas martedì 5 agosto 1873 inizia la pubblicazione in taglio basso di prima pagina – inizialmente i testi letterari erano stati relegati all’interno o in ultima pagina – de Il passato ed il presente ovvero Ernesto il disingannato, romanzo d’ap­pen­dice che proseguirà per 44 puntate, concludendosi il 15 novembre dello stesso anno.

Si tratta di un racconto legittimista il cui protagonista è uno sfortunato giovane il quale, affascinato dalle teorie risorgimentali, accetta di entrare nella “setta” e di collaborare quale agente segreto alla riuscita dell’impresa unitaria: non combatterà sul campo, ma sarà ancor più utile attraverso vari maneggi, in primo luogo nel corrompere molti funzionari statali ed ufficiali dell’esercito, preparando così il campo alla disfatta militare del 1860. Poiché però si tratta di un uomo cristianamente formato, gli scrupoli di coscienza – sia pur tardivi – non gli mancano e ciò lo metterà contro i suoi vecchi compagni di congiura.

Attraverso le sue avventure viene svelata la principale arma della rivoluzione italiana: non la potenza militare del Piemonte (semmai la sua posizione diplomatica, enormemente cresciuta dopo la guerra di Crimea), bensì l’inde­bo­li­mento interno degli Stati da attaccare. Gli agenti della “setta”, sostiene il romanzo, sono stati ben più importanti dei canoni rigati di Cialdini…

Il 1873 è anche un anno cruciale per la Terza guerra carlista: la redazione del giornale se ne rende conto e le gesta di Carlo vii – il pretendente legittimista che sta combattendo in prima linea per riavere il proprio trono, sottratto a suo nonno Carlo Maria Isidoro dalla Prammatica Sanzione del 1830 che lo aveva assegnato a Isabella ii – occupano sempre più spazio sulle colonne del giornale che, come detto, da sempre dedica alla letteratura d’appendice uno spazio fisso.

Dopo l’intermez­zo di un romanzo sociale e di un romanzo storico[9], il 9 giugno 1874 viene proposta ai lettori la continuazione de Il passato e il presente: con La fine di Ernesto il disingannato, le nuove vicende del protagonista si snoderanno per 41 puntate fino al successivo 15 settembre.

«Ho scritto questo libro perché non ho potuto dare una battaglia», aveva sostenuto Francesco Domenico Guerrazzi a proposito del proprio romanzo storico La battaglia di Benevento (1827-1828)[10]. Che la conoscesse o meno, anche l’ignoto autore di Ernesto il disingannato si è ispirato a questa massima: certamente quest’ulti­mo scritto non appartiene a uno dei gran­di della letteratura e non si tratta di un capolavoro nascosto della narrativa ottocentesca; il suo fine era però quello di essere un’arma politica e come tale va giudicato.

Ad ogni modo possiamo sostenere che provenga da un ingegno non comune: la storia – costruita su indubbie suggestioni dei romanzi di padre Bresciani[11], ma anche di quelli di padre Ballerini[12]) apparsi sulla «Civiltà Cattolica» – è tutto sommato avvincente e serve per divulgare quasi subliminalmente una serie di pesanti critiche alla rivoluzione italiana. Inoltre, nonostante l’ingenuità dello scritto, dobbiamo riconoscere di essere di fronte ad un romanzo compiuto, ancorché molto semplice: non si tratta, in altre parole, di una mera cornice per descrivere i nefasti del Risorgimento, come sarà il più tardo Edoardo e Rosolina (1880)di Don Giuseppe Buttà[13], sorta di saggio “travestito” da romanzo (o come lo era stato, per certi versi, lo stesso secondo romanzo politico di padre Bresciani, La Repubblica romana).

A fianco dell’ingenuità di scrittura vanno riconosciuti almeno due “primati” di Ernesto il disingannato: è il primo romanzo “borbonico” scritto a Napoli ed è il primo romanzo italiano a parlare di Carlismo e – conseguentemente – a proporre una visione del legittimismo che va ben oltre i confini nazionali; viene infatti delineata una sorta di “internazionale legittimista” che unisce i sostenitori dei tre rami della Dinastia dei Borbone scacciati dal proprio Trono (nelle Due Sicilie, in Spagna e in Francia) per difendere il concetto di Monarchia legittima e cristiana.

