Liliana Isabella Surabhi Stea: Perdonate, signore, questa è la mia patria!
ROMA – Liliana Isabella Surabhi Stea, pugliese, appassionata di storia, psicoanalista, è l’autrice di “Perdonate, signore, questa è la mia patria! (perché siamo come siamo)“, edizioni Magenes, con prefazione di Pino Aprile. Un corposo e interessante saggio che affronta, per la prima volta in chiave psicostorica, il contrasto tra due parti della nazione, il sud e il nord. Parte da un elemento inesplorato, l’educazione impartita a bambine e bambini. È lì che si costruisce l’identità, che si creano le basi per la comprensione.
Il suo libro comincia con uno “strano” capitolo. Lei lo ha chiamato “Prendere coscienza”. Perché?
«Prendere Coscienza è diverso da Sapere, perché quest’ultimo è un atto intellettuale, una acquisizione conoscitiva mentale, che in qualche modo rimane separato dalle nostre emozioni, ossia dalla parte più ‘nostra e personale’ di noi stessi. Faccio riferimento al mio lavoro per semplificare. Quando una persona viene da me per chiedere aiuto, sa già di che cosa soffre e, senza rendersene conto, sa anche perché, ma non può riconoscere di saperlo. Ha una censura interiore che glielo impedisce; da questo nasce il conflitto interno e da esso la sofferenza. Il suo sé stesso profondo sa, ma la sua mente razionale non lo può riconoscere. Prendere coscienza è la conseguenza di quel processo di ‘scioglimento’, diciamo così, dei divieti e delle censure create dall’educazione ricevuta, in modo da annullare la distanza tra la persona e la sua ‘verità’. Verità che non siamo stati autorizzati a riconoscere e rispettare.
E se guardiamo al senso profondo delle parole, da cui io sono affascinata, ‘prendere coscienza‘ esprime proprio, nel suo significato etimologico “cum-scientia“, l’evento fondante la conoscenza sostanziale, che si realizza quando un contenuto mentale è in accordo con il contenuto emozionale, il ‘cum’ secondo me significa che, prendendo coscienza, aderisco finalmente a quello che so, che anzi già sapevo, ma non lo potevo riconoscere.
È quello che ho descritto nel primo capitolo e che è accaduto a me: la barriera, ormai sottile, devo dire, tra il sapere intellettuale e il sentire emozionale, è caduta sotto la spinta delle parole auto-accusatorie della signora citata, e tra me e la verità non c’è stata più distanza, eravamo una cosa sola.
Con-sapevole: io sapevo, con tutto il mio cuore e tutta me stessa, non solo con la mente, e tra me e la verità non c’era più nemmeno l’ombra della distanza. Potrei dire che la verità in quel momento è diventata la mia vera sostanza».
Due parti, 22 capitoli, un’appendice; 340 pagine dense di storia e di storia da raccontare di nuovo. L’importanza di creare una nuova coscienza…
«La società in cui viviamo non ama la consapevolezza. È nata, come ho descritto nel libro, dalla Pedagogia Nera, ossia dalla volontà di educare all’obbedienza, che può essere declinata in vari modi. Ieri ci volevano aggressivi, per combattere le loro guerre, oggi ci vogliono famelici e nevrotici ‘consumatori’ per smaltire i loro prodotti, e mentre ieri si usava la frusta per ottenere l’obbedienza e creare soggetti violenti, funzionali ad una società classista e guerrafondaia, oggi si usa la seduzione per suscitare desideri di possesso consumistico (‘fate l’amore con il sapore’, ricordate?) oppure si suggerisce che si avrà successo con l’altro sesso o tra gli amici grazie a un profumo, una scarpa, una macchina, e che così si diventa ‘meglio’ di qualcun altro. Non che la cultura della violenza sia scomparsa, anzi sembra crescere sempre più, ma è veicolata più dai mezzi di comunicazione e dai ‘modelli’ proposti attraverso film, fiction, figure pubbliche e altro, che dalla famiglia. Siamo sollecitati troppo ad essere questo e quello senza nessuna attenzione alla vera natura di ciascuno, per cui si finisce col vivere staccati da sé stessi, proiettati più sulla propria immagine all’esterno che al proprio essere interiore. La riprova che sia così è nell’alto consumo di psicofarmaci e di droghe, oltre che nell’aumento del disagio a tutti i livelli. Si cerca di corrispondere a modelli ritenuti ‘vincenti’ o quantomeno ritenuti ‘accettabili’.
