Omaggio a Mastroianni, un divo del cinema italiano, incantatore disincantato
Recentemente, a 93 anni dalla nascita e a 20 dalla morte di Marcello Mastroianni, la Direzione Generale Cinema del ministero dei Beni Culturali, in collaborazione con l’Istituto Comprensivo Marcello Mastroianni, ha ricordato, all’interno di “Storie e Stelle del Cinema Italiano”, il celebre attore con un evento speciale, realizzato con il teatro di Villa Torlonia e grazie al sostegno di Luce Cinecittà e al Centro sperimentale di cinematografia. Nel corso della manifestazione, è stato proiettato “Ritratto di uno sconosciuto” di Gioia Magrini e Roberto Meddi, in cui si assiste al dialogo familiare tra Chiara e Barbara Mastroianni e a testimonianze inedite di amici dell’icona del cinema italiano.
E’ stato, questo, un doveroso tributo all’attore più popolare e conteso del nostro cinema, dalla splendida carriera, che ha onorato Fontana Liri, cittadina dell’Alta Terra di Lavoro, dove il Mastroianni era nato.
Marcello, sino alla fine, esercitò la sua arte e il suo grandissimo talento, malgrado la malattia stesse per portarlo via. In Viaggio all’inizio del mondo, Manoel de Oliveira gli ha affidato il ruolo di un cineasta portoghese (chiamato Manoel…). Al momento di una ripresa cinematografica, egli accompagna il suo attore (Jean-Yves Gautier) in un pellegrinaggio, al villaggio dei suoi antenati.
Marcello Mastroianni scomparve la mattina del 19 dicembre 1996, nel suo domicilio parigino, per i postumi di un cancro al pancreas. L’artista aveva settantadue anni. Due volte premiato per la migliore interpretazione maschile al festival di Cannes (per Dramma della gelosia, del 1970, e per Oci Ciornie, del 1987), Marcello aveva recitato in più di centosettanta film e simboleggiava tutto il cinema italiano. Il suo nome è indissociabile da quello del suo regista-feticcio, Federico Fellini, con il quale aveva segnatamente girato Otto e mezzo e La dolce vita, di cui era l’alter ego, “il suo attore-specchio”, come diceva egli. Il cappello nero di Otto e mezzo, il cappello scozzese di Ginger e Fred, sono i copricapo di Fellini, sulla testa di Mastroianni. Emblemi chiari dell’identificazione dell’attore e del regista. Essi invecchieranno assieme fino a Intervista.
Prima di salire sulle scene, Mastroianni aveva appreso a piallarle: figlio di un carpentiere, nato il 28 settembre 1924, aveva cominciato col seguire le orme del padre, prima di disegnare delle carte durante la guerra e di essere mandato in un campo di lavoro tedesco, dopo l’armistizio italiano, del 1943. Da lì evade con un amico e, nel 1944, entra come contabile in un’impresa inglese di distribuzione di film, a Roma. Contemporaneamente a questo primo contatto con l’industria cinematografica, fa i suoi debutti nell’arte teatrale entrando in una troupe universitaria, dove incontra Giulietta Masina e Federico Fellini. Masina è la sua partner, nel 1948, in Angelica, sua prima interpretazione, che dà alla critica l’occasione di celebrare la sua “inesperienza entusiasta”. Marcello ha il fuoco sacro, è evidente e, subito, Visconti lo assume. Ecco il debuttante nella corte dei grandi. Sotto la direzione di Luchino, l’attore ciociaro reciterà Morte di un commesso viaggiatore, Un tram che si chiama desiderio, Zoo di vetro, Zio Vanja (è un seduttivo dottor Astrom), Le Tre sorelle (è il nevrotico, ambiguo tenente Soljonij), L’Avaro.
Da Visconti a Fellini
Nel 1949 ottiene il suo primo ruolo importante sullo schermo, in Una domenica d’agosto, di Luciano Emmer, e, anche lì, i film si succedono, numerosi. Fin dalla metà degli anni ’50, Mastroianni è diventato una vedette estremamente popolare. Cronaca di poveri amanti di Carlo Lizzani, le pellicole di Alessandro Blasetti, Peccato che sia una canaglia o La fortuna di essere donna, nelle quali ha per partner Sophia Loren, gli permettono di sviluppare uno stile naturale e caloroso, in personaggi vicini al pubblico. Marcello abborda allora dei ruoli più complessi e più ambiziosi.
