Alta Terra di Lavoro

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La notte dei Pugnalatori

Posted by on Apr 6, 2023

La notte dei Pugnalatori

I nobili siciliani, alla notizia della della riforma agraria del 1812, che in teoria aboliva i privilegi feudali, esultarono alla grande: vi erano infatti tre clausole che paradossalmente, ne aumentavano la ricchezza e il potere economico.

La prima clausola imponeva ai comuni ed ai privati cittadini, ex sudditi dei feudatari, di indennizzare i vecchi signori della perdita delle rendite fiscali di cui questi godevano. La seconda consisteva nel fatto che non fosse prevista la ripartizione dei vecchi possedimenti feudali, che furono giudicati semplicemente allodiali, quindi proprietà privata dei vecchi feudatari. La terza, l’esproprio a vantaggio dei magnati delle vecchie “terre comuni”.

Di conseguenza, paradossalmente, la riforma agraria si trasformò in una sorta di Matthew effect, dal versetto del vangelo

Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha

ossia fenomeno economico che consiste in un processo cumulativo che avviene quando nuove risorse sono distribuite fra i vari attori sociali in proporzione a quanto già possiedono. Nel concreto, questa consistette in una gigantesca spoliazione di terre a discapito dei poveri ed a vantaggio di un esiguo numero di latifondisti.

Il governo borbonico, infatti, decise di porre termine alla condizione giuridica di possesso comune di terre ed uso di pascoli e risorse d’acqua vigente presso numerosissime comunità locali ed esistente da molti secoli, secondo alcuni risalenti in qualche modo sino all’epoca romana ma certamente almeno fin dal Medioevo.

Invece di prendere la forma di possessi feudali, con i connessi diritti e servitù, le terre ora acquisivano lo status di proprietà privata senza vincoli, di cui il proprietario poteva disporre come meglio credeva.

Questa trasformazione delle terre feudali in proprietà privata fu accompagnata dall’abolizione, sempre nel 1812, degli usi civici, come i diritti di pascolo e quelli di accesso ai boschi ed alle fonti idriche, che i contadini prima potevano esercitare all’interno delle tenute. Successivamente, nel 1817 furono aboliti i diritti di pascolo sulle altre terre comuni, che si stabilì fossero ripartite fra i privati.

In conseguenza di queste leggi, tutte le vecchie “terre comuni” del regime feudale furono in breve tempo recintate e trasformate da pascoli ad arativi di proprietà privata. Queste riforme agrarie ebbero effetti devastanti sulle condizioni economiche dei contadini, che peggiorarono in conseguenza delle usurpazioni illegali per mezzo delle quali i grossi proprietari presero semplicemente possesso di fatto delle terre un tempo di uso d’intere comunità.

La legislazione promulgata affermava che era sufficiente l’uso della terra per convalidarne il legittimo possesso e demandava gli eventuali contenziosi ai tribunali. In teoria, la legge garantiva le comunità rurali, ma di fatto nell’applicazione ciò non avvenne: questo iato fra il diritto astratto e la realtà concreta si ritrovò spesso nello stato borbonico. I latifondisti poterono servirsi per gli espropri sia del loro braccio armato costituito da piccoli eserciti privati, i famosi “campieri”, che sono delle componenti da cui poi nacque la Mafia.

Tuttavia, l’esultanza dei grandi latifondisti durò poco: il governo borbonico come mossa successiva, estese nel regno di Sicilia il catasto e le aliquote sulla proprietà fondiaria applicate in Calabria e in Campania, provocando un’inaspettata e notevole crescita delle imposte.

Crescita che trasformò in blocco la nobiltà locale in ferventi autonomisti, allo scopo di difendere i loro privilegi di elusione fiscale: posizione politica alquanto ipocrita, che ebbe, sempre a causa della politica economica napoletana, che era vittima di due distorsioni. Su tale tema, lascio la parola a Giustino Fortunato, che pubblicò nel 1904 uno dei suoi più importanti scritti sulla questione meridionale, La questione meridionale e la riforma tributaria

Eran poche, sì, le imposte, ma malamente ripartite, e tali, nell’insieme da rappresentare una quota di lire 21 per abitante, che nel Piemonte, la cui privata ricchezza molto avanzava la nostra, era di lire 25,60.

Non il terzo, dunque, ma solo un quinto il Piemonte pagava più di noi. E, del resto, se le imposte erano quaggiù più lievi — non tanto lievi da non indurre il Settembrini, nella famosa ‘Protesta’ del 1847, a farne uno dei principali capi di accusa contro il Governo borbonico, assai meno vi si spendeva per tutti i pubblici servizi: noi, con sette milioni di abitanti, davamo via trentaquattro milioni di lire, il Piemonte, con cinque [milioni di abitanti], quarantadue [milioni di lire]. L’esercito, e quell’esercito!, che era come il fulcro dello Stato, assorbiva presso che tutto; le città mancavano di scuole, le campagne di strade, le spiagge di approdi; e i traffici andavano ancora a schiena di giumenti, come per le plaghe d’Oriente.

