Il banditismo sociale nell’ex Reame siculo-partenopeo
“Il governo d’Italia è stato vigliacco, col Mezzogiorno. Sa di poter osare tutto quaggiù; e, nel fatto, può tutto osare, e tutto osa quaggiù. Ormai il governo dispone del Mezzogiorno elettorale. In venti anni lo ha, elettoralmente, demoralizzato. […] Povero Mezzogiorno! È Depretis al Governo? Quaggiù comanda Grimaldi. È Rudinì? Quaggiù imperversa Nicotera. È Giolitti? Quaggiù striscia Lacava. È Sonnino? Quaggiù impera Crispi. È Pelloux? Quaggiù torna a strisciar Lacava. Sempre così,sempre. E sarà sempre così, perché il Settentrione capitalista e militarista fa i suoi affari, restando al timone dello Stato, grazie alla degradazione politica del Mezzogiorno”. [1]
“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.” [2]
“Sappiamo bene che c’era già una Questione meridionale: ma sarebbe rimasta come una vaga “leggenda nera” dello Stato italiano, senza l’apporto degli scrittori meridionali.” [3]
Alla vigilia del 1860, il Regno siculo-partenopeo si presentava indebolito nelle sue stesse fondamenta. La forzata annessione della Sicilia (1816) e le rivolte del 1820 e del 1848-49 avevano compromesso gli equilibri interni ed il rapporto tra la monarchia ed i ceti liberali. Le relazioni internazionali erano segnate da un perdurante stato di isolamento. Francesco II, succeduto l’anno precedente al padre Ferdinando II, si rivelò il meno adatto a fronteggiare l’evolversi della situazione. Il crollo avvenne in occasione dell’invasione sarda-garibaldina di cui trattiamo in altre letture del sito. All’indomani dell’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno sabaudo e della frettolosa proclamazione del Regno d’Italia (ancora mancavano infatti Roma e le Venezie) si evidenziarono, con immediatezza, molti problemi che richiedevano interventi urgenti. Ma uno su tutti mise a rischio l’esistenza stessa del neonato stato unitario, quello che fu definito dai Savoia “brigantaggio meridionale” e che, più onestamente, Aurelio Saffi definì la “sciagurata e ingloriosa guerra” che contrappose per lunghi anni le truppe del nuovo Stato ai ribelli meridionali. Il fenomeno fu devastante nella sua espressione e fu represso con particolare durezza dai Savoia che necessitavano al più presto di una legittimazione. In tempi recenti, il fenomeno fu più gentilmente definito “la guerra dei contadini del Sud” e, a mio parere, sarebbe opportuno inquadrarlo nell’ambito del “banditismo sociale” [4], un fenomeno ben conosciuto sia in Europa che in altri continenti e che solitamente affonda le sue radici nella mala giustizia e diventa esplosivo in caso di sovvertimento dello “status quo” che viene a determinarsi all’indomani di un cambiamento repentino dei sistemi sociali, siano essi positivi che negativi. Si diffonde rapidamente tra le masse rurali o quanto meno tra le classi subalterne, solitamente lontane dagli sconvolgimenti sociali ed economici che inevitabilmente coinvolgono e sconvolgono la società. Il fenomeno è soprattutto tipico della classe rurale in quanto la più antica e la più restia a mutare costumi, vuoi per una incapacità di partecipazione ad uno stile di vita lontano dalla terra, vuoi per una reale mancanza di aspirazioni che non siano quelle della sopravvivenza, condizione atavicamente determinata dalla sottomissione alla servitù e dall’assenza di una coscienza sociale. Nelle terre meridionali già avevamo assistito alla formazione di “bande sociali” all’indomani della instaurazione della Repubblica Partenopea (1799) che, grazie alla sapiente guida del Cardinale Ruffo, riuscirono nell’impresa di restituire al Re lo Stato e ripristinare le antiche consuetudini. Perché in realtà al mondo contadino non importa di Costituzione e di libertà di stampa, ma sente il bisogno di un paladino alla Robin Hood che non combatte i potenti per abbatterli, ma si limita a frenare i loro eccessi. Il cardinale Ruffo, uomo di grande carisma, riuscì a imporsi come capo e a guidare le sue “bande” nella maniera migliore ripristinando l’antico ordinamento che garantiva la sicurezza nella continuità. All’indomani della conquista sabauda, dopo l’annessione e la disfatta dell’esercito borbonico, nel meridione si erano create le stesse condizioni del 1799 e nell’ “armata cafona” erano confluiti nostalgici dei Borbone, cittadini feriti dai soprusi del nuovo potere, pastori e braccianti senza terra che si ribellavano ai nuovi assetti proprietari, criminali comuni. Il banditismo toccò il culmine nella grande rivolta contadina (in Sicilia) e nella guerriglia (nelle province napoletane). Una guerriglia che impegnò nel Sud oltre centomila soldati del Regio esercito. Ma non c’era più un cardinale Ruffo-Robin Hood. In verità dopo la fuga a Gaeta, Re Francesco II, la sua giovane regina Maria Sofia e lo stato maggiore borbonico avevano pensato di organizzare in maniera efficiente le risorse militari del brigantaggio, per concentrarle ed affidarle al comando più esperto di generali legittimisti. È il caso, tra gli altri, del comandante spagnolo Josè Borjès, inviato dai circoli borbonici in Calabria, con la promessa, poi rivelatasi illusoria, di un gran seguito tra la popolazione locale e di un’alleanza con le bande organizzate del brigante Crocco. Ma come lo stesso Crocco racconta nella sua autobiografia, l’incontro avvenuto a Lagopesole fra i due uomini fu breve ma tale da far capire ad entrambi che al comando unico non si sarebbe mai arrivati, sia perchè Borjes non era Ruffo, un meridionale e un rappresentante della Chiesa, sia perché Crocco diffidava di uno straniero inviato nella sua terra a sottrargli la guida militare dei suoi uomini.
