Guai ai Vinti (2^ Parte)
«Sappiamo bene che c’era già una “Questione meridionale”: ma sarebbe rimasta come una vaga “leggenda nera” dello Stato italiano, senza l’apporto degli scrittori meridionali.»
La definizione “Questione meridionale” venne usata per la prima volta nel 1873 in parlamento intendendo con questo tutte le problematiche attinenti la mancata omogenizzazione del nuovo stato, dove l’unità si era tradotta in termini pratici in una annessione da parte del Piemonte delle altre regioni italiane. La Lombardia e la Toscana, data l’affinità culturale e una certa identità socio economica, parteciparono presto alla gestione del nuovo governo, ciò non avvenne per la parte meridionale della penisola per una serie di circostanze, di cui la principale è senza dubbio l’impostazione politica originaria data allo stato da Cavour, per il quale l’Unità rappresentava la possibilità di un grande Piemonte e non certo l’organizzazione di una grande Italia. Il Regno delle Due Sicilie rappresentava nel 1860 lo Stato più popoloso, più industrialmente avanzato e sicuramente più ricco d’Italia, inoltre aveva già una sua propria identità statuaria ormai consolidata in più di 8 secoli d’unità, nell’ambito della politica cavourriana le possibilità erano due: o consentire che il baricentro economico e conseguentemente politico restasse dov’era sempre stato, cioè a Napoli, oppure smontare il sistema economico-politico duosicilano favorendo la nascita di un nuovo soggetto avente il proprio fulcro fra Milano, Torino e Genova. Non c’è bisogno di sottolineare che si optò per questa seconda soluzione. Il discorso è talmente articolato che è necessario una suddivisione in argomenti per poterne capire la portata ed i modi attraverso i quali si compì l’opera e si fece nascere quella che a tutt’oggi ancora viene definita “Questione Meridionale”.
STORIA NEGATA – CI INVASERO
Gli splendori economici e culturali della Magna Grecia di cui il meridione d’Italia è stato fulcro, sono stati trattati con ampiezza da moltissimi autori. La grandezza di Siracusa, di Sybari, di Taranto e la favolosa cultura che in esse si sviluppò è oggetto di studio da sempre. La civiltà Ellenistica, che ha dato origine a quella Romana e poi a quella Europea, ebbe i suoi due poli principali in Siracusa e Alessandria d’Egitto e si sviluppò pienamente nelle lande calabresi, siciliane e pugliesi. Basti pensare che intorno al 450 a.C. Filolao da Taranto ipotizza in un trattato un sistema solare di tipo eliocentrico, anticipando di 2000 anni Galileo, per comprendere di che spessore fosse il sapere che vi si produceva e che sempre nell’arco di territorio tra la Sicilia e S. Maria di Leuca vivono e operano personaggi del calibro di Archimede o di Pitagora, fondatori delle scienze fisiche e matematiche di cui Copernico o Newton sono stati solo epigoni. Le arti e le scienze in tutti i settori conoscono uno dei momenti magici della storia, la pittura la scultura, la poesia e il teatro, la musica e la retorica, la filosofia e il pensiero politico raggiungono vette altissime. La Magna Grecia muore per mano romana. Le splendide città del Sud vengono asservite alla barbarie latina, cento anni di guerre sanguinosissime sanciscono la fine di una grande civiltà che fino a quel momento aveva rappresentato il faro del sapere del mondo e che vide le proprie città distrutte e le proprie genti schiavizzate. Comincia qui la prima colonizzazione meridionale, i romani creano i “latifundia”, risucchiando le risorse dal ricco sud per romanizzare la valle padana. Nascono Milano, Piacenza, Verona, Mantova quali città di una cortina difensiva destinata a contenere le aggressioni barbariche d’oltralpe. La dominazione romana durerà a lungo tenendo innaturalmente insieme i due tronconi d’Italia già così diversi tra loro per circa quattro secoli. Ferum victorem Graecia capta cepit recitano i classici latini, i commentatori moderni pongono l’accento sul fatto che la sapienza greca (cioè