Jan Fabre, a tre donne di corallo: la mostra allo Studio Trisorio, Napoli
Il vulcanico artista belga Jan Fabre ritorna allo Studio Trisorio di Napoli per una mostra di opere in corallo e sangue, dedicata alle figure di tre donne, tra storia, leggenda e autobiografia
Ritorno nello Studio Trisorio di Napoli dopo l’affollata inaugurazione e rivedo, nella luce pacata di un tardo pomeriggio, la mostra di Jan Fabre. Nelle sale, due sculture di corallo rosso: un teschio con due lunghe ali affusolate e una matassa di coralli, come un groviglio di sentimenti ingarbugliati, dal quale si leva una croce.
Jan Fabre ha usato più volte, nelle sue opere napoletane, questa pietra, il corallo, che non è una pietra ma un essere marino, che ha trovato qui, in un laboratorio alle falde del Vesuvio, dove si lavorano i coralli, che gli artigiani tagliano a forma di perle, di corni, di foglie, di rose. Fabre ama il corallo per il suo colore rosso sangue, simbolo di passione, il suo valore apotropaico e il fascino dell’antico mito di Poseidone, il dio del mare innamorato della bellissima giovane Medusa, che violentò nel tempio di Minerva. La dea s’infuriò per la profanazione del suo tempio e trasformò la Medusa in una orribile megera. La sua folta capigliatura divenne una massa di serpenti. Il suo sguardo pietrificava chi la guardasse. Perseo l’avvicinò e, coprendosi con il suo scudo lucente che ne rifletteva lo sguardo, rapido, con un colpo solo, la decapitò, mise il suo capo nella bisaccia e così vinse, pietrificandolo con quello sguardo ogni nemico, mentre il sangue della Medusa diventava corallo.
Nello studio Trisorio, sulla parete di fondo, c’è un grande mosaico di coralli, con i simboli del Papato, intitolato Per Eusebia e, su una parete laterale, c’è un riquadro con il numero 85, che nella cabala napoletana è il numero dei morti. Sono modelli di due opere: l’una si trova nella Real Cappella del Tesoro di San Gennaro, l’altra è nella chiesa del Purgatorio ad Arco, detta “della capa di morto”, la testa che, in lucido bronzo, si trova all’ingresso. La chiesa è anche detta de “l’anime d’o Priatorio”, le anime di chi non ha ancora ricevuto il premio del Paradiso o la condanna dell’Inferno. Fabre l’ha visitata e si è ispirato al suo ipogeo, una grande stanza che ha, nel centro, una larga fossa dove veniva sepolto chi non aveva soldi per avere un loculo tutto suo dove riposare in eterno (questo prima del decreto napoleonico di Saint-Cloud, 1804, che vietava le sepolture nella cinta urbana). Sulle pareti dello Studio Trisorio, tutt’intorno, ci sono 18 rettangoli di cartoncino bianco con disegni simbolici come sogni visionari, realizzati da Fabre con il suo stesso sangue, con matite colorate e un pennello molto fine.
Fabre ha dedicato questa sua mostra a tre donne: alla gentilissima direttrice della galleria, Laura Trisorio, ha donato il cuore di corallo con la croce e a Joanna de Vos ha donato il grande mosaico, che risulta però dedicato virtualmente a Eusebia. Chi era Eusebia?
Il nome Eusebia mi aveva fatto venire in mente la moglie dell’imperatore romano Costanzo II, la quale, pur essendo una fan di Ario, il prete che considerava Gesù una creatura di dio ma non Dio stesso, (una dottrina che nel Concilio di Nicea del 325 fu condannata come eretica), aveva finanziato il papa Liberio per fondare la basilica romana di Santa Maria Maggiore. Questa basilica era chiamata Santa Maria ad Nives perché costruita, il 5 agosto, mentre miracolosamente nevicava, come racconta la pittura del Beato Angelico ora al Museo di Capodimonte.
Jan Fabre si dice di essere “Uno scettico religioso” e quindi avrebbe potuto simpatizzare con un personaggio così incerto nel credo religioso come questa Eusebia. Ma, sebbene Eusebia sia un nome piuttosto raro anche in antico (mentre il maschile Eusebio è più diffuso), c’è per lo meno una santa Eusebia, che si celebra a settembre. La sua storia è raccontata nel libro Mille Santi del giorno di Piero Bargellini (ed. Vallecchi).
Questa Santa Eusebia è una martire del IX secolo piuttosto nota nella Regione di Marsiglia. Qui si dice che sia stata abbadessa di un monastero e, insieme alle 40 monache sue consorelle, dette “delle nasi in meno”, si sia sottoposta a un trattamento di “chirurgia antiestetica” tagliandosi completamente il naso, per sfuggire, così conciata, alle avances dei saraceni che infestavano le coste della Provenza. Questa è la leggenda delle “nasi in meno” di sant’Eusebia, che per la sua stravaganza sarebbe, a mio avviso, potuta piacere a Jan Fabre. È lei l’Eusebia di Fabre?