La reazione popolare fu comunque assai diversa nelle due “province” del regno, come vedremo in seguito, a riprova che mai c’era stata una unità nazionale nel Regno del sud [5]. In Sicilia si ebbe una catena di rivolte contadine, tipiche sollevazioni popolari, nel continente invece divampò il banditismo e la guerriglia per circa un decennio. Il banditismo esplode, come detto in precedenza, come reazione ad una situazione di sfruttamento, è contro i padroni, è in difesa dei cafoni, dei diseredati e degli ultimi, ma non propone nessun progetto di rinnovamento né economico né politico. Dopo l’unità si limitò infatti a propagandare l’immediato ritorno sul trono del sovrano Francesco II, di cui, con il passar del tempo, ci si fidava sempre di meno [Carmine Crocco, Autobiografia] [6]. Era un modo di aggregazione di tutti quelli, ed erano tanti, che condividevano la medesima sorte di emarginazione e di miseria, di soprusi padronali e di angherie personali, li accomunava anche un sincero attaccamento alla religione, spesso vissuta sotto forma di fede cieca e di superstizione (il bandito portava sempre addosso oggetti sacri, immagini di santi, e amuleti) [7]. La religione era quella cattolica di Francesco II, che vantava l’appoggio della Chiesa. Quale ruolo hanno i banditi nella trasformazione della società? Potremmo dire che, di norma, sono individui che rifiutano di sottomettersi e perciò si staccano dalla massa o, più semplicemente sono uomini che si trovano esclusi dalle loro occupazioni abituali e pertanto sono costretti a diventare fuorilegge e a darsi al crimine. Il banditismo “endemico” è dovuto spesso a un reato compiuto per vendicare un oltraggio, alla perdita della proprietà per disgrazia o per debiti, a qualche evento che rientra nella sfera del privato. Quando ci troviamo di fronte a un fenomeno “en masse”, come avvenne nel meridione dopo la conquista piemontese, a causare il fenomeno sono piuttosto i sintomi di crisi, di tensione interna alla società in cui si vive, come sintomi di carestia, di pestilenza, di guerra o di qualsiasi altro evento destabilizzante. “I banditi sociali – scrive Hobsbawm [8] – sono fuorilegge rurali, considerati malfattori dal signore e dall’autorità locale, ma che pure restano dentro la società contadina sono considerati dalla propria gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e comunque uomini degni di ammirazione, aiuto e appoggio. Il fenomeno del banditismo sociale esprime, in situazioni storiche le più disparate, un intreccio significativo tra contadini e ribelli, da non confondere con malavitosi professionali che fanno delle scorrerie e delle rapine l’oggetto esclusivo della loro attività delinquenziale. I delinquenti di professione vedono nel contadino la preda naturale, lo aggrediscono e ne violentano le donne, lo rapinano e fanno razzie. Un bandito sociale, al contrario, non metterà mano sul raccolto del contadino, e se talvolta sarà costretto a requisire merci e denari per esigenze logistiche, attenderà il momento propizio per restituire il mal tolto. Il banditismo sociale non ha senso al di fuori dei rispetto tacito di questa norma”. Di per se il banditismo non è un programma della società contadina ma, come dice Hobsbawn [9], “una forma di autonomia per sottrarsi a essa in circostanze particolari”. “I banditi sociali sono, in questo senso, dei riformatori, non dei rivoluzionari”. Ma se il brigantaggio diventa il simbolo di resistenza dell’intero ordine tradizionale contro le forze rivali, allora può apparire come una “rivoluzione sociale”, anche se opera a favore di una causa reazionaria. I banditi e i contadini napoletani insorti contro stranieri e giacobini in nome del papa, del re e della fede, erano rivoluzionari, mentre il re e il papa non lo erano. “I briganti non insorgevano a difesa del regno dei Borboni “reale” [10] – molti, anzi, pochi mesi prima avevano combattuto con Garibaldi – ma per l’ideale della società dei buon tempo antico, simbolizzata naturalmente dall’ideale del Trono e dell’Altare. In politica i banditi tendono ad essere dei tradizionalisti rivoluzionari. L’altra ragione per cui i banditi diventano dei rivoluzionari è inerente alla società contadina. Anche chi accetta lo sfruttamento, l’oppressione e la soggezione come norma di vita, sogna un mondo dove essi non esistano: un mondo di uguaglianza, di fratellanza e di libertà, un mondo totalmente nuovo, privo di male. Raramente esso è qualcosa di più di un sogno”. I banditi a parte la voglia e la capacità di rifiutare la sottomissione, non professano idee diverse da quelle della società a cui appartengono: sono uomini d’azione non ideologi, sono capi con forte personalità e innato talento militare, sono uomini duri e sicuri di sé ma non sanno scoprire vie nuove sanno solo aprirsi un varco con la forza (nel 1799, Ruffo, personalità fortissima, seppe indicare loro la via da seguire). Alcuni capi briganti post unitari, come Crocco e Ninco Nanco [11] o La Gala mostrarono ottime doti di comando ma per quanto gli anni del brigantaggio costituirono un esempio di rivolta contadina guidata da “banditi sociali”, i capi briganti non incitarono mai i contadini a occupare le terre [12] né mai concepirono un disegno di “riforma”, si limitarono a combattere, talvolta abbandonando al proprio destino, come nel caso di Borjes, chi tentava di finalizzare la rivolta. Il programma dei banditi, quando ne hanno uno, è quello di difendere o restaurare l’ordine tradizionale, di rimettere le cose a posto.
Due ex-Reami
Per un’analisi del primo periodo post-unitario, occorre partire dalla constatazione della diversità che presentavano all’epoca le due parti principali dell’ex-Reame, Sicilia e Continente, e quindi di quelle esistenti all’interno della parte continentale stessa. I destini di Napoli e della Sicilia si erano definitivamente separati fin dal 1282, con il Vespro, cui seguì circa un secolo di guerra per il possesso del titolo di Re di Sicilia. Nel 1401 la Sicilia era finita nell’orbita spagnola. Anche Napoli dal 1503 fu governata da viceré spagnoli, ma diversi da quelli di Sicilia: le differenze e diffidenze permasero, così come nel corso dei Regni di Carlo e Ferdinando di Borbone. Quest’ultimo nel 1816, in ossequio alle decisioni delle potenze del Congresso di Vienna, decretò l’annessione a Napoli della Sicilia. Non era facile compito unificare due Stati restati 6 secoli a guerreggiare ed a guardarsi con sospetto, ancor meno facile era generare una nazione meridionale cosciente di se stessa [13]. Ed infatti, l’operazione si concluse nel modo più fallimentare per entrambi, che furono annessi allo Stato sabaudo! Esaminiamo quindi gli avvenimenti in Sicilia e nel Napoletano per cercare di capire il perché di tante ribellioni e delle tante differenze che caratterizzarono gli anni dal ’60 in poi nelle due parti del ex-Reame.
Al di là del Faro
In Sicilia, nel 1860, il ceto che appoggiò Garibaldi contro i Borbone e favorì i Savoia fu il ceto della piccola borghesia nascente, quella costituta dai gabelloti, dai compagni d’arme e dai campieri che man mano si era arricchita alle spalle dei grandi proprietari e che aveva fatto studiare i propri figli. Non una borghesia industriale o imprenditoriale ma una borghesia frutto del furto che si era impadronita di quella fascia sociale che possiamo definire “dei professionisti” (notai, avvocati, medici, ecc, di quelli che furono chiamati galantuomini [14]) e aveva interesse a ridistribuire nei ruoli chiave del potere i compagni d’arme, i campieri, i gabelloti e soprattutto i loro figli. Fu il trionfo dei galantuomini. Tutta quella genia di sopraffattori che per secoli avevano vessato le classi subalterne dell’isola e avevano sfruttato le classi aristocratiche arricchendosi a loro volta e che immediatamente si misero a seguito delle scarne truppe garibaldine non tanto per ideale di libertà ma per ideale di sfruttamento. La Sicilia in pieno secolo XIX, situata nella parte più colta del bacino del Mediterraneo, rimaneva tuttavia succube delle angherie feudali. In Sicilia arrivò ben poco dello spirito della Rivoluzione francese e arrivò nulla della ventata riformatrice napoleonica. L’isola infatti rimase fino al 1815 sotto la protezione della flotta e dei soldati inglesi che difesero i Borbone ivi rifugiatisi. E’ vero che nel 1812 il Parlamento siciliano, ricostituito sotto la protezione inglese, aveva abolito il feudalesimo ma l’abolizione si risolse in una vera e propria truffa: le proprietà feudali che fino ad allora erano state sottoposte agli usi civici, che favorivano in qualche modo i lavoratori, furono trasformate in proprietà allodiali e inoltre, in analogia alle Chiusure inglesi, una quarta parte delle terre feudali venne a costituire il demanio comunale. Ma nell’assegnazione avvennero tante di quelle truffe che costrinsero il governo borbonico a legiferare, invano, contro questi abusi. Non è certo una novità del nostro tempo l’elusione delle leggi con la connivenza della corruzione. Da ciò nacquero una serie di contestazioni giudiziarie che comportarono non poche rivolte agrarie che si trascinarono ben oltre il 1860. I lavoratori furono spogliati dell’uso delle proprietà feudali e rimasero servi; come ebbe a riportare Sonnino, nel rapporto sulla sua inchiesta, “quella che era stata fino ad allora potenza legale rimase come prepotenza di fatto e il contadino dichiarato cittadino dalla legge, rimase servo ed oppresso”.
