Alta Terra di Lavoro

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Forse i mali di oggi cominciarono più di due secoli fa… anche in una città periferica come Militello, Sicilia (parte settima

Posted by on Gen 3, 2018

Forse i mali di oggi cominciarono più di due secoli fa… anche in una città periferica come Militello, Sicilia (parte settima
  1. La necessità di un demanio siciliano a garanzia dell’autonomia

Di particolare interesse fu il dibattito tra Vincenzo Natale ed il deputato Carlo Poerio.

“E’ l’abolizione della feudalità” disse Natale in parlamento, “il compito assegnatomi, fin da quando, più di venticinque anni fa, in una piccola città siciliana l’avvocato don Alfio Natale, mio padre, non cominciò ad attaccare i privilegi baronali, ottenendo una prima vittoria!”

“Non occorrono nuove leggi per questo” gli rispose Poerio. “Bastano il richiamo e l’esecuzione  di quelle vigenti, che riguardano tutto il regno.”

“La Sicilia non è Napoli” insistette Natale. “Noi non abbiamo avuto forze rivoluzionarie al governo per un tempo bastante ad incidere sugli usi e sui costumi. Ciò mi ha convinto dell’opportunità, non soltanto di una nuova legge per l’abolizione della feudalità, ma pure di una divisione dei demanii della Sicilia oltre il Faro.”

Così, il 20 gennaio 1821, egli poteva orgogliosamente scrivere al padre. “Il parlamento ha nominato una commissione per presentare al principe vicario le leggi sull’abolizione della feudalità e sul nuovo regolamento delle guardie nazionali. Con la presentazione di queste leggi, concernenti sì da vicino la prosperità nazionale, il parlamento ha voluto festeggiare nel modo più solenne il giorno natalizio del nostro re e padre della patria, che ricorreva il 12 gennaio. Io facevo parte di tale deputazione.”

Peccato che, quasi due mesi dopo, il 15 marzo, in Parlamento Natale era costretto a tornare sull’argomento:

“E’ doloroso non sapere ancora i tempi di esecuzione della legge sull’abolizione della feudalità in Sicilia, mentre occorre una pronta decisione per liberare dall’antica tirannide baronale quest’isola infelice. Ma, so già che tutte le guerre private che mi sono state mosse nel passato e che mi saranno mosse nel futuro sono state causate dal mio interessamento e dalla mia opera contro la feudalità.”

  1. Il voltafaccia del Re

Il 6 gennaio 1821 il generale Pietro Colletta venne richiamato a Napoli ed il suo posto fu preso dal generale Vito Nunziante. In quegli stessi giorni il re Ferdinando I si trovava a Lubiana, dove aveva realizzato il suo ennesimo voltafaccia.

Infatti, era partito da Napoli dicendo:

“Io vado al Congresso per adempiere a quanto ho giurato.”

Una volta fuori della portata dei carbonari, però, aveva chiesto l’esatto contrario:

“Le potenze della Santa Alleanza usino la forza per ristabilire l’ordine a Napoli, se non vogliono che l’ubriacatura rivoluzionaria coinvolga l’intera Europa!”

Gli sbigottiti parlamentari, perciò, il 28 gennaio si videro arrivare la comunicazione delle decisioni reali, concordate coi fedeli alleati austriaci:

“Bisogna distruggere la deplorevole rivoluzione del luglio ultimo. Che i costituzionali delle Due Sicilie ascoltino la voce paterna del loro re; ma, ove questo non facessero, sarebbero le prime vittime dei mali che attireranno al loro paese.”

Quella stessa sera, persino il reazionario ministro austriaco Klemens Wenzel Lothar, principe di Metternich-Winnerburg, affidava l’inevitabile disgusto al suo diario:

“Mi è capitato più volte di dover dire che l’Italia è solo un’espressione geografica. Di questo se ne convincerebbe più di me chi frequentasse Ferdinando I di Napoli ed immaginasse che popolo possa essere quello in cui governa un simile re!”

  1. L’intervento della Santa Alleanza

Al parlamento, nella seduta del 9 febbraio, non restò altra scelta che dichiarare il re prigioniero delle potenze della Santa Alleanza. E fu la guerra.

Ciò mise in allarme il padre del deputato Vincenzo Natale, il vecchio don Alfio. Ci resta un interessante corrispondenza al riguardo, che vale la pena di riportare.