Leggendo la sua prima parte, che si svolge quasi esclusivamente a Napoli (con una importante puntata in Puglia), il romanzo potrebbe essere giudicato semplicemente come “antiunitario” e quindi, da questo punto di vista, privo di una sua peculiare originalità, poiché giunto sia dopo i citati romanzi (non propriamente “borbonici”, ma più genericamente “antiliberali”) di padre Bresciani, risalenti ai primi anni Cinquanta, nonché dopo due titoli apertamente “antipiemontesi” di padre Ballerini pubblicati sulla «Civiltà Cattolica»: Giulio ossia un cacciatore delle Alpi nel 1859[14], di ambientazione prevalentemente settentrionale; e La poverella di Casamari. Racconto storico del 1860 e 1861[15], che si svolge nel basso Lazio.

Ad Ernesto rimane però – allo stato attuale degli studi – il primato di essere il primo romanzo esplicitamente “borbonico” nonché il primo scritto letterario post-unitario di ambientazione (e di realizzazione) napoletana; in più, la seconda parte è molto particolare perché allarga enormemente gli orizzonti con una impostazione che va ben al di là della pretesa di restaurazione dinastica e delle lamentele sullo sfacelo socio-economico (che costituiscono lo sfondo – e presumibilmente la causa scribendi – della prima parte) in seguito all’annessione al Piemonte.

Va poi sottolineata la peculiarità di essere narrato quasi interamente dalla prospettiva non di un fedelissimo borbonico, ma di un agente liberale del quale si assisterà all’inganno, al disinganno ed infine alla conversione alla buona battaglia[16].

E allora: chi si cela dietro l’anonimato?

Le ricerche sulla paternità dell’opera sono finora state vane: da un lato lo stile è troppo naïve per poter essere uscito dalla penna di un Mastriani; dall’altro è evidentemente troppo sentito e partecipato dal proprio autore, per poter essere affidato a un qualunque “pennivendolo” che, un tanto al rigo e sotto la garanzia dell’anonimato, avrebbe potuto costruire la vicenda.

Peraltro questi giornali “militanti” solitamente si basavano su un ristretto numero di collaboratori, che fungevano non solo da inviati e giornalisti, ma spesso anche da distributori e da procacciatori di pubblicità, se non proprio da strilloni!

Inutile, allora, scervellarsi a immaginare una Matilde Serao (1856-1927) alle primissime armi, un Filippo Volpicella (1803-1881) anziano e affaticato o un Giacomo Marulli (1822-1883) in ristrettezze e quindi disposto a svendersi: più facile – e più logico – pensare a qualche più o meno oscuro collaboratore del giornale che, con un occhio lanciato agli scritti di altri autori, ha confezionato un ibrido tra il cristianesimo sociale di Mastriani ed il cristianesimo tradizionale di Bresciani, immaginandosi (o illudendosi) di essere un Guerrazzi e finendo per risultare un qualunque Mameli – pessimo poeta dalla fama usurpata – senza raggiungerne neppure la fama postuma, avendo militato dalla parte sconfitta della barricata[17].

Una ipotesi plausibile potrebbe essere anche quella di due autori diversi[18], data la differenza di stile e contenuto tra le due parti: la seconda è più sintetica, ma con una più ampia visione politica. Prendiamo, ad esempio, uno dei momenti letterariamente meglio costruiti: il dialogo[19] tra l’usuraio (pardon, banchiere) ed il sovversivo (pardon, patriota), che mette in luce (come avviene, va detto, ogniqualvolta il sordido Bartolomeo fa la sua apparizione) l’intrico di squallidi interessi personali che alimenta il preteso idealismo risorgimentale.

Una simile attenzione al particolare contrasta con l’asciuttezza di altri passaggi, in cui l’introspezione psicologica è estremamente carente; e ciò si avverte ancor più nella seconda parte, più limitata nella costruzione della trama, che sostanzialmente si limita a seguire le vicende del protagonista fino al finale drammatico (e degno di un feuilleton).


