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I SOLDATI NAPOLITANI DIMENTICATI DALLA STORIA

Posted by on Mag 5, 2024

I SOLDATI NAPOLITANI DIMENTICATI DALLA STORIA

Il 10° reggimento di linea “Abruzzo” nella I guerra d’indipendenza

La I guerra d’indipendenza italiana, scoppiata il 23 marzo 1848 con la dichiarazione di guerra del Regno di Sardegna all’Impero Asburgico, era stata anticipata da alcuni moti rivoluzionari, tra i quali quello delle Cinque Giornate di Milano che scacciò le truppe austriache dalla capitale del Lombardo-Veneto.

In attesa della formazione della Lega Italiana sulla quale si stava trattando, il governo costituzionale di Napoli inviò sui campi di battaglia di Lombardia un reggimento di linea e un battaglione di volontari, mentre altri due battaglioni di volontari erano diretti a Venezia. Nel frattempo, il generale Guglielmo Pepe, sostenuto dai costituzionalisti napolitani interventisti, premeva sul re di Napoli Ferdinando II di Borbone per inviare un contingente numeroso in Lombardia e guidare la liberazione d’Italia dagli austriaci.

Il reggimento prescelto come avanguardia dell’esercito delle Due Sicilie era il 10° fanteria di linea «Abruzzo» del colonnello Giovanni Rodriguez, di guarnigione a Capua. Il comando di reggimento e il I battaglione s’imbarcavano sulla corvetta a vapore Palinuro, salpata da Napoli il 5 aprile 1848 e sbarcata a Livorno, da dove marciavano a Bozzolo, nei pressi di Mantova, unendosi alla divisione toscana del generale Ulisse D’Arco Ferrari. L’altro battaglione del 10° di linea, insieme a un battaglione di volontari, salpava da Napoli a bordo dell’Archimede il 14 aprile.

Ferdinando II era restio a sguarnire il Regno per partecipare a una guerra lontana della quale non vedeva alcun beneficio per la sua nazione. I motivi erano diversi: la secessione della Sicilia, i disordini nel Cilento e nella Calabria Citeriore, la condotta ambigua del governo piemontese.

Nonostante i timori e i tentennamenti, ben fondati, Ferdinando II ordinò la formazione di un contingente più numeroso da inviare in Lombardia e mandò dei delegati a Roma, dove gli Stati italiani stavano trattando la Lega Italica, una sorta di confederazione con l’obiettivo di difendere gli interessi nazionali ed espellere lo straniero. L’anno precedente erano stati firmati i preliminari della Lega Doganale Italiana tra il Regno di Sardegna, il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio, accordo promosso dal primo ministro piemontese Cesare Balbo. Ma i piani di espansione territoriale dei Savoia non coincidevano con gli obiettivi di una confederazione di Stati che avrebbero vincolato l’ambizione di Carlo Alberto di ottenere la corona di un Regno del nord Italia. Così, il congresso degli Stati italiani a Roma non diede alcun frutto a causa dell’ostruzionismo del governo piemontese, il quale pretendeva prima di scacciare lo straniero dal nord Italia e poi costituire una lega. Anche l’opera del ministro plenipotenziario napolitano Pier Francesco Leopardi, inviato a Torino per concludere un’alleanza militare, non raggiunse l’obiettivo. Carlo Alberto rispose che Napoli doveva inviare il contingente, e solo dopo si sarebbe fissata l’alleanza.

Affrontare una guerra contro la potenza asburgica, inviando un numeroso corpo di spedizione lontano dalla Patria, sarebbe stato un azzardo privo delle necessarie garanzie e avrebbe posto il Regno delle Due Sicilie in una condizione di inferiorità rispetto al Piemonte, il quale perseguiva i suoi specifici interessi politici e strategici.