meridionale) si impose a Roma nonostante la sconfitta militare, molto meno sulla parte iniziale della frase, ferum victorem significa vincitore feroce il che la dice lunga sui i modi e i termini della conquista romana. Dopo i secoli bui delle invasioni barbariche (IV – X sec A.C.) alle quali solo i bizantini del meridione fecero argine, la colonizzazione araba della Sicilia riportò sui territori italiani regrediti per effetto di tali invasioni ormai all’età del ferro, gli elementi tecnologici, culturali e i principi dello scambio mercantile elaborati nell’età classica. A partire dal Sud, l’Italia e poi l’intero continente riacquistò quelle competenze perdute nei secoli dopo la caduta dell’Impero Romano e ricominciò il suo faticoso ma brillante rinascimento. L’Europa feudale è ancora immobilizzata da quei popoli di origine germanica responsabili della regressione culturale dell’occidente di millenni. La Chiesa Romana, al fine di conservare la propria indipendenza e potere temporale, impone, in questo periodo, la divisione della Penisola in due aree politiche: un’area frantumata in signorie regionali e municipi al nord di Roma e un regno unitario invece al Sud, destinato a impedire l’emergere di una potenza nazionale italiana. Siamo intorno al 1000, il contadino europeo a stento riesce a produrre il minimo necessario per sopravvivere. Il rapporto percentuale tra il numero dei contadini impegnati nella produzione agricola e la classe di persone in grado di sopravvivere senza lavorare è abbondantemente al di sotto dell’un per cento. L’antropologia ci insegna che la cultura e la tecnologia nascono e progrediscono solo dove si producono dei surplus alimentari sufficienti a liberare una parte della popolazione dalle incombenze produttive. In questo periodo solo in Sicilia e in alcuni altri luoghi del Sud ciò avviene. Palermo diventa, forse con l’esclusione di Pechino, la città più grande e progredita del mondo e mantiene questo standard per centinaia di anni. All’ombra della grande capitale siciliana molte città meridionali conoscono momenti di notevole sviluppo: la splendida e potente Amalfi, Napoli, Bari che rappresenta la porta d’Oriente, Mola e Rossano in Calabria. La centralità del Sud nell’esportazione di manufatti che venivano richiesti da re, imperatori, baroni e vescovi barbarici, è largamente attestata, basta leggere qualche pagina del fiorentino Giovanni Boccaccio o fare un giro turistico per il Baresano e il Salento, per fortuna risparmiati dai terremoti che, altrove, hanno distrutto quasi tutto per rendersene conto. Nei periodi successivi, stabilizzatasi l’immigrazione barbarica, i paesi occidentali procedettero faticosamente sulla strada dello sviluppo transitando dalla servitù della gleba (fattispecie mai esistita peraltro al sud), e dal tributo signorile allo scambio monetario, alla libertà di vendere le eccedenze agricole e il proprio lavoro, alla proprietà piena ed esclusiva dei beni mobili, compreso il danaro, e dei beni immobili. Il Sud italiano è la fonte della conoscenza attraverso la quale detto sviluppo ha luogo. Le produzioni intellettuali provenienti dal mondo ellenistico e romano qui non sono mai scomparse, si sono anzi arricchite di nuovi elementi importati dagli arabi, che a loro volta le avevano mutuate dalla cultura cinese e indiana. Un compendio di tali culture viene concretizzato sotto Federico II, il “Puer Apuliae stupor mundi”, il ragazzo di Puglia stupore del mondo, Re del Meridione che attraverso diritti dinastici acquista anche il titolo di Imperatore e che con le sue “Constitutiones” getta le basi del diritto positivo moderno e imprime un’ulteriore accelerazione allo Stato meridionale in termini di cultura e sviluppo. I secoli successivi registrano uno stallo a causa delle controversie secolari che contrapporranno Papato e Impero. Morto Manfredi, figlio di Federico, sul campo di battaglia, il Regno delle Due Sicilie diviene merce di scambio pregiata nelle contese