Nel 1957 lo si vede accanto a Maria Schell e a Jean Marais, in Le notti bianche, di Visconti, che prende lo spunto da un racconto di Dostoevskij, film che gli valse il primo “nastro d’argento”, premio della critica italiana. L’impiegato introverso di Visconti si trasforma, l’anno seguente, in ladruncolo, ne I soliti ignoti di Monicelli. Nel 1960 è il giornalista di La dolce vita, il capolavoro di Fellini, che è un’evocazione indiavolata e barocca delle folli notti romane, rappresentate con molta esattezza, lirismo e disperazione, senza compiacenza. Questa prima, memorabile collaborazione col cineasta riminese proseguirà con Otto e mezzo (1963), Roma (1972), La città delle donne (1980), Ginger e Fred (1986), Intervista (1987).
Se Mastroianni appariva come un interprete privilegiato di Fellini, quasi il suo “doppio”, questa specializzazione non è affatto limitativa, in una carriera prolifica, che lo conduce davanti alle cinecamere di tutti i grandi (e anche meno grandi) cineasti italiani: Antonioni, Scola, De Sica, Monicelli, Comencini, Ferreri, Risi, Bolognini, Lattuada, Bellocchio…
Ma se Marcello ampliò il suo campo d’azione all’Europa, con Louis Malle (Vita privata), John Boorman (Leo the last), Jacques Demy (L’évenement le plus important depuis que l’homme a marché sur la Lune, in cui incontra Catherine Deneuve, che gli darà una figlia, Chiara Charlotte, Nikita Mikhalkov (Oci Ciornie) o Theo Angelopoulos (L’apicultore, Il passo sospeso della cicogna), resterà sempre lontano dall’America.
Mastroianni è l’italiano per antonomasia. Un italiano dal nome greco: “Non so da dove questo mi viene: senza dubbio da qualche ladro coperto di debiti e obbligato a filarsene in Italia…Greco e italiano…Questo fa molte rovine…”. In ogni caso, un molto antico miscuglio mediterraneo: vi entra una povertà solare ed un’esuberanza teatrale, il sentimento dello splendore del mondo e del tragico dell’esistenza, una pigrizia fatalista e una sensualità godereccia. Vi entrano tutte le maschere della gaiezza, della seduzione, del disincanta mento, della fantasia, della malinconia. Un film sconosciuto di Ettore Scola, Maccheroni, che è un inno alla napoletanità, ha meravigliosamente messo in scena questo paesaggio umano, attraverso le trovate, di un americano (Jack Lemmon) e di un napoletano (Marcello Mastroianni), quarant’anni dopo lo Sbarco. Del capoluogo campano diceva: “Napoli è la follia, è ciò che si ama. La gente del Nord è scandalizzata perché nessuno si ferma alle luci rosse. Ma occorrerebbe essere irresponsabile per fermarsi: ciò creerebbe un ingorgo in tutta la città!”.
In Maccheroni, di fronte all’immagine di riuscita e d’efficacia razionalmente pragmatica offerta da Jack Lemmon, un mostro sacro del cinema statunitense, Mastroianni è un ammirevole guazzabuglio barocco, in cui il nature e lo spettacolare si corrispondono senza tregua. Un povero tipo, ma di un’autentica nobiltà di cuore, che abbellisce la vita, tramite gli artifici della poesia e del teatro, e che dà alle ore il sapore carnale dell’amicizia e della ghiottoneria. Vive la vita con una malinconia profonda e un’arte giocoliere dell’istante. Egli non cessa di sapersi mortale e si affretta a giocare l’ultima carta. L’amico americano, conosciuto durante la Liberazione e poi subito perduto, ha il denaro, è estroverso; Lui ha l’oro: la gratuità dei giorni, il tempo che cesella e dispensa con una prodigalità da signore, lui che non ha perso i valori “veraci” dell’esistenza.