Ora, il contribuente medio borbonico pagava sì meno tasse rispetto agli altri stati italiani, ma il carico fiscale era malamente distribuito a seconda delle zone: in Sicilia, la tassazione media era di lire 15, a fronte di lire 27 in Campania, Abruzzo e Calabria Citeriore.

Ferdinando e Franceschiello tentarono più volte di risolvere il problema, con una riforma fiscale che in qualche modo avrebbe unificato a un valore medio l’aliquota pagata nei suoi diversi stati, con il risultato di portare la borghesia siciliana a schierarsi a favore degli autonomisti.

L’altro problema, evidenziato da Fortunato, era nel bilancio statale. Sotto Francesco II era così ripartito per la parte comune fra Meridione continentale e Sicilia: Guerra: 11.307.220 ducati; Marina 3.000.000 ducati; Affari esteri 298.800 ducati; Lista civile e spese attinenti: 1.644.792 ducati. La sproporzione fra le spese per le forze armate e quelle per la “lista civile” (praticamente tutto ciò che non cadeva sotto esercito, marina e diplomazia), non merita alcun commento tanto è evidente. In pratica le spese militari avocavano a sé circa l’87 % del totale.

Esisteva poi il bilancio riguardanti gli enti locali, le cui spese si possono così ripartire, su di un totale di 19.200.000 ducati: il pagamento del debito pregresso, che comprendeva ben 13.000.000 di ducati, quindi il 67,7% del totale; i lavori pubblici avevano una spesa totale di 3.400.000, il 17,7% del totale; le spese militari, di polizia, per la magistratura ecc. erano pari a 2.440.000 ducati, quindi al 12,7% del totale; infine, la voce “Affari ecclesiastici e istruzione” comprendeva i contributi al clero ed assieme quelli per l’istruzione e si riduceva a 360.000 ducati: meno del 2%.

In realtà, l’esercito, in sé, non era una spesa improduttiva, nello Stato Borbonico: oltre ad essere un utile strumento per convincere i contribuenti siciliani a pagare il dovuto, fungeva da valvola di sfogo per la disoccupazione endemica di vaste aree del Regno e svolgeva un ruolo keynesiano, stimolando con le sue commesse l’industria locale; il risvolto della medaglia, gli scarsissimi investimenti nelle opere pubbliche, il welfare in realtà era a carico degli enti ecclesiastici, che avevano le loro rendite economiche indipendenti, i quali sfavorivano la Sicilia.

Per cui, i contribuenti da Messina a Palermo, si sentivano, a torto o a ragione, cittadini di serie B; di conseguenza, l’avventura garibaldina fu accolta come una liberazione da uno stato parassitario. I primi ad avvantaggiarsi del cambio di regime, furono ovviamente i nobili, che stipularono una sorta di patto di non belligeranza con le Élites del Nord Italia.

In cambio della parte del leone relativa alla liquidazione patrimonio ecclesiastico siciliano, dovuta alle leggi Siccardi, e del demanio statale, non avrebbero messo bocca nella politica post-unitaria: tanto che il 4 gennaio del 1863, fu eletto a Palermo come rappresentante al Parlamento di Torino un nizzardo: il conte Carlo Laurenti Robaudi, mentre a Modica venne eletto un veneto, Alberto Mario.

Invece, la borghesia e i poveri siciliani, sospettarono di avere subito una colossale sola: da una parte, ebbero il tanto temuto aumento delle imposte, dirette e indirette, dall’altra, a causa delle leggi Siccardi, il welfare garantito dalla Chiesa, improvvisamente collassò. A questo si aggiunse il problema dell’obbligo della leva militare, da cui la Sicilia era esonerata da tempo immemorabile. La legge prevedeva infatti un servizio militare di 10 anni in fanteria, 12 in cavalleria e 14 anni in marina, cosa che mise in crisi buona parte dell’economia delle famiglie locali.

In questa atmosfera di malcontento, si svolse la vicenda dei “Pugnalatori di Palermo”, che affascinò anche Sciascia, che gli dedicò il saggio storico i “Pugnalatori”.