[1] Pseudonimo di Giovanni Gagliardi (1837-1908) (cfr. Cristiana Anna Addesso, Ritratto de «Il Diavolo Zoppo. Giornale umoristico con caricature» (1858-1860) in Giornalismo letterario a Napoli tra Otto e Novecento, a cura di Pasquale Sabbatino, Esi, Napoli 2006, p. 204). Lo scrittore «nacque in Napoli il dì 8 Novembre 1837. Il Gagliardi, non tralasciando mai di scrivere il dialetto, è stato il primo tra noi che avesse cominciato a scrivere de’ Romanzi in Vernacolo; e ne abbiamo veduto intrapresi due sopra alcuni periodici, cioè sullo Zingaro, ora spento, e sul Trovatore: di questi Romanzi uno ne ha portato a termine» (P. Martorana, op. cit., p. 204). Dallo stesso saggio (p. 299 e 443) ricaviamo anche il nome di un altro collaboratore del giornale, il conte Giacomo Marulli (1822-1883).

[2] Dal n. 16 (16 marzo 1869): il n. 15 risaliva al 6 febbraio. Tomas sarebbe rimasto alla direzione fino al 26 agosto 1876, dopo di che sarebbe stato sostituito da Luigi Lelio, fino all’ultimo numero del giornale (20 novembre 1877).

[3] Cfr. Lo Trovatore carcerato,editoriale del 16 marzo 1869. Assieme a Tomas finirono in carcere il commendator Ercole Ragozzino e il giornalista palermitano Giovanni Gervasi, direttore de Il Popolo. In un’altra cella rimase – ancora più a lungo dei precedenti – anche il commendator Nicola Merenda e suo figlio Eugenio, arrestati nello stesso giorno.

[4] Tra di essi vanno ricordati: Gennaro Lepore, La sferza contemporanea (1862); un “classico” del canonico Alfonso Muzzarelli [1749-1813], Il buon uso della logica in materia di religione (1864); un pamphlet politico, Una lettera del deputato Finzi. I nostri commenti. La lettera di [Alessandro] Nunziante al Finzi. Le nostre osservazioni. Il due novembre (1870) – libricino annunziato sull’ultima pagina de Lo Trovatore del 30 dicembre 1869 – e Giovanni Battista Pagani, Il mese eucaristico ossia l’anima divota della SS.ma Eucaristia (1871), con almeno sette edizioni.

[5] Lo si evince da una entusiastica segnalazione della «Civiltà Cattolica» (1871, vol. ii, p. 336) a Edoardo Ciccodicola, Il Concilio Vaticano pietra di paragone pei Cattolici (Stabilimento Tipografico Partenopeo Napoli, 1871), in cui si specifica: «si vende presso Pasquale Tomas».

[6] Va segnalato che anche Il Trovatore ebbe noie censorie al momento della breccia di Porta Pia, venendo bloccato dal 26 settembre al 6 ottobre 1870.

[7] Pochi esempi: il personaggio del «nobilissimo signorino e ricco a dismisura» innamorato di Erminia, disposto a vendicarsi su qualsiasi rivale (I, 4), completamente dimenticato subito dopo essere apparso; la lunghezza del primo viaggio di Ernesto (I, 8) che varia da un intero mese a «pochi giorni» nel giro di qualche pagina; e l’età di Emilia: 18 anni nel 1858 e 24 due anni dopo…

[8] Un trovatore (ossia un trovarobe, non un poeta medioevale), munito di una lanterna, scopre un drago chiamato “Consorteria” che divora il “Popolo”, mentre nelle vicinanze striscia il serpente “Camorra”. Appare fino al dicembre 1868; dopo due mesi di assenza, dal 16 marzo 1869 (quando Tomas assume la direzione) a tutto il 1870 ne compare un’altra (modificata nel 1870): di fronte ad uno spaventato trovatore, il drago, rintanato nella grotta dei “Ministeri”, addenta il già spolpato teschio del “Popolo”. Cfr. Appendice, p. xx.

[9] Rispettivamente: La fanciulla della Fontana di Porto, ovvero Iddio non paga il sabato. Racconto popolare e Costanza di Chiaromonte. Romanzo storico-patrio del secolo xiv., anch’essi anonimi.

