«QUANDO NAPOLI ERA CAPITALE» di GIUSEPPE PIANELLI (III)
Dai Normanni agli Svevi
Ai re normanni, unanimemente riconosciuti potenti, liberali, giusti, valorosi, si sottomisero dunque, di buon grado, tutte le città, tutte le abbazie, tutte le comunità feudali del Sud d’Italia che, di volta in volta, senza tregua, avevano dovuto sottostare ai vicini più forti: ai sire imperiali del Nord, ai catapani bizantini, ai visir musulmani, ai capitani genovesi, pisani, veneziani, ai duchi pontifici. Ancor prima che fosse coronato Re, Ruggero, nel 1129, a Melfi, ebbe l’entusiastico giuramento di fedeltà da tutti i vassalli.
Il Re non deluse nessuno: senza rigettare la legislazione bizantina, corroborandola col Diritto romano, creò un potere regio robusto e accentratore quanto bastava a garantire l’equilibrio fra i corpi sociali e all’interno di essi, con un articolato sistema statale che faceva tesoro dell’esperienza franconormanna nell’ordinamento feudale, di quella romanobizantina nell’amministrazione, e di quella araba in campo finanziario. Nella pratica, Ruggero chiamò a collaborare alla Magna Curia, nella Cancelleria, nel Tesoro, nella Corte dei Conti, nelle Dogane, chiunque ne avesse le capacità, senza distinzione di confessione religiosa, di stirpe, di lingua, di costumi. Vinti e vincitori parteciparono alla costruzione dello Stato. Ogni energia fu incanalata, secondo l’eclettico spirito normanno, in un amalgama etnico e morale che fece del Regno di Sicilia il centro indiscusso della vita culturale, politica ed economica di tutto il Mediterraneo e che tale rimase fin quando fu unito a quei re d’Aragona della Catalogna10.
Tollerante degli usi e dei costumi, Ruggero lasciò che i tribunali civili giudicassero ogni comunità secondo le sue leggi. Si ebbero così sudditi sottoposti al diritto romano, o a quello greco, o a quello longobardo, ognuno secondo la propria origine, e sinanche a quello particolare consuetudinario. Il Sud fu la prima nazione multietnica, come con un termine abusato si direbbe oggi, a diventare stato costituzionale. Mancava ancora quasi un secolo alla «Magna Charta» inglese11.
Rispettoso dei preesistenti diritti feudali, Ruggero volle però un elenco completo del patrimonio regio formando così il primo catasto della storia moderna. Al celebre geografo arabo Al Idrisi commissionò la prima rilevazione del Regno e di tutto il mondo allora conosciuto.
Sotto i re normanni, dalla Sicilia agli Abruzzi, tutto il reame si arricchì di possenti castelli demaniali di difesa, maestose cattedrali, importanti abbazie. Palermo poté vantare quei tesori che ancora ne fanno un gioiello nel mondo: la chiesa della Martorana, la Cappella palatina di Monreale, il castello della Favara, oltre la cattedrale di Cefalù, tanto per dirne qualcuno. Sono ancora quei capolavori dell’arte romanica sparsi in tutto il meridione d’Italia a costituire la base del ricchissimo patrimonio di bellezze che tutto il mondo ci invidia.
Un universo di raffinata bellezza accresceva la fama del Regno del Sud, erede di tutte le più splendenti civiltà, che attrasse verso la sua corte favolosa ogni dotto ed ogni artista del mondo mediterraneo, ed insieme chiunque fosse tanto ambizioso da poterne tramare il possesso. Fra questi il rampollo di una giovane stirpe germanica della Svevia che s’era fatta onore conquistandosi, fra molte pretendenti, il diritto di cingere la tiara del Sacro Romano Impero, gli Hohenstaufen.
Enrico VI, sceso con le sue truppe nell’Italia meridionale, la occupò, si prese in moglie, nel 1186, Costanza, ultima figlia di Ruggero, e, senza troppi scrupoli, mise fuori causa ogni altro pretendente della famiglia, deponendo l’ultimo degli Altavilla, Guglielmo III, figlio di Tancredi e nipote del primo re. Ma costretto a tornare alla sua turbinosa e fatale vita d’imperatore, Enrico lasciò a Palermo il figlioletto Federico, sotto la tutela della madre e del Papa Innocenzo III.