Il Giornale Officiale di Sicilia, la mattina del 2 ottobre del 1862 pubblicò in prima pagina e con grande risalto la seguente notizia:

«Fatti orribili funestarono ieri sera la città di Palermo. Alla stessa ora, in diversi punti della città fra loro quasi equidistanti, tredici persone venivano gravemente ferite di coltello, quasi tutte al basso ventre. I feriti danno tutti gli stessi contrassegni dei feritori, i quali vestivano a un sol modo, erano di pari statura, sicchè vi fu un momento che si potè credere fosse uno solo».

Le pugnalate furono inferte a casaccio, con “scannabecchi”, dei comuni coltelli di campagna usati per la macellazione del bestiame, non per uccidere, ma per provocare il panico e determinare uno stato di tensione e di insicurezza: dei tredici accoltellati solo uno morì dissanguato, un certo Gioacchino Sollima che gestiva un banco di lotto a via Maqueda.

La rapidità e la sorpresa dell’aggressione, la confusione e lo smarrimento degli accoltellati, favorì la fuga dei pugnalatori, che svanirono rapidamente nei vicoli del centro di Palermo. Dodici di loro riuscirono così a far perdere le tracce; uno solo, quasi per caso, venne catturato: Angelo D’Angelo, palermitano di trentotto anni, lustrascarpe di professione; dopo avere squarciato il ventre all’impiegato di dogana Antonino Allitto si lanciò di corsa nei vicoli di Palazzo Resuttana, una serie di viuzze buie e solitarie, ma ebbe la sfortuna di imbattersi in un gruppo di ufficiali che uscivano da un’osteria ubicata nei bassi di palazzo Lanza.

I tre militari erano i sottotenenti: Dario Ronchei, Paolo Pescio e Raffaele Albanese piemontesi, tutti del 51° fanteria; ai tre ufficiali si unirono richiamati dalle grida: Nicolò Giordano capitano delle guardie di Pubblica Sicurezza e la guardia Rosario Graziano, l’unico che ebbe la prontezza di spirito di correre dietro a D’Angelo, acciuffandolo in via Alloro, nei pressi dell’Hotel Patria, all’altezza di un “basso” dove teneva bottega un ciabattino.

D’Angelo negò subito il ferimento dell’impiegato di dogana; disse che si trovava per caso a passare nei pressi del palazzo del principe di Resuttana e che, impaurito dalle urla del ferito e dall’accorrere di gente, era fuggito via per non essere coinvolto nel fatto di sangue. Disse anche che la polizia del Regno d’Italia era prevenuta nei suoi confronti, in quanto egli era stato schedato quale confidente del capo della polizia borbonica: Maniscalco.

D’Angelo, tra l’altro, si era rivolto alla polizia proprio pochi giorni prima chiedendo di essere trattenuto in prigione, per sottrarsi a delle pressioni e delle minacce che aveva ricevuto, tuttavia l’assenza di una qualsiasi accusa e l’intervento prepotente dei suoi fratelli, fecero sì che questi venisse subito rilasciato, prendendo così parte al piano da cui verosimilmente cercava di fuggire.

Convinto a schiaffoni a confessare, fece anche il nome degli altri dodici accoltellatori che erano riusciti a far perdere le loro tracce. Il 3 ottobre, il giornale Officiale di Sicilia pubblicò in prima pagina la notizia della confessione del D’Angelo:

« …questo sciagurato soprafatto dall’enorme peso del crimine, scosso dal fremito dell’universale indegnazione lacerato forse dai rimorsi della coscienza ed atterrito dalle maledizioni di un popolo, determinatasi non solo a confessare la sua reità, ma ben pure a svelare la serie dei fatti e tutto ciò che era a sua conoscenza (i nomi dei complici) intorno all’orribile macchinazione di cui egli aveva preso parte, allo spaventevole attentato del quale era stato uno degli autori…».

D’Angelo affermò inoltre che a contattarlo era stato un certo Gaetano Castelli, il quale gli aveva proposto di fare un certo “lavoretto” insieme ad altri dodici individui; il lavoretto consisteva nel bucare con il coltello la pancia di gente incontrata a caso. Raccontò anche di avere avuto delle perplessità circa un “lavoro” così strano, ma Castelli gli aveva sussurrato in confidenza, che si trattava di questione di alta politica “burbunesca”, su cui non era il caso di mettere il nasto.

Comunque, la somma offerta era così allettante, 3 tarì al giorno, equivalente a circa un mese di un normale stipendio, che D’Angelo accettò e non fece altre domande. Dopo questa confessione fece anche il nome degli altri undici pugnalatori, che conosceva bene.

Furono arrestati quindi: Castelli Gaetano, Calì Giuseppe, Masotto Pasquale, Favara Salvatore, Termini Giuseppe, Oneri Francesco, Denaro Giuseppe, Girone Giuseppe, Girone Salvatore, Scrima Onofrio, Lo Monaco Antonino. I primi tre avevano svolto il compito diassoldare i pugnalatori.

