I Proverbi dell’antica Terra di Lavoro (II parte) Alimentazione
L’alimentazione nei detti popolari
(II parte)
3. IL MANGIARE
C’è un gruppo di detti poi da cui emerge la figura del “mangione”. «Tene ‘u sfunno» (letteralmente: tiene lo sfondo, cioè lo stomaco sfondato) si dice con senso di meraviglia e ammirazione di uno che mangia in continuazione, come se il corpo che riceve il cibo non avesse “fondo”, con riferimento ad un contenitore senza fondo e che quindi non si riempie mai.
Si dice ancora: «È ‘nu cuorpo ‘e bontiempo» (È un corpo di buontempo) con allusione ai secoli in cui il buon tempo era quello della grassa e il tempo cattivo quello della carestia.
E ancora: «Trippa chiena canta, no cammisa janca» (Trippa [pancia] piena: canta, non camicia bianca!), Con la pancia piena si canta, non con la camicia bianca, cioè pulita: un bel vestito non é cosa necessaria ed essenziale, lo é invece il cibo.
Altri detti ci presentano l’immagine di chi vuol solo mangiare, ma non lavorare. «Salvatore salvapanza: / â fatica nun ce penza, / quanno vene l’ora ‘e pranzo,/ Salvatore è sempe annanze». Un detto questo che non ha bisogno di traduzione e di commento.
«Santu Frelliccone: / mangiava e surava; / fatecava e tremmava» (San Frelliccone: mangiava e sudava; faticava e tremava). Naturalmente questo Santo non figura in nessun calendario: potrebbe essere un accrescitivo di “franfellicco”, che vuol indicare lo sfaticato il quale anche a mangiare faceva sforzi tali da sudare e tremava nell’accingersi a lavorare.
C’è poi quest’altro che invita a non dormire, bensì a stare ben svegli, perché «Chi ‘e suonno s’abbotta, ‘a famma s ‘u fotte» (Chi di sonno si sazia, la fame lo divora).
Infine: «Quanno se sappa e se pota, / nun ce sta né zio ne nepote; / ma quanno jammo a vendegnà, / zi’ ‘Ntonio accà e zi’ Ntonio allà» cioè: Quando c’é da lavorare, nessun parente si fa vivo; quando invece c’è da vendemmiare o raccogliere qualche cosa da mangiare, allora tutti ti cercano. Letteralmente: Quando si zappa e si pota, non ci sta né zio, né nipote; ma quando andiamo a vendemmiare: Zio Antonio di qua e zio Antonio di là!
Dopo la trattazione di questi aspetti di carattere generale, cerchiamo ora di scendere in quelli particolari e non possiamo che cominciare naturalmente dal pane, elemento basilare dell’alimentazione di tipo mediterraneo; passeremo poi ad accennare agli altri elementi come la carne, il vino, frittura, ortaggi, uova, formaggi, frutta e, dulcis in fundo, per completare il menù, il dolce.
4. IL PANE
C’era quello bianco per i Signori, e quello scuro per i cafoni. Era una eccezione per i contadini mangiare pane di grano (che era riservato ai padroni), per loro c’era la farina di granturco e, nei tempi di carestia, qualcosa di peggio o proprio nulla.
Al molino s’accenna all’inizio di una filastrocca: «Jammo, iammo a’ mulino / cu tre sàccule ‘e farina, / chi l’ha macenata? / …» (Andiamo, andiamo al mulino con tre sacchi di farina; chi l’ha macinata?). E, collegato alla molitura, c’é il famoso detto: «Dio manna ‘a farina a chi nun tene ‘u sacco» (Dio manda la farina a chi non tiene il sacco).
Molto interessante e significativo è il detto: «Comm’è pesante a pagà ‘u pane mangiato!» quando cioè si fanno debiti, segno di estrema miseria. Come è pesante pagare il pane mangiato!
Il pane bianco era nei sogni della povera gente: «Crisci, pane, ô furno, / comme Dio facette ‘o munno; / vieni culurito, comm ‘u Santa Marecarita; / mentre ‘u pane se coce, / ‘a mamma se reposa».
Il pane bello è quello fatto con fior di farina: «Seta – sutaccio: / che bellu pane che faccio; / lu faccio cu lu sciore, / pe’ lu ra’ a ‘sta signora». Cosi canticchiava la nonna alla nipotina (che era la sua “signora”). Seta-setaccio: che bel pane che faccio; lo faccio con il fiore [di farina], per darlo a questa signora.
A un ragazzo che vuol apparire già grande, si è soliti dire: «T’ê mangià ancora assai furni ‘e pane», a riprova che il pane e l’alimento basilare dell’alimentazione: Ti devi mangiare ancora molti forni di pane. Si tenga presente che per ogni infornata si cuocevano circa una ventina di pezzi di pane.
Lo stesso valga per le due, un po’ ironiche, invocazioni: «Au Maria, ramme ‘u pane, che mo’ m ‘abbio; Padre nostro, ramme ‘u pane, che mo’ m’accosto» (Ave Maria, dammi il pane che ora mi avvio; Padre nostro, dammi il pane che ora mi accosto), dove sono da notare le rime Maria/m’abbìo [le vocali finali hanno un suono indistinto] e nostro/m’accosto. O ancora per queste altre invocazioni, stavolta agli astri del cielo: «Luna, luna, mànneme ‘nu piatto ‘e maccarune; Stella, stella, mànneme ‘nu piatto ‘e cucculelle!». Qui però la richiesta fa riferimento ad un primo piatto: Luna, luna, mandami un piatto di maccheroni; Stella, stella, mandami un piatto di coccolelle. Anche qui da notare le rime luna/maccaruni e stella/cucculelle.
Prima però di passare ad esaminare detti riguardanti pasta, carne ecc., é opportuno trattare della bevanda che accompagnava il pasto del contadino e ne asciugava il sudore che “buttava” nel corso del suo duro lavoro. (continua)
Antonio Martone
(da Il Sidicino – Anno XII 2015 – n. 02 Febbraio)
fonte
http://www.erchempertoteano.it/Teano/Tradizioni/Detti_pop/Detti_pop012.htm