Federico, audace, colto, fantasioso, è oggi conteso fra italiani e tedeschi, da ognuno come capolavoro della loro stirpe. Quello che gli autori moderni chiamarono toutcourt lo «Stupor mundi», anche se, in effetti, cinse anch’egli la corona d’Imperatore e dovè passare molti anni in Germania e a battagliare molto contro le città ribelli dell’Italia centrale e settentrionale, rimase sempre, d’indole, di cultura e di gusti, il «Puer Apuliæ», quel «ragazzo di Puglia» come amava farsi chiamare e come lo definirono i cronisti più concreti del suo tempo. In questa regione, soprattutto in Capitanata, appassionato di caccia, soleva trascorrere la maggior parte dell’anno nei periodi di tranquillità.
Coinvolto forse contro voglia nelle mire dinastiche della sua famiglia, dopo aver ottenuto anch’egli la corona di Imperatore, fu costretto a consolidare quel potere e a disinteressarsi del suo regno che in un primo tempo aveva ben governato curando anche la revisione delle leggi con le «Costituzioni di Melfi». Gli storici più attuali hanno ridimensionato molto la sua figura, comunque eccentrica e geniale, che un mistico pangermanesimo e un livoroso spirito antipapale avevano esaltato fino al prodigioso12.
Federico di Svevia non fu che il “prodotto” della raffinatissima corte normanna: mezzo occidentale, mezzo orientale, amante del bello e del grande. Tutto ciò che si racconta della sua liberalità, della sua tolleranza, del suo gusto, della sua fama di iniziatore dell’arte e della letteratura italiana, ha fondamento solo come continuatore della tradizione normanna meridionale e mediterranea.
Egli, in effetti, non sapeva guardare oltre i suoi obbiettivi immediati. Tutto quel che creò e iniziò doveva rispondere ai suoi sempre più velleitari piani totalitari. In concorrenza con i celebri “studi” di Bologna e Padova fondò l’università di Napoli concepita come un’accademia dei quadri dello stato: forse fu la più illiberale delle sue fondazioni giacché, a differenza della suprema autonomia di cui andavano fiere queste istituzioni, e nonostante si avvalesse dei più celebri professori d’ogni parte d’Europa, quella di Napoli divenne seminario obbligato per gli studenti del Sud. A chi avesse osato inviare i figli a studiare fuori del Regno venivano confiscati tutti i beni e comminato l’esilio.
Ambizioso come e più di ogni altro suo avo siciliano, Federico non si lasciò scappare l’occasione di ottenere gloria e onori ma, sperando di farla franca, non seppe mai decidersi fra le due staffe del Regno e dell’Impero. Forse sperava che lo scettro della sacralità imperiale avrebbe reso servizi all’Italia meridionale: in effetti, le spese per le sue guerre in Europa dissanguarono di tasse il reame e le sue assenze vi portarono l’anarchia. Costretto a trattati con le potenze marinare, rovinò i commerci del meridione ed aprì la strada del Mediterraneo a quei pericolosi concorrenti che erano e restarono i veneziani. Sotto il suo regno finì d’estinguersi la già minata Repubblica di Amalfi13.
Il Papa, che vedeva dileguarsi il sogno di fare del Regno di Sicilia il ponte fra l’Occidente e l’Oriente ma anche il baluardo contro la violenta pressione dell’Islam assetato di conquista, come voleva il Profeta, e nello stesso tempo temeva un impero tedesco che stringesse troppo a se i popoli italiani e violasse le loro autonomie, costrinse Federico ad osservare i patti di vassallaggio di Re e quelli di fedeltà come Imperatore. Richiamatolo all’ordine cercò di dirottarne le energie nella Crociata.
Federico promise ma troppe volte ruppe i patti per dedicarsi alle sue imprese dinastiche. Fu un susseguirsi di affronti, di ribellioni e di scomuniche: un braccio di ferro fra le due massime potenze del mondo, quella spirituale del Papa, tesa all’equilibrio fra il benessere e la libertà dei popoli, e quella temporale di Federico che, per disegni immediati, sacrificava la pace e la vita dei suoi sudditi meridionali.
Vinse il Papa, giacché la scomunica comportava anche l’interdetto e quindi la disobbedienza dei regnicoli al sovrano. Federico, nel 1228, finalmente partì per riconquistare il Santo Sepolcro e l’obbedienza dei suoi sudditi14.