Diretta conseguenza, questa, della Pedagogia Nera, di cui parlo nel libro, che pone a suo fondamento la divisione del mondo, umani e non, in due sole categorie Giusti e Sbagliati, Superiori e Inferiori, sistema in cui ci troviamo profondamente immersi in tutto il mondo occidentale, che stabilisce essere ‘giusti e superiori’ i maschi bianchi, ricchi e potenti, accompagnati magari da donne altrettanto bianche, ricche e potenti, che però sono comunque considerate ‘inferiori’ e volenti o nolenti devono stare un gradino più giù, o un metro più in là, in cima mai, a meno che non siano la moglie di un capo supremo, illuminate di luce riflessa, anche quando ne avrebbero tanta di propria. Tutti gli altri esseri sono considerati ‘sbagliati e inferiori’. Tutte le fisiologiche differenze, vengono definite, da questo sistema, mentale prima che ideologico, ‘diversità’ con il significato di ‘anomalie’.
La nuova coscienza necessaria è il riconoscimento che siamo fatti tutti degli stessi bisogni e della stessa materia, variamente mescolata, come solo la Natura sa fare, ricordandoci che abbiamo quasi lo stesso Dna dei topi, che tanto schifiamo. Abbiamo bisogno di uscire dalla dicotomia in cui noi ‘meridionali’ siamo stati intrappolati e convinti a stare nella ‘casella’ degli sbagliati-inferiori-ignoranti e sfaticati, da sempre, perché non è vero. Il nostro ‘prendere coscienza’ che non siamo figli di una famiglia disonorata e disonorevole (la nostra Storia) e che al contrario possiamo esserne fieri ed onorati, andare a testa alta nel mondo e dire “sì, io sono napolitano, da molte generazioni!” come diceva la mamma del maestro Riccardo Muti, significa acquistare la forza e la fiducia di chi ritrova sé stesso, libero da menzogne e falsificazioni. Quanto saremmo forti se non solo noi, ma ogni essere umano si ricongiungesse alla sua vera natura! Se ci rendessimo conto che non c’è differenza tra noi e un filo d’erba o una montagna, degni tutti dello stesso rispetto dovuto a ciascuno per il semplice motivo di esistere, manifestazioni diverse di una stessa cosa: la vita».
Cosa è stato per lei più difficile in questo lavoro?
«Ripercorrere il dolore dei nostri antenati, calarmi nei loro panni per poter trovare le parole giuste, calzanti, parole di verità, perché il lettore potesse sentirsi anche lui dentro le vite di chi ha subito l’oltraggio, non semplice spettatore di un racconto che non lo riguarda, ma partecipe in prima persona. Perché io credo che ci riguardi ancora personalmente tutti, uno per uno, come ci insegna l’epigenetica, che per me è stata una rivelazione. Ciascuno di noi porta in sé, incisa nel Dna la storia che i nostri antenati hanno vissuto, e sofferto. Ho provato dolore misto a rabbia e stupore, per le menzogne che ci hanno raccontato, scoprire la bellezza dell’ordinamento del nostro Stato, con la sua attenzione ai deboli, ora per status, come i bambini, gli infermi o gli anziani e le donne, oppure per motivi sociali come i poveri e i reclusi, o gli stranieri. Nessuno veniva valutato per il suo apparire ma sempre per il suo essere, per cui un orfano cencioso accudito in un orfanotrofio, a spese dello Stato o della Chiesa, poteva diventare qualunque cosa avesse avuto la capacità e la volontà di essere, e a prescindere dal sesso. Superare il pregiudizio, che ovviamente era stato ben piantato anche in me, è stato faticoso, ho dovuto scontrarmi con il mio spirito critico intriso di luoghi comuni prima di arrendermi all’evidenza di quanto andavo scoprendo e tacitare quella parte di me che mi guardava con gli occhi degli altri per dirmi, come poi mi ha detto un’amica, “Ma trovi solo cose belle? E dài, non è possibile” ma invece è possibile, le ho trovate, le ho messe insieme come si fa con gli oggetti nascosti in soffitta, dopo averli scoperti e tirati fuori dalle casse impolverate in cui stavano chiusi, e li ho messi in bella mostra perché i parenti possano conoscerli anche loro ed esserne fieri.