Ferdinando II tentò quantomeno un coordinamento strategico-militare inviando due ufficiali, il capitano Francesco Sponsilli e il tenente Carlo Mezzacapo, al quartier generale di Carlo Alberto; ma anche in questo caso i risultati furono deludenti: il monarca piemontese voleva piena autonomia.

Oltre al 10° reggimento partito i primi di aprile, alla fine del mese era stata inviata via mare la 1a divisione agli ordini del generale Giovanni Statella, sbarcata ad Ancona, e via terra la 2a divisione agli ordini del generale Klein. Il comando del contingente di circa 16.000 uomini era assegnato al generale rivoluzionario Guglielmo Pepe. Gli ordini erano di non superare il Po, in attesa di stabilire le condizioni dell’alleanza militare.

La fallita rivoluzione di Napoli del 15 maggio 1848, repressa dall’esercito delle Due Sicilie, e l’allocuzione di Pio IX contro la guerra pronunciata il 29 aprile davanti a tutti i cardinali, convinse definitivamente Ferdinando II a ritirare il contingente napolitano dal fronte del nord Italia.

Mentre si svolgevano le trattative tra gli Stati italiani, il contingente napolitano d’avanguardia, cioè il 10° reggimento, entrava in combattimento sul Mincio. Il primo scontro lo affrontava il 3 maggio il 2° battaglione del maggiore Sigismondo Spedicati, il quale, rinforzato da due compagnie toscane e dai volontari livornesi, respingeva un attacco austriaco in località S. Silvestro, di fronte alla piazzaforte di Mantova. I combattimenti del 4 e del 5 maggio fecero decidere il generale Ferrari a far ritirare i reparti tosco-napolitani da S. Silvestro al Santuario delle Grazie, dove c’era il quartier generale della divisione toscana. Un’ulteriore ritirata verso Goito fece perdere anche la posizione delle Grazie, ripresa l’11 maggio con un attacco scagliato dal battaglione napolitano del maggiore Michelangelo Viglia, da due battaglioni di linea toscani e da due battaglioni di volontari. Le vecchie posizioni erano tutte riprese. Lo schieramento forte di 5.400 uomini era organizzato su tre campi: Grazie, Curtatone e Montanara.

Il campo di Montanara aveva oltre 2.000 uomini tra toscani e napolitani, sia regolari sia volontari, al comando del generale toscano Cesare De Laugier, valoroso veterano napoleonico. Questa forza respinse un attacco di 4.000 austriaci scagliato il 13 maggio.

Il 23 maggio il capitano Francesco Sponsilli si presentò dal colonnello Rodriguez consegnando l’ordine del generale Statella di riportare il reggimento nel Regno. Statella, che nel frattempo si era portato con la sua divisione a Bologna, aveva ricevuto l’ordine sovrano di rientrare, a causa della ribellione della Sicilia e dei disordini in vari territori del Regno. Sponsilli andò poi nel quartier generale di Carlo Alberto a Sommacampagna per concordare e organizzare la partenza del 10° di linea, ma il ministro piemontese Franzini rifiutò ogni accordo e mandò via Sponsilli, impedendo di farlo passare da Goito in modo da non poter conferire con Rodriguez.

Nonostante l’ordine sovrano di rientro in patria, conosciuto solo dal comandante di reggimento, il 29 maggio il 10° di linea partecipava a un nuovo combattimento, passato alla storia come battaglia di Curtatone e Montanara. Il comandante austriaco Radetzky aveva ricevuto in rinforzo dal Veneto il Corpo d’armata del generale Nugent, così decise di sviluppare una manovra avvolgente da sud per prendere a tergo lo schieramento piemontese di Goito e intrappolarne il grosso. Radetzky valutò di rompere il fronte italiano a Curtatone e Montanara, considerato il punto più debole.  Il comando della divisione tosco-napolitana era passato da Ferrari a De Laugier, a causa di errori compiuti dal primo. Il comando di divisione era in località Grazie, insieme alla riserva. Curtatone era difesa da 2.500 uomini al comando del colonnello piemontese Giovanni Campia, Montanara da 2.300 uomini agli ordini del colonnello toscano Giuseppe Giovannetti. La mattina circa 20.000 austriaci divisi in tre colonne si mossero all’attacco: quella di destra (a nord) contro Curtatone; quella di centro su Montanara; quella a sinistra (a sud) su Buscoldo.