Il 23 febbraio scrisse al figlio:

Le cattive notizie corrono con la velocità del fulmine. Si sa da tre giorni il risultato del congresso di Lubiana contrario alla giurata costituzione, e che il re ne ha fatto la partecipazione al principe reggente, e quindi riunito straordinariamente il parlamento il giorno 12. La guerra quindi mi pare inevitabile. Ho letto un avviso in stampa venuto come si dice da Messina, che invita all’armi i popoli delle Due Sicilie. Ma questo non sarebbe il maggiore dei mali, se non si avesse a temere una nuova insurrezione in quest’isola. Il fuoco dell’anarchia cova sotto le ceneri, ed un piccolo soffio lo farà divampare. Già gli amici dell’Indipendenza gioiscono, ed hanno già alzato la testa.

Erano ritornate, insomma, le divisioni tra cronici indipendentisti e anticronici unitari, le stesse che già avevano fatto fallire il governo costituzionale siciliano del 1812. Lo sbocco inevitabile fu quello di sempre: la sconfitta di tutti.

  1. Fine del parlamento carbonaro

In pochissimo tempo la situazione si fece disperata. Don Alfio Natale in una lettera del 27 febbraio ai figli non nascose il suo pessimismo:

Sono qui arrivate molte stampe eccitanti il patriottismo per il sostegno della Costituzione. Si sa qualche cosa degli avvenimenti dello Stato Romano, e se l’Alta Italia ne imitasse l’esempio, come ne corre voce, sarebbe una gran lezione alla Terra, perché i Potentati rispettino i dritti de’ Popoli. Io però dubito molto che i poveri Italiani possano alzare un dito, atteso lo stuolo d’armati che li circonda. Attendo con ansietà vostre notizie.

Gli austriaci arrivarono in mezzo ad una ridda di voci, di si dice e di ipotesi e con loro aumentò il caos.

A don Alfio, in una ulteriore lettera del 5 marzo, non restò che  prenderne atto:

Le notizie che partecipate si erano già divulgate per via di molte stampe, che rapidamente si succedono da un giorno all’altro. Anzi argomento che molte di queste non si verificano, giacché voi non ne fate altro cenno, come sarebbe la sollevazione della Prussia e del Piemonte e Genovesato, per avere la Costituzione; il prossimo arrivo di 30.000 fucili, e di un corpo di milizie spagnuole, e che gli Austriaci marciano di mala voglia contro Napoli. Il tutto dunque si riduce, secondo si deduce dalle vostre lettere, allo Stato Romano, che ha proclamato la Costituzione di Spagna e ha formato quattro campi per raccogliere truppe e ingrossare l’esercito. Ma, come questo esercito, che non può essere molto numeroso, né ben organizzato e disciplinato, potrà resistere al colossale e agguerrito esercito austriaco che già sta per scacciarlo, senza un pronto e potente soccorso che lo sostenga? Io spero è vero nell’energia e nell’entusiasmo dei nostri, ma molto più temo la potenza dei coalizzati. Prevedo al tempo stesso che in quest’Isola dovrà risorgere la non ben estinta anarchia.

Finalmente, il 25 marzo, le truppe austriache entrarono a Napoli, mettendo fine all’ esperienza parlamentare carbonara.

  1. La carboneria torna nell’ombra

Soltanto le trentacinque vendite carbonare di Messina, agli ordini del generale Giuseppe Rossaroll, pensarono di resistere.

Purtroppo, ogni buona intenzione durò lo spazio di un mattino, poiché all’avvicinarsi delle armi della reazione vittoriosa, il Rossaroll si ritrovò solo.

Non gli restò, quindi, che fuggire in Spagna.

Morì nove anni dopo, combattendo per la libertà della Grecia, come George Gordon Byron e Santorre di Santarosa.

La carboneria tornò a far parlare di sé con le rivolte siciliane del 1837, che nacquero dalle dicerie sull’esistenza di agenti del governo che spargevano il colera.

In quello stesso anno a Milano lo scrittore Alessandro Manzoni revisionava il romanzo I promessi sposi. Le notizie che gli arrivavano da Palermo, da Siracusa, da Catania probabilmente lo resero ancora più scettico sull’affidabilità del detto vox populi, vox Dei.

Pensò, al contrario, che il popolo sa essere un gran bestia e probabilmente aveva in mente quei fatti contemporanei, scrivendo la famosa scena  di Renzo che bussa al portone di don Ferrante, nella Milano del Seicento.