dinastiche che avveleneranno l’Europa per secoli. Ciò non impedirà alle grandi città del regno come Napoli, Palermo, Messina, Catania, Reggio, Bari e Lecce di vivere splendide stagioni artistiche e culturali. Il barocco leccese ad esempio, mirabile esempio di arte autoctona, nasce e si sviluppa fra il XVI e il XVII sec., lasciando vestigia che incantano ancora oggi. I re e viceré che si avvicenderanno dal XIII al XVII secolo assorbiranno la cultura locale e si meridionalizzeranno fino all’identità. Non c’è dubbio che la fortissima pressione fiscale operata da angioini ed aragonesi prima e dagli spagnoli poi impoveriranno non poco la nazione. L’anno del signore 1734 rappresenta la data del riscatto del Sud. Una nuova dinastia rivendica l’indipendenza del regno da qualsiasi influenza straniera e dal Papato. Carlo III di Borbone Farnese, figlio di Filippo V di Spagna e della principessa Elisabetta Farnese, vera artefice del nuovo assetto politico italiano, dichiara libero lo Stato duosiciliano e con la Prammatica Sanzione del 1759 ne stabilisce la definitiva separazione dalla Spagna, rintuzza le pretese austriache battendoli sul campo di battaglia due volte, prima a Bitonto e poi a Velletri e costruisce le basi di uno stato moderno di stampo illuminista. Il suo primo ministro, il toscano Bernardo Tanucci ne progetta le fondamenta giuridiche ed economiche, l’impulso allo sviluppo della società civile, ai commerci e alle arti è possente. Il Regno delle Due Sicilie diventa in pochi decenni protagonista sulla piazza europea. Negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione francese esso è già ridiventato, e di gran lunga, lo Stato più moderno, più organizzato, più ricco e popoloso d’Italia. Nel primo quindicennio del XIX sec. l’Europa è spazzata dai venti napoleonici, e il Regno non fa eccezione. Un solo evento è veramente degno di nota, esso differenzia i meridionali da qualsiasi altro popolo europeo e lo accomuna alla Vandea francese: l’Epopea Sanfedista. Un movimento popolare, cattolico e legittimista che riesce a scacciare la prima ondata di invasori francesi dal suolo nazionale. Il popolo del Sud è libero e indipendente e tale vuole restare. Essi francesi saranno poi portatori di repressione militare e di pesantissime tasse e tributi molto più che di Fraternitè, Libertè ed Egalitè come stupidamente qualche autore neo-giacobino afferma. I due decenni successivi al congresso di Vienna registreranno un momento di transizione che si risolverà con l’avvento al regno di Ferdinando II di Borbone. L’impulso che dà allo sviluppo della nazione è impressionante: la marina mercantile duociliana diventa in meno di vent’anni la terza d’Europa per quantità e qualità, gli impianti agricoli intensivi si moltiplicano favoriti da un apposito centro studi statale creato all’uopo, nascono al Sud le prime industrie italiane, sono industrie tessili, setifici, cartiere, concerie, industrie metalmeccaniche e siderurgiche che producono locomotive e macchine a vapore e semilavorati del ferro, tabacchifici e cantieri navali fra i migliori del mondo. Napoli è una metropoli, terza per abitanti in Europa dopo Londra e Parigi, sede del teatro più famoso del mondo, il San Carlo , la sua strada principale -via Toledo- è descritta dai visitatori del tempo come la strada più bella del mondo, le residenze reali sono stupende, la reggia di Caserta è seconda forse solo a Versailles per magnificenza. Il re Borbone gode di un prestigio notevolissimo sulle piazze internazionali, la finanza pubblica è solidissima. Spesso nell’immaginario dell’italiano si immagina la ottocentesca Milano piena di fabbriche, Genova ingolfata di navi e una Torino che sfornava vagoni e locomotive a migliaia sotto le direttive del grande Cavour. Il tutto è assolutamente falso. Soltanto Milano mostrava una modesta ripresa economica dopo il disastroso periodo napoleonico e solo per merito della produzione della seta e non per altro, mentre Genova scontava