Il contadino o l’operaio era e rimase per il gabelloto e per il galantuomo un animale inferiore di cui non ci si deve preoccupare più di tanto e che non ha diritto a giustizia. Per vendicare un oltraggio, per sfuggire al creditore, sono costretti a diventare fuorilegge e a darsi al crimine al brigantaggio. Fu questo atteggiamento di prevaricazione nei confronti dei deboli e delle classi subalterne che favorì la nascita di quelle associazioni a delinquere che dopo l’unità, furono chiamate mafiose ma che in verità erano ben presenti nelle nostre campagne da parecchi anni e avevano un’origine più complessa. Il governo borbonico, in seguito al rapporto di Calà Ulloa [15], si era reso ben conto che in Sicilia era impossibile amministrare in maniera “normale” la giustizia e fece ricorso ad un espediente in puro stile americano: la sicurezza pubblica concernente i reati contro la proprietà, nelle campagne, venne data in appalto alle Compagnie d’armi, sotto il comando di un capitano che versava una cauzione al governo e con essa rispondeva dei furti e dei danni qualora non se ne scoprisse il colpevole. Ogni provincia, ogni comune, aveva la sua compagnia d’arme ma fra loro non c’era accordo; ogni compagnia infatti rispondeva solo dei reati commessi nel proprio territorio. Come conseguenza si assistette ad una sorta di alleanza tra Compagnia d’arme e i malandrini del proprio distretto: questi sarebbero stati protetti e lasciati in pace purché andassero a rubare o ammazzare in un altro comune! Alle Compagnie d’arme poi poco importava della giustizia, quello che più premeva era non risarcire il danno al malcapitato, ciò comportava spesso un “patteggiamento” col malfattore e col danneggiato che di solito si risolveva con la restituzione parziale della refurtiva (a questo punto più o meno iniquamente divisa tra Compagnia, danneggiato e malfattore) il tutto con l’atteggiamento di chi elargisce un favore al malcapitato. Di quale specchiata onestà dovevano rifulgere i Compagni d’armi! Ma non è finita qui perché i grandi proprietari per combattere le Compagnie d’armi altrui – sembra di raccontare una favola ma, purtroppo, è vero – provvidero a difendersi con un corpo di guardie private: i Campieri. I Campieri a loro volta non potevano che essere reclutati che tra briganti e malandrini, perché dovevano saper usare le armi e tenere testa alle Compagnie d’armi. Credo che il lettore si sia fatto un quadro chiaro di quale fosse la situazione nelle campagne siciliane e in quale stato di soggezione vivessero i contadini e i piccoli artigiani e quale odio verso galantuomini, i gabelloti, i campieri, i nobili, il re, covasse tra le masse contadine, e perché spalleggiarono sempre chi si dava alla macchia per sfuggire alla “malagiustizia”, i briganti per necessità cioè, che apparivano loro come difensori dei deboli, e furono pronte a ribellarsi a fianco di chiunque prospettasse loro la liberazione dalle vessazioni e un pezzo di terra da lavorare. Così fu nel 1820, 1837, 1848. E quando arrivò Garibaldi, nel 1860, con le sue idee democratiche, con le sue promesse di spartizione delle terre furono pronte ad affiancarlo.
Scrive Antonio Canepa nel suo famoso proclama “la Sicilia ai siciliani” [16]: La Sicilia non si era mossa, nel 1860. O, se si mosse, dove si mosse, non fu certo nel senso unitario voluto dai piemontesi. Fu per proclamare una Sicilia indipendente, repubblicana, nella quale la povera gente potesse vivere in pace senza essere sfruttata da nessuno. Ma questi movimenti non potevano piacere. E così, prima ancora che terminasse il 1860, Bixio, mandato da Garibaldi, dovette correre a Bronte e in molti altri paesi, con truppe non siciliane, per domare la vera, autentica rivoluzione siciliana che incominciava. A Bronte fece fucilare cinque persone. Altrove, di più. Impose taglie e multe alla popolazione, che cercò di atterrire in tutti i modi. “Missione maledetta (confessò più tardi lo stesso Bixio) alla quale un uomo della mia natura non dovrebbe mai essere mandato!”. Poi gli italiani scesero in Sicilia. Luogotenenti, Commissari civili, stati d’assedio e altre misure eccezionali imperversarono in Sicilia a partire dall’unificazione. Il primo stato d’assedio fu proclamato in Sicilia nel 1862; ed esso, come disse Crispi, lasciò terribili tracce. Nell’anno seguente, si ebbe di fatto il secondo stato d’assedio con la missione del generale Govone il quale apertamente violò le leggi dello Stato. Sotto il generale Govone, per combattere i renitenti alla leva, i Comuni siciliani venivano cinti da cordoni militari o presi addirittura d’assalto; senza mandato di cattura venivano arrestati sindaci e consiglieri comunali; venivano presi ostaggi, comprese le donne incinte, una delle quali (Benedetta Rini, di Alcamo), quasi al termine della gravidanza, morì in carcere dopo quattro giorni di convulsioni. Fu persino applicata la pena dell’acqua! E quanti innocenti furono martoriati! Un disgraziato operaio, Antonio Cappello, sordomuto dalla nascita, venne sottoposto alla tortura nell’Ospedale Militare di Palermo, come se fingesse d’esser muto e sordo per sottrarsi al servizio militare: sul suo cadavere si poterono contare 154 bruciature fatte col ferro rovente! Tutti questi sono fatti. Fatti documentati. Basta sfogliare il libro di Zingali: “Liberalismo e fascismo nel Mezzogiorno d’Italia”, volume primo, da pagina 232 in poi: ci troverete questo ed altro! E non è un separatista che scrive, badate, ma un fascista il quale è stato persino segretario federale!….” Parole condivisibili quelle di Canepa anche se adattate al movimento separatista da lui guidato. I siciliani che si mossero per motivi ideologici furono ben pochi, molti invece furono i contadini che già all’indomani del 4 aprile 1860 [17], nonostante il fallimento dell’insurrezione palermitana, furono organizzate squadre al comando di borghesi e galantuomini che diedero inizio ad una guerriglia che tenne occupato l’esercito borbonico fino all’arrivo di Garibaldi. Molte di queste rivolte si conclusero con la distruzione di municipi, edifici pubblici e privati, devastazioni, saccheggi e uccisione di ufficiali borbonici e proprietari terrieri. Si accrebbe notevolmente anche il banditismo non politico, uscirono infatti dalle carceri oltre 12.000 detenuti che si diedero allegramente al saccheggio e alle vendette private, alla grassazione, alla rapina e alla violenza a scopo di lucro. Questa era la situazione nelle campagne siciliane al momento dello sbarco di Garibaldi. Uno stato di guerriglia che destabilizzava le truppe borboniche proteggendo l’avanzata di Garibaldi a cui si unirono, fiutando l’affare, i Compagni d’arme, i campieri e i loro picciotti, il tutto col beneplacito dei galantuomini e dei loro servi, spinti da motivi assai poco idealistici e che speravano nella suddivisione dei grandi feudi solo per impadronirsene o in una carriera politica che li portasse a legiferare nel parlamento italiano così come avevano sempre fatto nel parlamento siciliano [18].