[10] Cfr. Marco Monnier, L’Italia è ella la terra de’ morti?, Naratovich, Venezia 1863, p. 308.

[11] Il gesuita Padre Antonio Bresciani (1798-1862) fu una delle firme più prestigiose della «Civiltà Cattolica», di cui era tra i fondatori; è noto soprattutto per la “trilogia della Repubblica romana” (L’Ebreo di Verona, La Repubblica romana, Lionello o Le società segrete), pubblicati tra il 1850 e il 1852.

[12] Raffaele Ballerini (1830-1907), gesuita, alla morte di padre Bresciani ne raccolse il testimone e a lungo pubblicò i suoi romanzi a puntate sulla «Civiltà Cattolica».

[13] Don Giuseppe Buttà (1826-1886) fu autore di due imprescindibili testi “filoborbonici”: il memoriale Viaggio da Boccadifalco a Gaeta (1875) ed il saggio I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli (1877).

[14] Lo scritto, uscito tra il 1862 ed il 1863, di posizioni antiliberali e fortemente antisabaude, ebbe grande risonanza all’uscita in volume (1873) per il clamoroso processo per vilipendio verso le istituzioni dello Stato; in precedenza era stato pubblicato anonimo (come rigidamente si usava sulla «Civiltà Cattolica») e pubblicato nello Stato della Chiesa: quindi al governo italiano era stato possibile “solo” sequestrare i numeri della rivista.

[15] Il romanzo, apparso tra il 1863 ed il 1864, è un affresco del brigantaggio ai confini settentrionali delle Due Sicilie: campeggiano nella storia il “brigante” Chiavone ed il conte Emile Théodule de Christen. Al centro, il sacrilego saccheggio del­l’ab­ba­zia di Casamari effettuato dalle truppe piemontesi.

[16] Se, sotto questo aspetto, c’è un indubbia suggestione del personaggio di Aser, l’eroe eponimo de L’Ebreo di Verona, passato dalla setta mazziniana alla conversione al cattolicesimo, va peraltro notato che lo stesso Carlo Alianello (1901-1981) – autore delle opere narrative L’alfiere (1942), Soldati del Re (1952), L’eredità della priora (1963), considerato il massimo scrittore “borbonico” e capostipite del revisionismo risorgimentale – giungerà a questo espediente narrativo solo nel suo ultimo (e probabilmente più maturo) romanzo, L’inghippo (1973), uscito esattamente cento anni dopo Ernesto.

[17] Va però riportata una curiosità: all’inizio di Edoardo e Rosolina di Giuseppe Buttà troviamo scritto: «L’autore de’ Borboni di Napoli ecc., quando annunziò la continuazione di Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, promise che gli avrebbe dato il titolo: Il Passato e il Presente; nonpertanto ha creduto cambiarlo in questo che porta, senza alterarne la sostanza». Da ciò si evince sia che l’autore stesso considerava l’Edo­ar­do più come un saggio che come un romanzo, sia che – forse – il testo anonimo pubblicato da Pasquale Tomas era abbastanza noto da consigliare a Buttà di evitare confusioni.

[18] Una suggestione potrebbe giungere dalla figura del giornalista Giovanni Gervasi, di idee repubblicane, che propugnava un’unione tra radicali e borbonici contro i liberali. Gervasi – che aveva scritto un pamphlet sulle carceri sabaude (Sulle prigioni di Napoli, Lorenzo Rocco, Napoli 1869), definendo buscherate (p. 9) le invenzioni di Gladstone e che, come accennato, aveva passato un mese in carcere assieme a Tomas – potrebbe essere, se non l’auto­re, data la superiore qualità del suo stile, almeno l’ispiratore del romanzo.

[19] I, 5. La qualità “teatrale” potrebbe rimandare al commediografo Marulli.

Gianandrea de Antonellis

PUNTATE PRECEDENTI

Il passato e il presente ovvero Ernesto il disincantato, romanzo anonimo

Prima edizione: Stabilimento Tipografico Partenopeo, Napoli 1874

© 2016 Vincenzo D’Amico e Gianandrea de Antonellis

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