L’attacco principale era diretto su Curtatone, dove gli italiani opposero una tenace resistenza. Lì fu impiegato il battaglione di riserva degli universitari toscani. Si combatteva duramente anche a Montanara, dove c’erano quattro compagnie del 10° di linea. Lo stesso comandante napolitano, il maggiore Spedicati, fu ferito durante l’assalto al camposanto e sostituito dal capitano Catalano. De Laugier inviava inutilmente cinque dispacci d’aiuto al generale piemontese Giovanni Battista Eusebio Bava, comandante del I Corpo d’armata, prima di ordinare la ritirata su Goito.

La ritirata verso Grazie delle truppe di Curtatone permise agli austriaci di aggirare Montanara e chiudere la via di fuga. Il colonnello Giovannetti ordinò il ripiegamento, rompendo l’accerchiamento con le truppe napolitane che ebbero altissime perdite. Le truppe di Giovannetti superarono il fiume Oglio e si schierarono sul ponte di Marcaria. Sostituite da truppe fresche, i tosco-napolitani furono inviati a Brescia per riposarsi e riorganizzarsi. Tra i più valorosi di Montanara ci fu l’anziano capitano Giovanni Cantarella, veterano napoleonico, comandante della 2a compagnia cacciatori del 10° di linea, il quale fu decorato da Carlo Alberto con medaglia d’argento al valor militare.

La tenace resistenza dei tosco-napolitani a Curtatone e Montanara diede il tempo al Corpo piemontese del generale Bava di concentrarsi a Goito e di organizzare una difesa anche fronte a sud. Otto compagnie del 10° di linea al comando del colonnello Rodriguez furono messe a difesa del ponte di Goito. Nel primo pomeriggio del 30 maggio la colonna di sinistra austriaca attaccava sulla strada Rivalta-Sacca, a sud di Goito. Dopo un’iniziale avanzata vincente, la reazione dei piemontesi con un tiro d’artiglieria molto efficace e un contrattacco con due brigate fermò gli austriaci.

Nel frattempo, la colonna di destra austriaca attaccò il ponte di Goito, difeso dal 1° battaglione napolitano, rinforzato da quattro compagnie toscane e da quattro cannoni, consegnati a Rodriguez dal generale De Laugier in ritirata. Gli austriaci attaccarono per circa quattro ore, ma la tenacia dei napolitani, il buon uso dell’artiglieria e il rinforzo di un battaglione piemontese li respinse. Un reggimento di cavalleria piemontese inseguì il nemico in ritirata fino a Rivalta. La battaglia di Goito era vinta, e i soldati napolitani avevano avuto un ruolo determinante difendendo il ponte sul Mincio. La sera stessa si arrendeva la vicina fortezza austriaca di Peschiera. Carlo Alberto fu soddisfatto del rendimento del 10° reggimento: decorò il colonnello Rodriguez con l’Ordine di S. Maurizio e Lazzaro e con medaglie al valor militare altri tre ufficiali napolitani.

Intanto, l’ordine del rientrare nel Regno era attuato dalle due divisioni che si trovavano in Emilia, quella di Statella e quella di Klein, nonostante l’opposizione di Pepe che riuscì a far disertare alcuni reparti del genio e di artiglieria e a condurli a Venezia. Entro il 12 giugno le due divisioni erano entro i confini delle Due Sicilie. Il 25 giugno il colonnello Rodriguez riceveva un plico con l’ordine del Ministero della Guerra di rientrare in patria. Appena saputo ciò, il comando piemontese sospese le paghe e cessò il rifornimento di viveri. L’essere stati compagni d’armi sul Mincio nella guerra contro gli austriaci non convinse i piemontesi a una doverosa generosità. Secondo il ministro piemontese doveva ritenersi un grande atto di generosità già il permettere al 10° di linea di partire e di ricevere due giorni di razione viveri.