6La massa contadina invece aveva solo sete di giustizia e sperava nell’emancipazione dalla servitù. E il contentino lo ebbero: l’abolizione del dazio sul macinato, l’abolizione del saluto feudale “baciamo le mani a voscienza”, …. e nulla più! In breve i tentativi dell’ala più radicale e socialista di introdurre la questione sociale e la questione agraria in particolare, vennero rintuzzati. Si arrivò così al 2 giugno, data del famoso proclama in cui il “dittatore” Garibaldi prometteva le terre ai combattenti e data in cui avrebbe iniziato ad usufruire della collaborazione di 6 ministri e di un segretario di stato (Francesco Crispi), tutti siciliani. La promessa delle terre spiega il grande seguito che Garibaldi ebbe tra gli umili e tra i contadini. Ma il peggio doveva ancora venire perché sulla testa di tutti avrebbero pesato i profondi dissapori tra Garibaldi e Cavour. Il primo, rappresentante della sinistra europea il secondo della destra moderata, il primo desiderava che Vittorio Emanuele da re di Sardegna diventasse re degli italiani proclamato da una grande costituente nazionale da tenersi a Roma, il secondo invece preferiva mantenere il parlamento a Torino e annettere al Piemonte gli altri Stati. Tra i due, Vittorio Emanuele seppe giocare bene le sue carte, illudendo Garibaldi da un lato e appoggiando Cavour dall’altro, il tutto “sottobanco”. Si servì di Garibaldi per la conquista militare e di Cavour per la conquista politica. E poiché più passava il tempo e più prestigio acquistava il nizzardo, Cavour spedì in Sicilia e in tutta fretta, ancor prima della decisiva battaglia di Milazzo, il messinese Giuseppe La Farina, con il compito di far approvare immediatamente l’annessione dell’isola al regno sabaudo. La Farina arrivò il 6 giugno e immediatamente si mise al lavoro riunendo tutti i moderati e tutti quanti non vedevano di buon occhio i successi di Garibaldi e le sue promesse di riforma agraria. Bisognava fermare non solo Garibaldi ma anche Crispi che non voleva l’annessione immediata, sperando in una sorta di autonomia dell’isola. La Farina però esagerò e organizzò una manifestazione al grido di “Viva Garibaldi, abbasso Crispi“, tanto che, il 7 luglio, fu espulso dalla Sicilia dallo stesso Garibaldi che però fu costretto ad accettare come prodittatore il lombardo Agostino Depretis.
Ma il nuovo stato mancò completamente alla sua missione e non si conquistò la fiducia della collettività ma lasciò che una borghesia avida e gretta e una aristocrazia asfittica e indebitata, che avevano tutte le brame del capitalismo senza possederne i mezzi e le capacità di realizzarlo come invece stava avvenendo nel resto del mondo, nord Italia compreso, si accaparrasse e spartisse i latifondi e i posti di potere.[19] La mancata distribuzione delle terre ai contadini diede luogo a tumulti di piazza e a gravi fatti di sangue in parecchi comuni dell’isola come Corleone, Cinisi, Vicari, Caltanissetta, Cerami, Caronia, Acireale, ecc. Tutta la Sicilia era in rivolta. I fatti più gravi e più noti si ebbero a Bronte, il 7 agosto. Non erano trascorsi neanche tre mesi dallo sbarco di Garibaldi e già la rivolta divampava. Mentre nelle piazze si combatteva e si moriva per mano dei “liberatori” e dei loro alleati locali, nei palazzi si discuteva: non più l’annessione che ormai era divenuta inevitabile ma le modalità della stessa: la corrente rappresentata da Crispi e dalle frazioni autonomistiche guidate da Ferrara, Amari, Cordova ed altri invocavano “Casa Savoia ma con massima autonomia e parlamento separato” e premevano per ritardare il plebiscito allo scopo di ottenere garanzie in tal senso. Intanto l’ ”escalation” delle ribellioni e il pressante intervento del console inglese nel caso di Bronte convinsero Depretis al ricorso a dure misure repressive. La prodittatura Depretis, che avrebbe potuto rispondere alle rivolte semplicemente dando luogo all’attuazione del decreto del 2 giugno sulla terra, preferì invece la mano forte per screditare gli esponenti della sinistra garibaldina e per limitare il potere di Garibaldi, temuto da Cavour, e usò l’esercito e la guardia nazionale con compiti di polizia interna. La “maledetta missione a Bronte” – parole dello stesso Bixio – fu una fredda e agghiacciante rappresaglia, tesa a seminare il panico e il terrore, un monito per i nemici e per gli amici …. Alla scelta dura di Depretis cercò di rimediare il suo successore, Mordini, che il 18 di ottobre promulgò il decreto per la censuazione dei beni ecclesiastici. Ma attenzione, censire i beni non significava dividerli. Fu solo una manciata di polvere negli occhi. Si arrivò così al plebiscito per l’annessione indetto per il 21 ottobre secondo la formula “Italia e Vittorio Emanuele”. Una annessione incondizionata!