Renzo afferrò ancora il martello, e, così appoggiato alla porta, andava stringendolo e storcendolo, l’alzava per picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso. In quest’agitazione, si voltò per vedere se mai vi fosse d’intorno qualche vicino, da cui potesse forse aver qualche informazione più precisa, qualche indizio, qualche lume. Ma la prima, l’unica persona che vide, fu un’altra donna, distante forse un venti passi; la quale, con un viso ch’esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, con cert’occhi stravolti che volevano insieme guardar lui, e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma rattenendo anche il respiro, alzando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinzose e ripiegate a guisa d’artigli, come se cercasse d’acchiappar qualcosa, si vedeva che voleva cercar gente, in modo che qualcheduno non se ne accorgesse. Quando s’incontrarono a guardarsi, colei, fattasi ancora più brutta, si riscosse come persona sorpresa.

“Che diamine…?” cominciava Renzo, alzando anche lui le mani verso la donna; ma questa, perduta la speranza di poterlo cogliere all’improvviso, lasciò scappare il grido che aveva rattenuto fin allora:

“L’untore! Dagli! Dagli! Dagli all’untore!

  1. Il 1837

La tensione durava dal 1836, quando a Napoli era spuntato il colera.

I moti veri e propri, però, si ebbero quando il contagio giunse in Sicilia.

Il primo scoppiò il 12 luglio 1837, a Messina, cuore del traffici commerciali del regno. Il popolo assalì l’ufficio sanitario del porto, calpestando le insegne borboniche, perché un piroscafo con a bordo truppe borboniche non aveva rispettato la quarantena.

Quando si manifestò a Palermo, il colera era nel punto più alto della sua virulenza. Arrivarono a morire in un solo giorno circa 1.800 persone.

In quell’occasione, fra gli altri, scomparvero anche due grandi scrittori, lo storico Nicolò Palmieri ed il letterato Domenico Scinà.

In tale tragica congiuntura, anche molte persone di buona cultura cominciarono a condividere con le donnette (o a fingere di condividere, il che è peggio) la convinzione che il colera fosse sparso ad arte dal re, per diminuire le bocche da sfamare e per punire i siciliani indipendentisti.

La situazione precipitò a Siracusa, dove scoppiò una violentissima rivolta. Un francese, un poveraccio di nome Giuseppe Schwentzer, che vendeva intrugli contro il malocchio, venne accusato di essere un untore. Sol per questo una turba di invasati, fra gli applausi generali, uccise lui, la moglie e, per non sbagliare, anche dei funzionari statali.

Subito dopo, venne formato un Comitato di salute pubblica, che assunse i pieni poteri. Uno dei capi era l’avvocato Mario Adorno, politico amatissimo dalla folla. Su quali basi, lo si capisce da una frase del proclama che scrisse:

il veleno che aveva fatto stragi a Napoli e a Palermo ha trovato la tomba nella patria di Archimede.”

In altre parole, uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, ucciso dalla soldataglia ignorante, avrebbe dovuto essere contento di quei morti ammazzati!

  1. La rivolta di Catania

Anche a Catania la paura del colera creò un clima di ribellione nei confronti dei Borbone.

“La molla di un siffatto timore gigante ed universale ha eccitato il popolo!” esclamò, infatti, Gaetano Mazzaglia, davanti agli amici pronti all’insurrezione. “Ed i liberali, quand’anche non credessero all’avvelenamento, di tale credenza debbono avvalersi.”

“Il cholera morbus”  continuò il professor Salvatore Barbagallo Pittà, “altro non è se non il risultato di polveri e liquidi venefici, agenti nelle sostanze cibarie, nei potabili e sin anche per la via degli organi respiratorii, infettando l’aria di micidiale fetore.”

Su una spiegazione scientifica del genere, quel giorno stesso i rivoltosi elaborarono una piattaforma politica, dove, insieme all’indipendenza da Napoli, si chiese la decadenza dei Borbone ed il ripristono della Costituzione del ’12.

Indi” scrisse uno scrittore coevo, “è abbattuta la statua del re Francesco I avanti l’Università, ed è giurata nel Duomo e sottoscritta l’indipendenza siciliana il 1° agosto, da chi? Da quello stesso Intendente, dal Senato, dai magistrati, non esclusi i procuratori generali e regi, e da tutti gli impiegati amministrativi e giudiziari, da quel marchese presidente della Giunta e da questa.

Al comando del movimento fu messa una Giunta di pubblica sicurezza, che poi divenne Giunta di governo, di 21 membri.

Ogni istinto di ribellione fu spento dal marchese Francesco Saverio Del Carretto, notoriamente il ministro più duro del regno. Del resto, i fatti che infiammavano la Sicilia orientale erano tali, da non lasciare spazio alle pazienze della diplomazia. Naturaliter, quindi, il re gli aveva dato i pieni poteri dell’alter ego, col compito di stroncarli sul nascere.

Così, dopo i moti, con monotona ripetitività, vennero le repressioni poliziesche.

Salvatore Paolo Garufi

militello

 

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