Il comando di reggimento e il 1° battaglione partirono il 29 giugno, attraversarono il Po e si riunirono al 2° battaglione a Suzzara. Prima di cominciare la lunga marcia di ritorno, Rodriguez inviò un fraterno saluto d’addio ai camerati toscani e piemontesi. I piemontesi rimasero in silenzio, mentre i toscani risposero affettuosamente.

Fratelli ! Fu grande il piacere che destaste nel nostri cuori quando a noi vi congiungeste per combattere nella santa causa; ma è immenso il dispiacere che ora proviamo nel doverci dividere da voi. Vi abbiamo amato come fratelli negli accampamenti, vi abbiamo ammirati come prodi soldati nel campo di battaglia. Siete richiamati in Patria, e noi sentiamo la forza del vostro dovere. Faccia Iddio che il distacco sia breve, e possiate voi presto ritornare fra noi a cogliere il frutto delle comuni fatiche – la indipendenza della nostra cara Italia.

Anche il municipio di Goito non volle mancare al saluto, mentre il generale De Laugier, che aveva avuto ai suoi ordini i soldati napolitani, così li salutò:

Quartiere Generale dell’Armata Toscana – Brescia 29 giugno 1848 – Per ordine del suo Sovrano si separa dall’armata che ho l’onore di comandare, il 10.º Reggimento di Linea Napolitano. Non solo per doverosa coscienza ed amor di giustizia ma per vivo impulso d’affetto, attesto, essersi egli in ogni circostanza condotto, sia in guerra, sia in pace, con quel nobile e lodevole contegno del prode, onesto, e disciplinato soldato. Possano queste brevi, franche, e sincere parole di un vecchio soldato, a cui estremamente duole la fraterna separazione, provare a chicchesiasi la stima e l’affezione che pel suddetto reggimento nutriva.

Il Generale Comandante l’Armata Toscana

CONTE CESARE DE LAUGIER.

Nel lungo e difficile cammino di ritorno i soldati napolitani dovevano rispettare le popolazioni delle terre attraversate, pagare i viveri, assistersi vicendevolmente e mantenere la disciplina. Per fortuna il 2° battaglione aveva già ricevuto quindici giorni di paga anticipata a Brescia, così, utilizzando tali denari e quel poco che era rimasto nella cassa di reggimento, Rodriguez riuscì a soddisfare le necessità primarie dei suoi soldati. Il percorso previsto prevedeva di percorrere la riva meridionale del Po, raggiungere l’Adriatico e poi dirigere a sud lungo la costa, attraverso Mirandola, Finale Emilia e Ravenna. Rodriguez preferì evitare le grandi città e bivaccare le notti in piccoli villaggi. Si ebbe una buona accoglienza in tutti i luoghi e le diserzioni furono pochissime. Il 21 luglio il reggimento giungeva a Sinigaglia, nelle Marche, dove Rodriguez ricevette due dispacci di rientro dal Ministero della Guerra, tramite il viceconsole che non era riuscito a spedirli a Goito. Il generale Pepe, venuto a conoscenza che il 10° di linea stava rientrando in patria, inviò nelle Marche il colonnello Nicola Fabrizi con l’ordine a Rodriguez di condurre il reggimento a Venezia, ma il comandante del 10° continuò la sua marcia verso gli Abruzzi. Il 29 luglio il reggimento attraversava il Tronto ed entrava nel Regno delle Due Sicilie, facendo sosta a Giulianova, dove fu affettuosamente accolto dalla popolazione. Nei giorni successivi il 1° battaglione fu posto di guarnigione a Pescara e il 2° a Sulmona.