Che ingenui questi siciliani! Pensavano di trattare con i sabaudi come con gli Aragonesi o gli Spagnoli. Pensavano di cambiare sovrano e rimanere autonomi. Pensavano di cambiare per non cambiare. Quello che invece rimase ben saldo e si rafforzò con l’aiuto del governo piemontese fu il potere mafioso. Illuminante in tal senso il caso dei Pugnalatori di Palermo [20]: nella notte del primo di ottobre dell’anno 1862, tredici persone, in altrettanti punti di Palermo, vengono pugnalate da misteriosi assalitori. Uno di essi viene inseguito e catturato e durante gli interrogatori, confessa la “orribile macchinazione” che ha sconvolto Palermo [e Roma], fa i nomi dei complici e del mandante: Romualdo Trigona, principe di Sant’Elia e senatore del Regno, “forse l’uomo più ricco, rispettato e potente di Palermo”. Gli inquirenti non credono al sicario. E sulle prime non gli crede neppure Guido Giacosa, il magistrato piemontese, padre del poeta Giuseppe, da pochi mesi a Palermo. Poi, una serie di successivi attentati lo costringe a riaprire l’inchiesta: con risultati clamorosi e il “caso Sant’Elia” diventa un vero e proprio “affare di Stato che nessuno ha interesse a svelare”. Un esempio di “strategia della tensione” con attentati e processi insabbiati e soprattutto il disprezzo della legalità e l’inquinamento delle istituzioni per giustificare lo stato d’assedio. [cfr. Le Renitenti di Favarotta come esempio di disprezzo della legalità e di arroganza del potere] Al termine del processo, dove nessun mandante viene citato in giudizio, vengono condannati ai lavori forzati o eseguiti per decapitazione solo gli esecutori. Guido Giacosa, preferì le dimissioni alla “traslocazione” e tornò a fare l’avvocato in Piemonte. A un certo punto dei Pugnalatori, Sciascia scrive: “All’epoca dei Pugnalatori [siamo nel 1862], si cercava di piemontizzare, se non italianizzare, la Sicilia sulla spinta degli ideali del Risorgimento, non fosse altro per dare un senso alla spedizione dei Mille, al più consistente Regno d’Italia savoiardo. E dunque il processo di sicilianizzazione dell’Italia non era ancora cominciato. Ma la sconfitta di Giacosa, il giudice piemontese alla caccia dei pugnalatori, si doveva a una classe dirigente italiana che ancora annaspava a trovare la chiave del dominio, di tipo coloniale, sulla Sicilia, e credeva di poterla trovare nei Gattopardi…”. Questa classe dirigente, che annaspa a trovare la chiave del dominio e la gestisce con i Gattopardi o meglio con i Galantuomini non mi pare sia scomparsa, almeno in Sicilia. Ma torniamo alle rivolte. L’isola era una polveriera: il neonato stato muoveva guerra e fucilava i garibaldini, i banditi, i popolari rivoluzionari, i notabili. Tutti erano tra loro nemici. In meno di sei mesi furono circondati, depredati, perquisiti , umiliati, talvolta incendiati 154 comuni, catturati oltre 4000 “renitenti” e 1200 “malviventi” e controllati altri 8000 cittadini. Fucilazioni di volontari garibaldini si ebbero a Racalmuto, a Siculiana, ad Alcamo, a Bagheria, a Fantina [21] e in tanti altri centri [Di Matteo, Storia della Sicilia, p 486] e alle fucilazioni seguivano incendi e morte di poveri “civili”. Il malcontento sfociò alla fine nella quarta rivolta del secolo scoppiata nella notte tra il 15 e il 16 settembre del 1866, il “sette e mezzo”, e repressa violentemente dal generale Cadorna . Non c’era alternativa: o briganti o rivoluzionari (estremisti sia della destra legittimista che di sinistra e popolani delle città). L’insurrezione fu un fatto estremamente grave, sintomo di una situazione malsana, e non solo in Sicilia. Fu allora che, su proposta di Mordini, fu ordinata la prima inchiesta parlamentare della storia d’Italia. Si accertò che la situazione era critica e che l’unità nazionale, da poco raggiunta era in pericolo. Malgrado ciò non si tentarono miglioramenti, si continuò a reprimere e a soffocare nel sangue, si andò avanti così e si costruì uno stato sul fango. Ancora oggi ne raccogliamo i frutti …
Al di qua del Faro
Si è molto discusso sui motivi che scatenarono nel Mezzogiorno la più grande rivolta armata della storia d’Italia. Si è scritto di motivazioni sociali, storiche, patriottiche. Certamente ciascuno di questi fattori ebbe un peso nello scatenare la reazione, ma c’è un dato che resta incontrovertibile: a prescindere da quali fossero le condizioni del Meridione alla vigilia dell’annessione al Piemonte, tale avvenimento le peggiorò, minacciando la sopravvivenza stessa delle classi contadine. Il periodo post-unitario si aprì con l’estensione delle leggi, regolamenti, codici e sistemi amministrativi del Piemonte [22]. Al governo vi era la Destra, in cui militava la maggioranza di deputati eletti nel Meridione. È questo un dato da non dimenticare quando si analizzano le cause del fenomeno in argomento, quantomeno per non giungere alla consolante, ma vittimistica e comoda, conclusione che l’annessione fu un mero attacco del Nord al Sud, che il Piemonte ci avrebbe privato, occupandoci, del nostro bel Reame. Vennero abbattute le barriere doganali esistenti tra gli Stati preunitari, con ripercussioni negative sulle produzioni industriali meridionali – concentrate soprattutto nel Napoletano – che precedentemente avevano goduto di un sistema protezionistico. Il Mezzogiorno si ritrovò gravato dell’ingente debito pubblico piemontese, accumulatosi durante la spericolata gestione cavourriana. Le terre feudali, ecclesiastiche e demaniali furono messe all’asta, con un ricavo di 2,5 miliardi di lire dell’epoca (25 miliardi di euro di oggi, all’incirca poiché non è possibile effettuare una esatta comparazione), usati per pagare i debiti contratti da Cavour, soprattutto negli Stati Uniti. I contadini meridionali che per secoli avevano goduto dell’usufrutto di questi terreni [23] si ritrovarono improvvisamente in mal partito. L’esportazione di prodotti agricoli, vietata dai Borbone, appesantì le condizioni di miseria del popolo. La moneta circolante del ex-Reame, tutta in oro, argento e metalli pregiati – frutto di secoli di accumulo – fu ritirata e sostituita da banconote [24]. Venne esteso al Sud il gravoso sistema fiscale piemontese, assolutamente insopportabile per l’economia meridionale. Fu introdotta anche l’odiosa tassa sul macinato. Le eccellenze ed i dati delle condizioni finanziarie ed economiche del Sud prima e dopo l’Unità sono riportati rispettivamente nelle letture “I records delle due Sicilie” e “il benessere nel Regno delle Due Sicilie”. Sarebbe però antistorico parlare dell’ex-Regno come di un “paradiso perduto” per colpa del nord e dell’Unità. Nell’ex-Reame c’erano solo tre strade statali (postali) e circa 100 km di ferrovie [25] (quest’ultime concentrate nel napoletano), cartina di tornasole di una concezione statica della società e dell’economia. I contadini sopravvivevano, ma non avevano alcun incentivo a migliorare. La nobiltà, il clero e la borghesia godevano di rendite meramente parassitarie. L’istruzione era del tutto insufficiente. Per approfondire la concezione statale borbonica si consiglia la lettura, tra le altre, delle monografia dedicata a Ferdinando II e quella della Questione Sociale. Niente “paradiso perduto” quindi, ma resta il fatto è che dopo l’Unità, le cose peggiorarono! Ma non soltanto per colpe altrui, bensì per responsabilità degli stessi meridionali, come vedremo. Con l’Unità, venne inoltre introdotta una lunga leva obbligatoria [26]. Peggiorò nel Mezzogiorno la piaga della corruzione, alimentata dalle opportunità offerte dal cambiamento in atto. Le associazioni malavitose ebbero un grande impulso e, di fatto, godettero di vasta impunità, non solo per i “meriti” acquisiti durante la campagna militare di annessione, ma anche per la loro utilità nel controllo di un territorio dove era crescente il malumore delle popolazioni. Nei primi anni post-unitari, vi furono le proteste nelle sedi istituzionali, presentate da parlamentari. Si diffusero malcontenti nella magistratura e nei dipendenti pubblici che dovevano applicare leggi e procedure ritenute peggiori delle precedenti. La Chiesa cattolica duramente colpita nei suoi interessi, continuò a tramare contro il neo-Stato. Dal suo canto, la Destra governativa, tentò inizialmente di minimizzare l’entità della protesta, temendo che discutendo alla Camera delle condizioni delle province meridionali emergessero le sue responsabilità politiche e morali per il malgoverno con cui queste province erano state amministrate dopo la loro annessione al Piemonte e, soprattutto, per i metodi con cui venne condotta la lotta al brigantaggio.