Tutto sarebbe tornato alla normalità e il Re di Sicilia poteva sbarcare carico di gloria, dopo aver cinto con onore quella corona di Gerusalemme che già gli spettava per diritto ereditario. Così non fu perché Federico, invece di combattere il Sultano preferì scendere a patti con lui. Non liberò la costa asiatica e africana, anzi diede il destro al califfato di ampliare i suoi disegni di conquista. Tutto quello che ottenne fu il libero passaggio dei pellegrini che si recavano in Terrasanta (patto che d’altronde fu quasi mai rispettato) ma dové concedere, a sua volta, molti privilegi, soprattutto sulle rotte mercantili. Quello che sembrava un successo della diplomazia si rivelava invece nefasto per una più ampia politica di salvaguardia della cristianità. Gli effetti si sarebbero visti fino alla battaglia di Lepanto, all’assedio di Vienna e durano ancora oggi nell’ex Jugoslavia fino alle stragi odierne in Bosnia Erzegovina e nel Kosovo.
Federico non era un gran credente. Il suo universo culturale era impastato d’astrologia, di scientismo e di mistiche orientali: anche per questo rimane un idolo di tanti “liberi pensatori”. Ma l’ulteriore scomunica del Papa ebbe il suo effetto. Perso definitivamente l’ascendente sui suoi sudditi, sia quelli del Regno che quelli dell’Impero, tradito dai suoi parenti, insidiato da uno stuolo di pretendenti, figli legittimi e figliastri come Manfredi, attaccato dalle truppe papali, ben presto si ammalò e morì. Era il 13 dicembre 1250.
Di Federico resta un monumento, bello, potente, misterioso e alla fine assolutamente inutile come quella stella luminosissima che aveva voluto guidare la storia senza neppur sapere dove andava: Castel del Monte, al centro della Puglia. A forma di corona, ottagonale, con otto torri ottagonali. Ogni sua linea e proporzione risponde a complicati calcoli di solstizi, equinozi, congiunzioni astrali, ogni sua ombra proiettata dal sole o dalla luna segna, senza mai cessare, il tempo che si srotola nell’universo, i secoli, i millenni, le stagioni della terra e del cielo. Un’enciclopedia di pietra del sapere di tutti i magi, di tutti gli astronomi, di tutti gli scienziati profani di quel tempo, che solo pochi eruditi provano a sfogliare. Una stupenda, affascinante, immaginifica biblioteca di Babele contrapposta a quella della Città di Dio.
In quella spropositata costruzione che solo per approssimazione può chiamarsi castello, nulla è funzionale. Non vi sono stalle, cucine, magazzini, non corpi di guardia, non difese né bastioni, barbacani o postierle: solo una sequenza di stanze messe in cerchio, tutte uguali, dove al massimo ci si può accampare per una notte. Insomma, un luogo che non è abitazione e non è difesa ma solo, come le misteriose piramidi d’Egitto, il sogno pietrificato di un uomo che si illuse di dominare il mondo con un’intelligenza pari a quella di Dio15.
Federico, che si spostava in lettiga preceduto da un corteo orientale dove non mancavano nemmeno struzzi ed elefanti, morì banalmente di malaria o di coliche mentre era a caccia, lontano dalla sua corte fastosa, con pochi fedeli attorno, qualche barone e la sua guardia saracena. Si dice che il lugubre corteo che portò la sua salma a Palermo passò davanti alle città mute e sbarrate e che nessuno lo pianse nel reame.
fonte
https://www.eleaml.org/sud/storia/storia_del_sud_vista_dal_sud.html#NATO
O non ancora, forse Palermo…e piu’ a nord Venezia! Complimenti all’Autore! Una meravigliosa cavalcata nei secoli da nord a sud, da ovest ad est, quando c’erano i popoli ma non i confini, quando a guidare le navi di chi andava per mare o i cavalli per chi si muoveva per terra erano ancora le stelle o la fama dei luoghi sull’onda dei racconti e delle merci, altro che bui i secoli intorno al mille! Col mistero tutto ancora da svelarsi di quel castello in Puglia a meta’ strada tra Oriente e Occidente di questa nostra meta’ del mondo! caterina ossi