Cosa resta nella memoria comune dei fatti di Curtatone e Montanara e di Goito del 1848?

Ho chiesto alla professoressa mantovana Claudia Bonora Previdi, laureata in architettura con indirizzo storico e presidente dell’Istituto Mantovano di Storia Contemporanea, se nel territorio è rimasta traccia sulle architetture dell’impiego dei soldati napolitani nella I guerra d’indipendenza. Mi ha risposto che non ne ha notizia. La medesima risposta mi ha dato la Direzione del Parco del Mincio, ente che cura anche i percorsi storici sulle fortezze lungo il fiume.

Mi sono recato personalmente al Santuario della Beata Vergine delle Grazie, comune di Curtatone, dove le uniche lapidi che ricordano la battaglia del 1848 citano solo i volontari toscani.

Così narra i fatti il celebre storico Arrigo Petacco in un’intervista del 2010:

«Nella prima Guerra di indipendenza (1848) il Piemonte dichiarò guerra all’Austria con grande coraggio e in suo aiuto il Regno delle due Sicilie e lo Stato Pontificio si allearono nella prima fase della guerra. E alcuni reparti militari napoletani e pontifici combatterono in Lombardia. Fra questi il “Battaglione Belgioioso”, arruolato a Napoli fu inviato a Milano durante le “cinque giornate” dalla Principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso. A Curtatone e Montanara ci fu un episodio passato alla storia, in cui, si legge nei libri di scuola, “gli studenti universitari di Pisa fermarono gli austriaci che stavano per aggirare l’esercito di Carlo Alberto.” In realtà non erano gli studenti di Pisa, gli studenti di Pisa c’erano ma alle prime scoppiettate scapparono, rimase lì un battaglione partenopeo comandato da un colonnello napoletano che tenne duro e respinse gli austriaci. Questo è un fatto storico, anzi nel diario di guerra dell’esercito austriaco a Vienna c’è proprio anche il nome e il numero del comandante. Alla fine della Prima guerra d’indipendenza con i Borbonici ritiratisi nel frattempo a Napoli, gli storici piemontesi che scrivono della guerra si trovano di fronte all’imbarazzo che l’unico episodio vero e nobile vede protagoniste le truppe borboniche.»

Finito il processo unitario sabaudo nel 1871, nell’elaborazione della storiografia dei fatti del 1848 non si potevano inserire le azioni valorose e i sacrifici dei soldati napolitani sul Mincio, poiché appartenenti all’esercito di uno dei più “cattivi” antagonisti dell’epopea risorgimentale: Ferdinando II di Borbone re delle Due Sicilie. Si costruì, quindi, il mito degli studenti toscani, i quali, seppur volenterosi e coraggiosi (ebbero numerosi caduti), non furono e non avrebbero potuto essere il fulcro della resistenza italiana antiaustriaca sul Mincio, poiché poco addestrati, malamente organizzati, male armati e male equipaggiati. Chi resse realmente il fronte furono i soldati del 10° reggimento di linea napolitano e alcune unità dell’esercito regolare toscano. Scrivo ciò in rispetto alla verità e al sacrificio di quei soldati napolitani dimenticati dalla storia.

Curtatone, 3 maggio 2024.

Domenico Anfora

Bibliografia:

Acton Harold, I Borboni di Napoli, Giunti Martello, Milano 1974.

De Sivo Giacinto, Storia delle Due Sicilie (1847-1861), Edizioni Trabant, 2009.

Viglia Michelangelo (maggiore del 10° reggimento di linea “Abruzzo”), Il Decimo di linea napolitano nella guerra della italiana indipendenza (relazione), Napoli, Tipografia dell’Araldo, 1848.

Video:

Il mito dell’unità d’Italia – Intervista ad Arrigo Petacco – YouTube del 29 aprile 2010.

1 Comment

  1. Ottimo!

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