Marcello adorava giocare al “povero tipo”. Quando lo si incontrava, si dilettava a rimodellare all’infinito, alla rovescia, la sua immagine di “latin lover”, che gli era valso numerosi legami sentimentali con delle stars. Mastroianni aveva un “numero” particolare, che consisteva nel deprezzarsi, su un tono di una stanchezza ironica: “Non riesco a capire perché mi hanno sempre preso per un seduttore. Ho recitato la parte degli intellettuali perturbati, degli impotenti, dei miseri, dei cornuti – e mi sta bene. Occorre essere stato cornuto: è un’esperienza molto arricchente. E’ buono per l’umiltà, la comprensione, la generosità! Ma non sono mai stato un seduttore.”
Se Marcello fu un “macho”, un dongiovanni, la sua seduzione fu senza fanfara. Insidiosa, timida. Era un personaggio di Cechov, il fratello dello zio Vanja. Uno zio Vanja italiano, ciò che non è incompatibile. Insieme malinconico e leggero, quasi sorpreso dalla vita, dalle donne, dal cielo, disincantato e sorridente.
Beninteso, questo fanfarone alla rovescia conosceva perfettamente il suo fascino. Egli poteva usarne e abusarne, perché sotto i più bizzarri arabeschi c’era una bella pasta umana. Marcello poteva fingere la falsa modestia, per dissimulare la vera, e la negligenza per non vantare l’amore del mestiere: “Non sono che un istrione o, se preferite, una puttana che ama mascherarsi. Non c’è tanto da prendersi sul serio. Gli attori non sono che bambini.”
Un vecchio bambino cecoviano, pieno di dubbi e di debolezze, di generosità e d’irresponsabilità, felice di vivere, sfortunato, incerto e ludico. Tale apparizione in Oci Ciornie, tale era la stoffa del suo talento di uomo e di attore. Uno dei più ricchi, incontestabilmente, del cinema e del teatro europeo d’oggi, forse perché aveva questa vera umiltà di credere all’imperfezione e all’impotenza della natura umana e di preferire questa povera argilla agli ori e ai marmi. Marcello, nel corso degli anni, ha saputo dar corpo a poveri tipi, alle prese con le dure grane della realtà. Questi poveri tipi, che non erano né degli sciocchi né dei vigliacchi, avevano un’ultima risorsa: un fascino fragile e crepuscolare, un’inquietudine segreta che sapevano comunicare. Li si sentiva teneri e vulnerabili, come presi in trappola.
Maestro sulle scene
Nell’ultima primavera, in Italia, Marcello Mastroianni recitava in tournée Le ultime lune, una commedia drammatica di Furio Bordon, la storia di un ottantenne professore che entra in una casa di riposo. E’ una precisa radiografia della terza età: solitudine, spietatezza del nostro tempo, crepuscolo della vita. Tutti questi temi, uniti alla performance di Mastroianni, giocata con sapienza ed autoironia, hanno fatto piangere sale intere, che hanno acclamato insieme l’uomo e l’attore. Lo spettacolo, di alta sacralità, doveva essere ripreso a Parigi, ma il commediante ha preferito recitare la propria parte, un’ultima volta. Questo ritorno al teatro, questa prova del fuoco, della “verità”, è stata una delle sue ultime apparizioni, dopo cinquant’anni consacrati essenzialmente al cinema. Egli era tornato al teatro per “pulirsi”, per “fare la dieta”. Esso costituiva per lui una ginnastica che gli permetteva di ricaricare la sua batteria.
Tuttavia, ai suoi debutti, il teatro occupa in Mastroianni un posto tanto importante quanto la “settima arte”. Egli recitava, per la regia di Visconti, le grandi commedie del repertorio classico, da Shakespeare a Cechov, passando per Goldoni. I suoi compagni di scena erano Vittorio Gassman, Ruggero Ruggeri, Paola Borboni.
Senza Marcello Mastroianni, il cinema non è più come prima. Ci manca la sua generosità, la sua tenerezza malinconica, la sua eleganza, la sua umanità ironica, la sua impalpabile insicurezza, il suo umorismo (abbastanza singolare, che consisteva nello scegliersi per bersaglio, mostrando le ridicolaggini per meglio nascondere le sue virtù), il suo fascino, che ha incarnato, suo malgrado, il modello del rubacuori, del maschio latino per eccellenza.
Alfredo Saccoccio