Ciò che ho trovato era vero, e gli oggetti impolverati mi parlavano, mi dicevano di gente felice di essere accudita amorevolmente dai suoi governati, di vivere in quelle terre dove non si osannavano le guerre e la morte dei ‘nemici’, ma le gioie della vita e dell’ingegno umano, si festeggiavano i raccolti e si cantava l’amore. A chi cerca di sminuire la bellezza di quei ritrovamenti rispondo che da queste terre non emigrava nessuno, e se non sembra sufficiente, allora si pensi all’emigrazione tuttora inarrestabile da queste terre; si emigrerebbe se si stesse bene? Quindi sì, la cosa più difficile è stata abbattere in me stessa le ultime tracce di quel condizionamento mentale che mi aveva portata a credere i Borbone bigotti, arretrati e inefficienti, e il nostro regno abitato da ignoranti, sfaticati e menefreghisti. Mi sono dovuta arrendere all’evidenza, e mi sono liberata di una zavorra».
Lei viene da una professione che è diversa da quella della ricerca storica. Cosa ha rappresentato per lei questo nuovo approccio?
«Praticamente ha significato rimettermi a lavorare, non con una persona in carne ed ossa, ma con un soggetto che mi parlava di sé attraverso le carte e le opere ancora esistenti. Una sfida che mi ha dapprima spaventata e affascinata, ma che ho poi accettato perché cosa nuova, stimolante come tutte le cose nuove e perché, grazie a quella ‘presa di coscienza’, ho sentito che dovevo dare a quella ‘donna’ (come ho rappresentato il nostro ex regno) una possibilità di parola, e di riscatto. Di liberazione dalla menzogna di cui l’avevano rivestita.
In fondo, il processo psicoanalitico è proprio questo: liberarsi della corazza dietro alla quale ci si era nascosti per difendersi o che ci hanno imposto per permetterci di stare al mondo. Poiché la ‘corazza’ è un falso, costruito per compiacere gli altri, la persona che sta dentro è sempre molto più bella, perché è vera, è autentica, con doti e qualità inespresse che ignora persino di avere. Nel ‘tirare fuori’ dalle carte la bellezza di quell’antico regno, ho vissuto la stessa gioia che un giorno una paziente mi ha descritto proprio come la fuoriuscita liberatoria da un “pelliccioso” involucro scimmiesco. Ecco, la corazza di falsità che ci hanno costruito addosso, e in cui ci siamo rifugiati per sentirci protetti, non ci protegge più, ci sta soffocando, ci hanno e ci siamo convinti che ‘è colpa nostra’, così come pensano le donne e i bambini vittime di violenza. Non è vero! Le Pedagogia Nera convince la vittima di essere lei la causa della violenza e dell’abuso, capovolge le responsabilità, e noi ci siamo fatti convincere che è così. Non è vero! Le colpe sono di chi commette la violenza o l’abuso, non di chi la subisce».
Il libro è dedicato ai suoi figli. Il messaggio alle nuove generazioni…
«È vero, e dai miei figli ho imparato molto, più che insegnato, però in verità non so se mi rivolga ai giovani. Mentre scrivevo, la mia mente era più rivolta agli adulti, per il ruolo importante che essi hanno nell’educazione dei giovani. Pare che questi di oggi leggano poco, quindi non saprei come arrivare a loro, se non attraverso gli adulti che hanno accanto e ai quali vogliono bene. Una cosa che mi ha fatto molto piacere è stato sentire un amico dire: “D’ora in poi insegnerò la storia così come hai detto tu!“, ecco questo è un modo indiretto di parlare a loro. Ma il mio augurio e la mia speranza è che sempre più persone, anche attraverso la riscoperta della loro vera Storia, si riapproprino del valore di tutto ciò che di buono e di bello noi umani e cosiddetti ‘meridionali’ in particolare siamo capaci di costruire, proprio come abbiamo fatto in quei secoli da poco trascorsi.
So che molti giovani hanno il desiderio di una società rispettosa di tutto ciò che vive ed esiste, senza distinzioni di sorta, e loro mi danno speranza. Penso per esempio ai tanti giovani ambientalisti a cui Greta ha dato voce, penso ai tanti giovani ‘meridionali’ identitari che si battono per recuperare l’orgoglio delle nostre origini e liberarci dalla mentalità superiore/inferiore che ci hanno inculcato e che ci era estranea. Pensando a loro considero il mio scritto uno strumento in più rispetto alla sola conoscenza della Storia, che metto a loro disposizione affinché si possano ulteriormente liberare dalle gabbie mentali subdolamente imposte attraverso la finta acculturazione e la cosiddetta ‘educazione’. Io spero che lo usino, perché non c’è niente di più bello che essere sé stessi, valorizzare quello che si è ed esserne orgogliosi».
di Nadia Verdile
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