Il nome del mandante fu fatto da D’Angelo al procuratore del re Guido Giacosa che istruì il processo: si trattava di Romualdo Trigona principe di Sant’Elia, senatore del regno. I reali carabinieri che avevano indagato per loro conto sugli avvenimenti accaduti la sera dell’uno ottobre del 1862, nel loro rapporto al procuratore del regno scrissero di un tredicesimo sicario, tale Di Giovanni Giuseppe; stranamente questo nome sparì del tutto dalle carte processuali, pur evidenziando il rapporto che il Di Giovanni era stato messo a disposizione del giudice con l’imputazione di tentato omicidio

Il processo ebbe inizio l’otto gennaio 1863 dinanzi la Corte d’Assise di Palermo; l’accusa era sostenuta dal procuratore Guido Giocosa: l’imputazione per tutti gli arrestati fu quella di tentato omicidio con l’aggravante di «attentato diretto alla distruzione e cangiamento dell’attuale forma di Governo», ossia terrorismo e cospirazione.

La sentenza fu emessa la sera del 13 gennaio. Furono condannati a morte: Gaetano Castelli, Giuseppe Calì e Pasquale Casotto che furono ghigliottinati la mattina del 10 aprile 1863; gli altri otto ebbero la condanna dei lavori forzati a vita; Angelo D’Angelo se la cavò con venti anni di lavori forzati in virtù della sua confessione.

Tuttavia la storia di quest’ultimo finisce qui, dato che non si hanno più sue notizie da dopo il processo, e qualcuno addirittura afferma che D’Angelo non sia mai arrivato all’Ucciardone. Nè va taciuto il fatto che nessuno dei feriti seppe riconoscere in Assise il proprio pugnalatore. In più, Per tutta risposta la sera stessa del verdetto, il 13 gennaio, una nuova ondata di accoltellamenti colpì Palermo, ma pur di non ammettere una giustizia errata e parziale, la notizia fu presto insabbiata dalle autorità, tanto da non lasciarci altro che voci e dicerie.

Infine, Giocosa che tentava di capirci qualcosa in più su questa strana vicenda, fu promosso e rimosso, tornando così nella sua Torino. Il senso di questa vicenda, è complicato da comprendere: non è da escludere che fosse veramente un complotto di nostalgici borbonici, magari finanziati da Franceschiello e da Maria Sofia di Borbone, per aumentare il malcontento e fare scoppiare una rivolta legittimista nell’isola, e che il nome di Romualdo Trigona sia stato fatto per screditare uno degli esponenti del partito filosabaudo.

Trigona, che non era uno stinco di santo, aveva sempre avuto sentimenti e interessi antiborbonici: partecipò attivamente alla Rivoluzione siciliana del 1848, in particolare ai moti scoppiati a Palermo, della cui città ne presiedette il governo provvisorio. Costituito il Regno di Sicilia indipendente, fece parte del suo Senato nel 1848-49.

Nel 1859, Trigona si rifiutò di unirsi alla commissione inviata a Napoli per elogiare il re Francesco II di Borbone per la successione al trono di Ferdinando, e dopo l’occupazione della Sicilia avvenuta nel 1860 con la Spedizione dei Mille di Garibaldi, fu membro della Luogotenenza Generale per le province siciliane. Insomma, aveva molto da perdere e poco da guadagnare in una restaurazione borbonica.

Un’altra chiave di intepretazione, ispirata alle vicende dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, ipotizza invece che si tratti di un complotto sabaudo, per avere una scusa per la repressione del dissenso locale. Per le indagini apparentemente collegate a questi fatti, vennero effettuate perquisizioni e arresti di gente che sicuramente con i pugnalamenti non c’entrava nulla, ma aveva la colpa di essere, o di essere stata in passato, mazziniana, garibaldina o filo borbonica, tra cui uno stretto collaboratore di Garibaldi, Giovanni Corrao, leader del movimento repubblicano e forse colluso con la Mafia, assassinato in maniera alquanto misteriosa il 3 agosto 1863 in un agguato alle porte di Palermo, presso il Castello di Mare Dolce.

A sistemare tutto, con la legge marziale, arrivò nell’ottobre del 1863 il Generale Giovanni Govone, che si macchierà di massacri ed omicidi. Questo clima di terrore, mal tollerato dai palermitani, sfocerà nella famosa rivolta del 7 e mezzo, nel Settembre 1866, in cui la città fu bombardata e in cui 40.000 soldati del Regio Esercito dovettero combattere strada per strada e che tra repressione e colera, provocò sui 10.000 morti… Ma questa è un’altra storia.

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