Le risaie e le febbri malariche nell’Alta Terra di Lavoro tra XVIII e XIX secolo

Nel corso del Settecento e dell’Ottocento, la coltivazione del riso fu oggetto di ampie controversie in numerosi territori del Regno delle Due Sicilie, in particolare nella Provincia di Terra di Lavoro, a causa delle gravi conseguenze sanitarie che essa comportava (1).
Le risaie, infatti, richiedendo ampi ristagni d’acqua, favorivano la proliferazione di miasmi palustri — esalazioni mefitiche ritenute allora responsabili della diffusione di malattie febbrili e infettive, in particolare la malaria. Prima che la scienza microbiologica individuasse l’agente trasmissore del morbo nel plasmodio veicolato da zanzare anofele, la medicina del tempo attribuiva ai “vapori pestiferi” delle paludi e delle risaie l’origine di febbri periodiche, maligne, nervose e persino di epidemie come la peste o il colera. Tali concezioni, pur ingenue agli occhi moderni, nascevano però dall’osservazione concreta di un nesso ripetuto tra aree umide e alta mortalità.
Nel contesto della Valle del Peccia, tra i monti del casertano e del Lazio meridionale, i Comuni di Cervaro, Mignano, Caspoli, San Pietro Infine, San Vittore e Rocca d’Evandro insorsero tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento contro la riattivazione di risaie in terreni che, sebbene formalmente distanti dai centri abitati, risultavano in realtà strettamente collegati alla vita quotidiana e agricola delle popolazioni.
In una pubblicazione stilata da Francesco Grilli nel 1840 (2) vi è un appello vibrante e documentato alle autorità borboniche contro le risaie dei signori Ciaraldi e Giangrande, impiantate in violazione di antichi accordi e regolamenti sanitari. L’autore combina argomentazioni giuridiche, mediche e morali, configurandosi come una vera e propria requisitoria contro l’inerzia amministrativa e le prevaricazioni dei privati.
Già nel 1713, attraverso un “instrumento notarile” stipulato a Napoli, era stata formalmente proibita la coltivazione del riso nei terreni dell’ex feudo di Vandra, dopo una lunga lite tra il Duca di Mignano e le popolazioni dei Comuni limitrofi, preoccupate per le conseguenze igienico-sanitarie. A distanza di un secolo, la concessione del 1803 al sig. Stefano Ciaraldi, sebbene inizialmente limitata all’uso irriguo per colture asciutte, quali il grano e granoturco, fu violata dai suoi eredi Domenico e Giuseppe Ciaraldi, che, insieme a Giangrande, trasformarono l’irrigazione in risaia.
Le testimonianze raccolte nel 1839 da parroci, sindaci, decurionati, medici locali e persino dall’abate di Montecassino attestano una realtà allarmante: la diffusione di malattie croniche, febbri perniciose e nervose, l’incremento esponenziale della mortalità, la debilitazione fisica permanente di centinaia di contadini esposti quotidianamente ai vapori stagnanti.
Tra le prove più drammatiche vi furono:
• Nel solo 1837, 102 morti per febbri maligne nel Comune di Cervaro.
• Un’epidemia che, nel 1840, in pochi mesi si estese da Mignano a Caspoli, San Pietro Infine, San Vittore, Rocca d’Evandro, fino a Cervaro.
• Interventi d’urgenza del Governo con l’invio di “professori sanitari”, tra cui Giuseppe Spada, per fronteggiare il “morbo desolante”.
• L’evidenza che in un solo anno senza risaie, le malattie cessarono completamente.
Francesco Grilli smonta con rigore le obiezioni dei periti favorevoli ai Ciaraldi, accusandoli di misurare distanze tra le risaie e i centri urbani, ignorando del tutto le abitazioni rurali abitate da migliaia di contadini, le massarie, le taverne, i molini e le locande lungo la strada regia (consolare) che collega Napoli con Roma (strada anche chiamata in passato Via Napolitana, poi Via Casilina, oggi è chiamata Strada Statale n. 6). Il danno sanitario, sostiene Grilli, non dipende solo dalla distanza, ma anche dalla morfologia del territorio, dalla presenza di valli e venti che concentrano e trasportano i miasmi ben oltre il perimetro legale di due miglia.
Anche le presunte barriere naturali — come i monti Defensola (oggi Defensa) e Vignola o i ruscelli Peccia e Forma — vengono smascherate come insufficienti e strumentalmente esagerate. I monti non sono eminenti, ma solo sporgenze; i corsi d’acqua sono deboli e fanno parte del medesimo sistema stagnante; le vallate sono piccole e mal ventilate. Tutto è funzionale, secondo l’autore, a giustificare un abuso a favore dei ricchi e a danno della povera umanità.
La parte conclusiva del testo di Grilli è una supplica appassionata al “Supremo Magistrato di Salute”, affinché prevalga il principio sacro della “salus publica suprema lex esto” (la salute pubblica sia la legge suprema). Il Grilli chiede che sia finalmente ordinata la distruzione delle due risaie, come già avvenuto in altri casi analoghi, e che le autorità mediche del Regno — igienisti, fisici, chimici — possano deliberare secondo scienza e coscienza, liberando così quelle popolazioni “stanche di correre a destra e sinistra, dove prima i medici non toccavano neppure un polso”.
Con parole accorate l’autore si chiede: “Ma in grazia della nostra sacrosanta religione, in grazia della coscienza e della buona fede, si domanda: è lecito sacrificare non mille, non cento, ma un solo uomo, lasciandolo perire per non ledere gli interessi di Ciaraldi e Giangrande?”
La vicenda narrata da Francesco Grilli non solo si inserisce in un contesto più ampio di conflitto tra sviluppo agricolo e tutela della salute pubblica, ma rappresenta anche un caso emblematico di vittoria civile. Le testimonianze, le morti documentate, le epidemie, i ricorsi di intere popolazioni, sostenute da autorità religiose e civili, costrinsero infine il Regno Borbonico ad abbandonare definitivamente la coltura del riso in questa parte del territorio.
Non è un caso, infatti, che ancora oggi nei Comuni di Cervaro, Rocca d’Evandro, San Vittore, San Pietro Infine, Mignano e Caspoli, non si coltivi più il riso. La memoria storica di quelle “risaie infernali”, l’eredità delle sofferenze fisiche e morali di generazioni intere, ha lasciato un segno profondo nel paesaggio e nella coscienza collettiva. E se la scienza moderna ha superato la teoria miasmatica, essa non fa che confermare la ragione igienico-sanitaria di fondo che animava quelle battaglie: le paludi e le acque stagnanti sono habitat perfetti per i vettori delle malattie. Eliminandole, quei Comuni difesero non solo la propria salute, ma anche il diritto alla vita, che resta — oggi come allora — il fondamento primo di ogni civiltà giuridica e umana.
Note
(1) Per uno studio più approfondito si può far riferimento a: “Acque e colture irrigue in Terra di Lavoro tra XVII e XVIII secolo”.
(2) FRANCESCO GRILLI, Cenno per i comuni di Cervaro, Rocca d’Evandro, S. Vittore, S. Pietroinfine, Mignano e Caspoli, contro le risaje de’ Sig.i Ciaraldi e Giangrande, Napoli 1840.
Maurio Zambardi