La resistenza armata
La reazione nel Sud continentale fu la resistenza armata, che in questa lettura abbiamo voluto chiamare “banditismo sociale”, in luogo di Brigantaggio, termine di cui da più parti si è abusato, svuotandolo di significato, e riempiendolo di mera retorica [27]. Come ci rileva Giustino Fortunato, il banditismo nacque in una società in cui con la caduta dei Borboni vennero al dunque gli antichi sospetti ed odii, che dividevano la borghesia dal popolo: il 1860 fu rivoluzione politica della borghesia, il brigantaggio la reazione sociale del popolo [28].
Le proporzioni assunte e la durata furono tali da configurarlo come la più grave minaccia all’esistenza stessa del Regno d’Italia. Resta anche da spiegare come mai i “briganti” non vinsero. La repressione sabauda fu tanto dura, da compromettere la stessa identità e memoria storica di intere regioni. Le prime sollevazioni contadine ebbero luogo in Basilicata e in Calabria, a seguito della “usurpazione” delle terre demaniali e della rivendicazione degli usi civici soppressi. Reparti composti da soldati regolari dell’ex-esercito di Francesco II, guidati dal colonnello franco-tedesco, barone Teodoro Klitsche de La Grange, appoggiarono le iniziative, restaurando le municipalità borboniche. La “rete” di collegamenti e rifornimenti era egregiamente gestita dal clero. Il brigantaggio fu all’inizio contrastato con la Guardia Nazionale, e con milizie armate dai notabili liberali e dai possidenti, a cui si affiancavano reparti dell’esercito “piemontese”. Come già accennato nella parte introduttiva di questo lavoro, nei primi mesi del 1861, affluirono nelle bande migliaia di uomini: soldati dell’ex-armata reale, garibaldini delusi, anarchici, repubblicani, semplici renitenti alla leva, persone che si erano fatte dei nemici o contadini colpiti dalla carestia, pastori e, ovviamente, anche criminali comuni. Nella primavera del 1861 la reazione divampa in tutto il sud. La figura di maggior spicco fu Carmine Donatelli Crocco di Rionero in Vulture, il cui esercito raggiunse le quattromila unità, riuscendo ad impossessarsi di Melfi, Venosa e molti altri comuni. Il controllo del territorio da parte degli unitari divenne sempre più precario. I filo-borbonici tentarono perciò di dare un comando unico a tutte le bande, per ottenere un grande schieramento con centro nella valle dell’Ofanto, fra l’Irpinia e la Basilicata. Ottennero dal re di Spagna solo un generale, senza esercito, José Borjes. Nel 1861, lo spagnolo fu costretto ad allontanarsi per l’antagonismo con Crocco. Fu fucilato dai Piemontesi a Tagliacozzo [29]. Nel fallimento dell’operazione “Borjes”, cioè del comando unico di un esercito volto alla restaurazione di Francesco II, sta la risposta alla domanda: “ma come fecero a non vincere, i briganti?”. Era stato il partito filo-borbonico a fallire l’obbiettivo fondamentale di riportare la dinastia sul trono. Continuavano intanto ad agire circa 500 gruppi armati. Nell’aprile 1861 venne sventata a Napoli una cospirazione antiunitaria: furono arrestate circa 600 persone, fra cui 466 militari dell’ex-esercito napoletano. In agosto fu inviato nel sud il modenese gen. Enrico Cialdini, con pieni poteri. Le forze militari d’occupazione raggiunsero le 50.000 unità nel mese di dicembre. Il governo, nelle mani della destra, fece approvare la legge preparata dal parlamentare meridionale Pica, che privava il Sud dei diritti costituzionali ed autorizzava le esecuzioni sommarie [30]. Fu inviato nel Sud un esercito di 120.000 uomini, che ebbe più perdite che in tutte le guerre di indipendenza messe insieme [31], al comando del genovese gen. Trivulzio Pallavicini [32]. Per fini militari, venne stesa e protetta una linea telegrafica lucana. I campi dei sospetti manutengoli [33] vennero dati sistematicamente alle fiamme dai bersaglieri piemontesi.
Più di 50 paesi furono distrutti, e la popolazione superstite abbandonata alla fame [34]. Il 13 marzo 1864 veniva fucilato presso Avigliano il comandante Ninco Nanco. Nella stessa primavera del 1863, vennero catturati e fucilati dagli italiani il comandanti leggimisti Kalckreuth e de Namour, che operavano negli Abruzzi. Nel mese di giugno venne arrestato a Roma l’altro ufficiale legittimista Rafael Tristany. Il 25 luglio dello stesso anno, grazie al tradimento del brigante Giuseppe Caruso, il Pallavicini riuscì ad annientare sull’Ofanto le forze di Crocco. Questi riuscì a fuggire ed a raggiungere lo Stato Pontificio.
Il clima politico stava cambiando. Il Vaticano, cercando di tenersi stretto quello che restava dello Stato Pontificio, ridotto più o meno al solo Lazio, abbandonò i “briganti” al loro destino. È interessante a tale proposito confrontare gli articoli di Civiltà Cattolica tra il 1861 ed il 1870 per rendersi conto che già a partire dal 1865 il Vaticano, di fatto, cominciò a collaborare con lo Stato. Lo stesso Crocco non ottenne l’impunità, ma fu catturato dalle truppe pontificie a Veroli, e quindi rinchiuso nelle carceri nuove di Roma. Dopo la presa di Roma del 1870, Crocco fu condannato a morte a Potenza l’11 settembre del 1872, pena commutata nell’ergastolo, scontato a Portoferraio. Lì scrisse la propria autobiografia. Dall’autunno del 1863 all’autunno del 1864, le grandi bande a cavallo vennero annientate ed i migliori comandanti uccisi o imprigionati. Gli anni più accesi della lotta erano terminati, anche se bande sempre più di delinquenti comuni, continuarono ad agire fino ai primissimi anni ‘70 (sec. XIX). La guerra degenerò in scontri senza regole né obbiettivi e soprattutto senza nessuna ideologia precisa. Quando le ultime bande furono eliminate, gli ideali legittimisti erano stati totalmente dimenticati. Nel 1866, Francesco II si rifiutò di incitare alla sollevazione il Mezzogiorno mentre l’esercito italiano combatteva nel Veneto contro l’Impero Austriaco. L’anno successivo sciolse il governo in esilio. Nel gennaio 1870, vennero soppresse le zone militari nelle province meridionali.