Enigmatico ed estroverso, impudico e riservato, Jan Fabre si distingue per la sua grande energia creativa, che esige di essere espressa, senza inutili impacci, nei diversi campi dell’arte: è scultore, pittore, regista teatrale, coreografo, attore, scrittore sempre efficace e originale. È nato ad Anversa, la città (530mila abitanti) più popolosa del Belgio, dove c’era stato, dal Cinquecento in poi, un vero spiegamento di forze dei Gesuiti, per porre una barriera, in una città di confine, al calvinismo luterano, e che, nel Seicento, vide staccarsi, appunto con il trattato di Anversa, 9 aprile 1609, le Sette Province protestanti d’Olanda. Ora il Belgio è una federazione monarchica con una popolazione bilingue. Jan era di una famiglia economicamente modesta ma colta. La madre, di lingua francese, gli leggeva la Bibbia, Baudelaire e Rimbaud e gli faceva ascoltare i contemporanei Georges Brassens e Edith Piaf; il padre, giardiniere comunale, gli faceva conoscere gli artisti fiamminghi e l’accompagnava a visitare la Rubenshuis, la casa di Rubens, diventata museo. Sembra che l’arte del giovane Jan Fabre sia stata inflenzata da Peter Paul Rubens, che a sua volta, dopo otto anni di soggiorno in Italia, si dice si sia italianizzato tanto da essere considerato l’iniziatore del tumultuante barocco europeo.
Anche Fabre è venuto spesso in Italia. Ricordo la mostra, sempre a Napoli, di un suo grande mosaico, fatto dei gusci di neri scarabei, che aveva al centro il simbolo della monarchia belga. Raccontava così la conquista belga del Congo, la folla dei vinti pigmei e la schiacciante gloria dell’impresa. In mostra, accanto al mosaico, una spada ornata da pietre preziose suggeriva gesta esaltanti. Trasportava nell’azzurro del cielo un’altra opera di Fabre, l’uomo che misura le nuvole. Lucente nel suo metallo argentato, un uomo, con un metro tra le mani, salito su una scala, si era trovato su una terrazza del Museo Madre, da dove prendeva le misure alle nuvole e l’avevamo visto proprio quando una nuvola leggera, appena rosata dal fresco tramonto, gli passava vicino per essere misurata. Bellissimi e preziosi i sacri oggetti di corallo, che sono, sempre a Napoli, nella Chiesa del Pio Monte della Misericordia, dove Fabre, tempo prima, aveva fatto inginocchiare una sua scultura-autoritratto, di fronte al quadro delle Sette Opere di Misericordia di Caravaggio.
Eppure quest’artista così umano è anche stato una sorta di enfant terrible senza pudori e senza pietà. Che, stando sulle scale d’ingresso del municipio di Anversa, aveva lanciato per aria dei gatti, per vedere se riuscivano ad atterrare sulle quattro zampe, compiacendosi dell’effetto visivo e, nel 2016, aveva preso dei cani, quelli morti lungo le strade, fuori dal centro abitato (credo), li aveva impagliati e poi, come per un carnevale, li aveva messi in mostra facendo scendere stelle filanti su di loro.
Ma è anche vero che, dal 2015, nella cattedrale di Anversa, c’è Man who bears the cross, la scultura di un uomo che regge una enorme croce nella mano destra. È uno dei suoi più commossi capolavori. A Firenze, nella piazza della Signoria aveva messo una grande scultura in bronzo, con la sua immagine che guidava una tartaruga, intitolandola Searching Utopia, alla ricerca di Utopia, ispirandosi all’opera di Thomas More, il filosofo cattolico, canonizzato, nel 1935, dal Papa Pio XI. A Venezia, a Santa Maria della Misericordia, Fabre ha posto una Pietà che, nella struttura generale, imita la più famosa tra le Pietà michelangiolesche, quella realizzata da Michelangelo giovane in San Pietro. Fabre rende la Madonna scheletrita e Gesù, una sorta di suo autoritratto, porta al polso un orologio.
Fabre è teatrale, è un uomo di teatro che agisce e recita la sua parte nella vita. Ma vuole e ama anche mettere in scena storie e personaggi. Ad Anversa trattenne gli spettatori per una pièce di otto ore e, al Romaeuropafestival, tenne gli attori e gli spettatori impegnati per 24 ore.
Ha avuto diverse onorificenze, anche dall’ex Re Leopoldo del Belgio e la sua consorte, italiana d’origine, Paola Ruffo di Calabria, lo stimava molto. Ha avuto fama e stima internazionali ed è stato l’unico artista straniero ad avere una sua mostra personale al Louvre (nel 2008) e all’Ermitage di San Pietroburgo (nel 2017).
Ama Napoli e dice: «Napoli mi è entrata nel sangue e nelle ossa, mette ordine nel caos, è un elemento che un artista deve sentire e comprendere. Napoli è energia e spiritualità, ti regala ispirazione, ti aiuta a collegare le discipline». Forse perché è la più antica città-porto dell’Occidente e ha conservato, in qualche parte e in qualche modo, la sua sapienza antica che nasce prima che l’aristotelico Teofrasto l’avesse divisa nelle varie discipline. Napoli non è stata ancora completamente disciplinata. È un tutt’uno, la si ama o la si odia, come si dice, e un vero grande artista, come è Jan Fabre, ha potuto comprenderla e amarla.
Due giorni dopo l’inaugurazione della mostra allo Studio Trisorio un colpo di scena. La cronaca riferisce le nozze di Jan Fabre con Joanna De Vos, curatrice e storica dell’arte fiamminga. Era presente anche Django Gennaro, un bambino di due anni, figlio della coppia. La cerimonia si è svolta nella Real Cappella del Tesoro di San Gennaro, dove è conservato il sangue del martire Gennaro, dove è conservato il sangue del martire ucciso nell’anfiteatro di Pozzuoli nel 305, che una donna raccolse per prima. Il suo nome era Eusebia.
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exibart.com