un profondo declino. Peggio stava la gloriosa e serenissima Venezia, il cui porto sopravviveva solo grazie al fatto di essere la base della flotta austriaca. Firenze aveva da tempo dimenticato gli splendori rinascimentali e Torino era rimasta la città torpida e provinciale che era sempre stata, con un piede al di là delle Alpi e la testa rivolta a Parigi. In ogni caso nessuna delle altre città italiane aveva niente di paragonabile alla grandezza e agli splendori culturali e commerciali di una capitale mondiale come Napoli. Quando a scuola ci si riferisce ad alcune invenzioni che creano nella mente dello studente l’idea della modernità come le prime navi a vapore o le locomotive, nelle classi scolastiche italiane si omette di dire che, per fare un esempio, quando il Piemonte prese la decisione di dotarsi di ferrovie, fu l’industria napoletana a fornirgliele, segno evidente dell’enorme differenza di condizione di sviluppo industriale fra i due regni. Il Regno delle Due Sicilie aveva decisamente intrapreso la strada dell’industrializzazione, sebbene secondo un proprio ed originale modello, ed era nel decennio 1850-60 lo stato più sviluppato d’Italia e avrebbe potuto probabilmente competere con la Francia e l’Inghilterra nel medio periodo. In ogni caso se qualcosa di moderno e innovativo in questo periodo in Italia c’era, sia in campo economico sia tecnologico e culturale, questo qualcosa stava sicuramente di casa a Napoli non certo a Torino né a Milano. Il problema grosso per il regno meridionale era dato dall’intolleranza di Francia e soprattutto Inghilterra all’esistenza di uno Stato forte e autonomo al centro del Mediterraneo che rifiutava perentoriamente ogni forma di invadenza e perseguiva pervicacemente una forma di sviluppo autonomo e assolutamente diverso da quella che i dettami liberal-massonici imponevano. Dal punto di vista strategico bisogna poi tener conto che sono gli anni dell’apertura del canale di Suez, le navi provenienti dalle colonie inglesi orientali sarebbero tornate a solcare il Mediterraneo e a fare scalo nei porti meridionali, e un Re con la personalità di Ferdinando II, preparato, intelligente, orgoglioso e poco propenso a concessioni a titolo gratuito, era troppo ingombrante per l’arroganza inglese abituata a rapinare e non a trattare e per le smanie di grandezza di Napoleone III. I Borbone di Napoli cercarono di portare il paese alla modernità commerciale e industriale e di difenderlo dall’InghiIterra e dalla Francia, che sventolando bandiere liberali e ugualitarie sgraffignavano sottobanco tutto quello che arriva loro a portata di mano. D’altronde toglierli di mezzo non era affatto semplice. Ferdinando II di Borbone apparteneva ad una delle casate più prestigiose d’Europa, imparentato con i Borbone di Spagna, e con l’imperatore d’Austria, godeva dell’amicizia e dell’ammirazione dello Zar Alessandro di Russia. Educato in un collegio militare si intendeva di strategia e tattica e quasi trent’anni di regno passati indenne (unico sovrano in Europa) attraverso i moti del ’30 e del ’48 ne testimoniano l’abilità, l’intelligenza e lo spessore politico. Era uno che badava al sodo, poco attratto dalla classe borghese -pennaruli e pagliette li chiamava-, aveva puntato sullo sviluppo del regno attraverso la creazione di una potente marineria commerciale, il che non senza una logica: un paese circondato per tre lati dal mare e con una dorsale montuosa che divideva nettamente litorale adriatico e tirrenico rendendo difficili e costosissime le costruzioni ferroviarie rendeva preferibile un più intenso sviluppo delle comunicazioni e del commercio via mare piuttosto che per via terrestre. Infatti le ferrovie che saranno costruite poi sotto i Savoia, a parte le incredibili e vergognose speculazioni di cui furono oggetto e l’assurdità della direttrice unica nord-sud, funzionale solo all’invio di truppe, avranno un bilancio disastroso per più di 40 anni. Ferdinando che pure aveva costruito