La guerra imperversata in quel primo decennio unitario, determinò un declino sociale ed economico del Meridione a cui la borghesia del sud rispose diventando ancor più, se possibile, avida di privilegi e di rendite. Le reazioni pertanto nei due ex-regni di Sicilia ebbero motivazioni diverse, ma la repressione fu durissima in entrambi i casi: migliaia di morti, distruzione di interi paesi, l’economia allo sfacelo ed il depauperamento a lungo termine provocarono gli stessi danni che oggi appaiono irreversibili.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso Settembre
fonte http://www.ilportaledelsud.org/banditismo.htm
Note [1] Giustino Fortunato, lettera a Pasquale Villari, 1901. Giustino Fortunato (Rionero in Vulture PZ, 4 settembre 1848 – Napoli, 23 luglio 1932), nacque da nobile famiglia, studiò a Napoli presso i Gesuiti e quindi all’Università. Laureatosi in Giurisprudenza, si dedicò alla carriera politica e al giornalismo. Fu un illustre politico di destra, nonché storico e promotore di iniziative scolastiche. Deputato dal 1880 al 1909, Fortunato fu nominato senatore all’età di 60 anni, il 4 aprile 1909. Interventista nella I guerra mondiale (votò a favore dell’entrata in guerra al Senato) fu poi nettamente contrario all’avvento del Fascismo. Il suo nome è legato alla “Questione Meridionale”: fu lui a parlarne per la prima volta alla Camera, in relazione alla condizione dei contadini del Mezzogiorno, alla questione demaniale e conseguentemente alla grande diaspora migratoria del Sud. Secondo il Fortunato, l’emigrazione era un male, ma salvava da altri mali infinitamente più grandi, dalla fatidica scelta “o brigante o emigrante”. Egli richiese un diverso sistema fiscale per il Sud, compatibile con il reddito meridionale. Ma forse solo alla fine dei suoi giorni si rese conto di essersi schierato dalla parte politica sbagliata, cioè con quella Destra che continuava a speculare sul Meridione. Il Fortunato riuscì solo in parte a contrastare il pregiudizio, che allora come adesso pervade l’Italia, che il Sud fosse un “paradiso abitato da diavoli”, cioè da malfattori, inetti e parassiti. L’unità d’Italia, che per il Fortunato rimaneva una “miracolosa e magnifica opera d’arte”, avrebbe dovuto rappresentare il primo passo per lo sviluppo del Sud. Il Fortunato era nettamente contrario al federalismo, che, dando potere legislativo ed esecutivo alle regioni, avrebbe consegnato il Sud alle forze politiche, economiche e sociali peggiori, cioè alle camarille e alla camorra, al clientelismo ed al trasformismo. L’Italia non gli appare fusa nemmeno nel male: “corruzione e astuzia nel Settentrione, violenza e miseria nel Mezzogiorno”. Negli ultimi anni di una vita spesa ad analizzare spietatamente le responsabilità della classe dominante, giunse alla conclusione che la stessa era priva delle necessarie qualità e attitudini, in quanto dominata da esasperato opportunismo. Mise in dubbio la sua stessa passata identità politica, e tanti suoi precedenti giudizi.
[2] Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo [3] Leonardo Sciascia [4] Il termine “bandito” in origine significava “uomo posto fuori dalla legge”, un rapinatore ,un malvivente e basta. Il significato moderno compare nel ‘500 con l’uso della parola casigliana “Bandoleros” (banditi) per designare i partigiani armati durante i conflitti civili che devastarono la Catalogna tra il ‘400 e il ‘600. [5] Abbiamo già trattato in questo sito del colpo di stato, sortito nell’ambito dei lavori del Congresso di Vienna del 1815, che cancellò con un tratto di penna l’antico regno di Sicilia rendendolo provincia di Napoli e di come questo atteggiamento influì non poco sulle successive vicende che portarono all’allontanamento della Sicilia dai Borbone. Questi eventi dovrebbero far riflettere tutti coloro che si ostinano ad usare l’orrido neologismo “duosiciliano” quando si riferiscono ad un non lontano passato, e dovrebbero far riflettere sugli errori commessi dalla real Casa Borbone che non riuscì a capire il vantaggio di governare su due regni distinti. Come durante le guerre napoleoniche aveva permesso ai Borbone di conservare un regno e riconquistare l’altro così la separazione dei regni avrebbe permesso ora a Francia, Russia e Austria di fermare, con l’intervento armato, l’avanzata di Garibaldi allo stretto e non avrebbe permesso a Vittorio Emanuele di fare il doppio gioco permettendo da un lato l’avanzata di Garibaldi nel napoletano e fermandolo solo alle porte di Roma. [6] Crocco Carmine, La mia vita da brigante, ed. Adda, 2005 [7] Ernesto De Martino Sud e magia, ed. Feltrinelli [8] E. J. Hobsbawm, I Banditi ( Einaudi, 1971) p. 27 [9] Hobsbawm, op.cit. p. 28 [10] Come disse un capo brigante insolitamente acuto, Cipriano La Gala, ad un avvocato suo prigioniero che sosteneva di essere favorevole ai Borbone: “tu hai studiato, sei avvocato e credi che noi fatichiamo per Francesco II?” La Gala, un commerciante di Nola condannato per rapina e violenza nel 1855 era evaso di prigione nel 1860. In Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’unità” Milano 1966, p 130 [11] Carmine Donatelli Crocco, era un bracciante e mandriano. Dopo una serie di vicissitudini finì con l’arruolarsi nell’esercito borbonico ma dopo l’uccisione di un compagno in una rissa disertò, pare per vendicare l’onore della sorella, e si diede alla macchia per dieci anni. Nel 1860 si unì ai rivoluzionari sperando in una amnistia, non avendola ottenuta divenne il più temibile capo guerrigliero degli insorti anti-piemontesi. Fu lui che in un certo senso abbandonò Borjes al suo destino forse per invidia e per tema che costui sminuisse il suo prestigio di fronte ai “suoi” uomini. Per maggiori informazioni sulla vita e le imprese di Crocco si consiglia la lettura di La mia vita da brigante, ed. Adda, 2005, autobiografia dello stesso. Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco, era un bracciante agricolo di Avigliano, anch’egli in carcere per omicidio. Durante l’avanzata Garibaldina del 1860 evase dal carcere e divenne luogotenente di Crocco. [12] Per questo si dovranno aspettare i sindacalisti dei fasci siciliani. [13] “[La nazione è] una personalità morale, una coscienza, e questa volontà e coscienza non si formarono davvero nell’Italia meridionale […]”. Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, 1924, Laterza, Bari 1980, pag. 162. [14] I grandi proprietari siciliani non vivono nelle loro terre né di esse si preoccupano. Si limitano a consumarne il reddito a Palermo, Napoli, Roma o Parigi. Danno le loro terre in affitto al gabelloto che lo rappresenta e che ha generato gran parte della borghesia isolana: i galantuomini, che in Sicilia non è sinonimo di uomo onesto e civile. C’è da chiedersi se, chi appellò “Re galantuomo” Vittorio Emanuele II, sapesse! [15] Calà Ulloa Pietro, Considerazioni sullo stato economico e politico della Sicilia, 1838. [16] Trattamento fatto alla Sicilia in ottanta anni di unità italiana di Antonio Canepa – da “La Sicilia ai Siciliani!” (1944, firmato con lo pseudonimo di “Mario Turri”) [17] L’insurrezione della Gancia. Il “comitato rivoluzionario”, costituito da mazziniani e liberali, aveva fissato per il 4 aprile una sollevazione che contemporaneamente doveva avvenire nelle tre principali città dell’isola. A Palermo, base d’operazione doveva essere il Convento della Gancia. All’alba del 4 aprile la campana della Gancia doveva dare il segnale ma il direttore della polizia, Maniscalco, ebbe una soffiata e i rivoltosi furono sopraffatti. Ma insorsero Catania, Noto, Caltanissetta, Termini, Piana dei Greci, Carini, Trapani e il 13 nuovamente la popolazione di Palermo. [18] Si suggeriscono interessanti letture a tal proposito: Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e I Vicerè di Federico De Roberto. [19] Si ricordi la frase di Samuel Johnson: “Il patriottismo è l’ultimo rifugio dei farabutti” e si tenga presente soprattutto che il diritto al voto in quel periodo era per censo. Ciò voleva dire semplicemente che in un paese con una popolazione mediamente di 6000 anime solo una cinquantina di persone, gli aristocratici e i galantuomini, avevano diritto al voto. Le conseguenze sono facili da immaginare. [20] Leonardo Sciascia, I pugnalatori di Palermo, Ed. Sellerio. [21] Illuminante a tal proposito è l’eccidio di Fantina del 2 settembre 1862: una delle tante stragi che punteggiarono i mesi e gli anni che portarono alla sottomissione e colonizzazione della Sicilia e del resto del Regno. Una cinquantina di volontari, la “colonna Trasselli”, dal nome del comandante, pare (ma non è sicuro), dopo aver abbandonato il neonato esercito italiano, era in marcia verso Novara di Sicilia per raggiungere Garibaldi e arruolarsi. Un gruppo di otto volontari trovò rifugio nel villaggio di Fantina, piccolo centro in provincia di Messina. Gli otto furono sorpresi nel sonno da una compagnia di soldati “italiani” del 47° reggimento fanteria agli ordini del maggiore Giuseppe De Villata. All’atto della resa pare che fosse stata loro promessa l’immunità personale. Invece, dopo la cattura e un processo sommario, sette di essi furono riconosciuti come disertori del neo Regio Esercito italiano e fucilati. Il governo si giustificò sostenendo che in Sicilia vigeva lo stato d’assedio, proclamato in agosto proprio per fermare Garibaldi nella sua avanzata verso Roma. [22] Il luogo comune, ancora oggi in voga, di definire “borbonica” l’inefficienza della burocrazia italiana, con tutte le scartoffie che gravano sulle procedure, è priva di fondamento storico, perché con l’Unità d’Italia furono immediatamente estesi a tutto il territorio le leggi, i codici, i regolamenti e le procedure del ex-Regno di Sardegna, e del tutto soppressi i precedenti degli altri Stati preunitari. [23] Cfr. Gli usi civici [24] L’immensa fortuna, pari a più di 440 milioni di lire-oro (due terzi di tutta la dotazione aurea del nuovo Regno d’Italia) fu ben fruttata con la legge del 1866 sul corso forzoso, che permise di stampare 3 lire di banconote per ogni lira oro conservata dall’erario. Il governo centrale vietò che fossero le banche che avevano emesso le monete borboniche, il Banco di Sicilia ed il Banco di Napoli, ad incamerare l’oro ritirato dalla circolazione, mentre affidò a questi istituti il compito di raccogliere i proventi della vendita delle terre ecclesiastiche e demaniali. Rastrellato il risparmio al Meridione, queste banche divennero preziose finanziatrici di quell’imprenditoria del Nord che, a differenza di quella meridionale, non aveva impiegato tutte le proprie risorse nell’accaparramento di terreni. [25] All’epoca il Piemonte aveva già 900 km di ferrovie. Delle strade postali del Sud, solo quella per Roma era agevolmente percorribile (in alcuni tratti di quella delle Puglie le carrozze dovevano essere tirate dai buoi). Le strade provinciali e comunali erano per lo più mulattiere. Occorre aggiungere per corretta informazione che anche dopo l’Unità, fino all’avvento della Repubblica, le strade del Sud restarono quelle preunitarie … [26] La leva obbligatoria fino ad allora non era esistita in Sicilia, mentre nel napoletano vigeva un sistema basato sul “sorteggio”, con possibilità per i prescritti di farsi sostituire da “volontari” (cioè da altri ragazzi che ricevevano per questo un compenso dai sorteggiati). [27] È interessante notare come solitamente gli anti-risorgimentali odierni facciano ampio uso della stessa retorica, delle stesse frasi enfatiche, dei filo-risorgimentali di ieri! Significa che il loro scopo non è quello di far luce sulla storia, ma di acconciarla alle proprie ideologie? [28] Lettera di G. Fortunato a P. Villari, Carteggio 1865. [29] José Borges aveva deciso di dare l’assalto alla città capoluogo, Potenza, la cui conquista consentirebbe la costituzione di un governo provvisorio nel Meridione, preludio della insurrezione generale. Tuttavia, una guerra condotta da un esercito regolare, avrebbe segnato la fine del regno di Carmine Crocco e il suo rientro nei ranghi. Nel momento decisivo il capobanda decise perciò di ritirare i suoi uomini e di porre fine alla operazione. [30] La legge Pica fu promulgata dal governo Minghetti il 15 agosto 1863. I parlamentari democratici, come Massari e De Sanctis, cercarono invano di opporsi alla Camera alla legge Pica presentata dalla Destra. Il “fondamento” di quella legge inumana era stato trovato nelle conclusioni della Commissione Parlamentare d’Inchiesta, inviata in Basilicata: la ribellione dei briganti era “la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie”. Insomma, la colpa era del passato governo … come si vede Berlusconi non ha inventato niente! [31] L’esercito ebbe circa 23.000 perdite fino al 1866. Nello stesso periodo, i deportati meridionali furono più di 12.000. Il bilancio delle vittime tra briganti e popolazioni civili non è mai stato fatto. [32] Lo stesso che nel 1862 sull’Aspromonte aveva annientato i garibaldini, tornati per tentare una nuova avventura: la conquista di Roma. In quegli scontri, Garibaldi fu ferito ad una gamba. [33] I “manutengoli” erano coloro che provvedevano a sostenere e fiancheggiare la guerriglia. [34] Ricordiamo al riguardo l’eccidio di Casalduni e Pontelandolfo, due paesi del Sannio: il 14 agosto 1862, le truppe piemontesi, comandate dal veneto Eleonoro Negri, circondarono ed attaccarono i paesi. Gli abitati furono tutti massacrati con violenza, per più di 900 morti, inclusi donne e bambini. Fara Misuraca Alfonso Grasso settembre 2007 Bibliografia Calà Ulloa Pietro, Unione non unità d’Italia, Ed. Argo 1998 (prima edizione 1867) Calà Ulloa Pietro, Considerazioni sullo stato economico e politico della Sicilia, 1838, in “Contributi per un bilancio del Regno Borbonico”, edito dalla Fondazione Lauro Chiazzese, 1990. 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