la Napoli-Portici, il primo troncone ferroviario d’Italia e aveva progettato una rete ferroviaria adeguata al regno e che aveva in casa le fabbriche per costruire locomotive e binari (Pietrarsa e Mongiana), preferì saggiamente rimandare il completamento della rete ferroviaria piuttosto che forzare la mano con una imposizione fiscale pesante. La dinastia Borbone aveva nella classe contadina il proprio target sociale di sostegno, il filo diretto che lega il popolo e i regnanti di Napoli è testimoniato da numerosissime circostanze, dai contadini di Santa Fede fino al Brigantaggio legittimista post-unitario. Mai il Re Borbone avrebbe appesantito il bilancio statale con un investimento enorme ritenuto prematuro e che sarebbe ricaduto, fiscalmente, sulle spalle della povera gente. D’altronde l’enorme sviluppo del commercio via mare, molto più economico di quello via terra, era più che sufficiente ai bisogni dello Stato. Ben diversamente agiranno i Savoia che si indebiteranno fino al collo (o meglio indebiteranno gli italiani del tempo e le generazioni future) con i Rothschild e con le case d’affari parigine pur di portare a termine una pessima rete che al periodo era un puro costo. Ferdinando era un abile amministratore, parco nei costumi e risparmiatore fino all’avarizia. Riteneva, pur nel suo essere Re, di avere due giudici supremi: Dio e il popolo, per il quale sentiva una responsabilità quasi paterna, basta leggere quello che ha lasciato di scritto e quello che riportano i suoi biografi per rendersene conto. Gli storici risorgimentali hanno definito questo modo di governare “paternalismo borbonico”, caricando il termine di un significato negativo inspiegabile. Vittorio Emanuele II, presunto padre della patria e macellaio sabaudo, di paterno non aveva niente: farà fucilare, impiccherà, deporterà e farà fuggire all’estero tanti di quei meridionali nei primi dieci anni di unità, da far diminuire la popolazione dell’ex regno delle Due Sicilie di circa 700.000 persone. I suoi successori ne faranno emigrare altri 5 milioni, circa metà della popolazione. Il grande errore strategico di Ferdinando fu probabilmente il voler restare neutrale ad ogni costo rifiutando persino il tradizionale legame con l’Austria. La politica ferdinandea si rivelò efficace all’interno dei propri confini ma isolò il Regno sul piano internazionale. Il non voler nemici in Europa si tradusse nella pratica con il non aver amici e quando il suo regno fu attaccato dal Piemonte, nessuno mosse un dito per aiutare suo figlio che si affidò alla divina provvidenza che nel periodo, purtroppo, era latitante. Il Piemonte invece aveva una struttura economica vetusta, lo sviluppo industriale era di là da venire, ma Cavour intratteneva solidissime amicizie europee conquistate sulla pelle dei propri sudditi mandati a morire in Crimea senza nessuna ragione. Ferdinando, invece, negò persino l’approdo nei porti meridionali alle navi da guerra francesi ed inglesi dirette verso la Crimea, proclamando la neutralità delle Due Sicilie e ritenendo di non dover inviare truppe in un conflitto (effettivamente turco-russo, Francia e Inghilterra intervenirono in aiuto della soccombente Turchia per impedire alla Russia di avere uno sbocco sul Mediterraneo) dove ambedue i contendenti erano considerati amici e partners commerciali. L’intervento piemontese, assolutamente fuori da ogni logica politica, fu concesso solo su insistenza (e imposizione) della diplomazia francese e inglese che ripagarono poi abbondantemente il regno savoiardo in occasione della spedizione dei mille. In ogni caso ciò che era economicamente il Meridione d’Italia all’atto dell’unità è facilmente desumibile non da analisi partigiane ma propriamente dai dati che ci riporta l’annuario statistico dei milanesi Correnti e Maestri, stilato un paio d’anni prima del 1860 e successivamente riveduto e corretto e adottato dallo stato unitario negli anni seguenti come ufficiale.
fonte sudindipendente