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Un caso concreto: il Carlismo nel Regno di Napoli

Posted by on Mag 21, 2025

Un caso concreto: il Carlismo nel Regno di Napoli

Gianandrea de Antonellis

Dopo l’analisi, per quanto veloce, dei quattro punti del motto carlista «Dio, Patria, Fueros e Re». adesso cercando di comprendere se il Carlismo sia adatto per essere proposto nei territori dell’ex Regno di Napoli.

Farò alcuni riferimenti a un testo che ho pubblicato per la Collana di studi carlisti delle edizioni Solfanelli, Carlismo per Napolitani, un titolo forse un po’ curioso che è comprensibile come riferimento e omaggio all’importante testo di Miguel Ayuso, Carlismo para Hispanoamericanos, in cui il cattedratico di diritto costituzione e pensatore del Carlismo analizza la storia politica degli Stati della Ispanoamerica, dimostrando come. il Carlismo sia perfettamente connaturale a quei luoghi. Va infatti detto che già un altro pensatore carlista, Frederick Wilhelmsen (peraltro statunitense di origini danesi, il che dimostra come il Carlismo non sia legato esclusivamente alla penisola iberica), affermava che alcuni elementi del Carlismo non erano compatibili con la storia di particolari Paesi: in particolare, la monarchia non era proponibile a popoli che non avessero una tradizione monarchica, come gli Statunitensi oppure gli Svizzeri.

È nota, infatti, l’affermazione di Francisco Elías de Tejada secondo la quale «i popoli non sono nazioni, bensì tradizioni»: cioè non sono nazioni giacobinamente intese, imposizioni burocratiche dall’alto, bensì sono tradizioni che si costituiscono autonomamente e partendo, appunto, dal basso e dalla consuetudine (lo abbiamo visto nel capitolo precedente a proposito della formazione dello Stato). Quindi non si può imporre a capriccio una forma o un’altra di governo, bensì si deve comprendere se la storia di quei determinati popoli è adatta a ricevere una determinata forma di governo. Questo differenzia enormemente le ideologie dalle dottrine.

Le ideologie nascono a tavolino e partono dall’idea che tutti gli uomini siano uguali, siano delle tabulae rasae su cui scrivere ex novo e quindi è possibile imporre loro l’ideologia, quale che essa sia (giacobina, marxista, socialista con le sue derivazioni: da un lato il socialismo e il comunismo, dall’altro il nazionalsocialismo e il fascismo; oppure quella liberale o anarchica). Si parte dunque sempre da una visione a priori, costruita a tavolino e ideologica, nel senso che non è basata sulla concreta realtà, ma semplicemente su idee, su astrazioni teoriche.

Questa Weltanschauung si contrappone alla visione tradizionale, che al contrario ritiene che una determinata forma politica debba prendere vita naturalmente, a seconda della storia della popolazione a cui ci si rivolge. Leggendo il saggio Carlismo para Hispanoamericanos di Miguel Ayuso, mi ero chiesto se era possibile pensare a qualcosa di relativo alle nostre zone e da lì è nato appunto il nucleo dell’idea del mio studio Carlismo per Napolitani.

Ora vedremo appunto se il Carlismo è adatto alla cultura e alla tradizione del popolo napoletano.

Dio

Partiamo dal primo dei quattro lemmi carlisti: Dio.

Con «Dio» il Carlismo intende il pieno rispetto del cattolicesimo, il rifiuto di altre religioni diverse dalla cattolica, perché questo comporterebbe necessariamente un’accettazione di ciò che non rappresenta la Verità. Esiste una sola Verità, riteniamo che la Verità sia quella insegnata da sempre dalla Chiesa cattolica ed accettare deviazioni dalla Verità finisce per comportare il mettere sullo stesso piano la Verità con la falsità. Anzi, generalmente termina addirittura con subordinare la Verità, in nome della “Libertà”, rispetto al capriccio momentaneo. Lo si può vedere nel campo della religione e nel campo della morale (ovviamente, religione e morale sono strettamente legate tra loro).

Quindi il cattolicesimo è il punto di riferimento fondamentale della politica e non ci deve essere subordinazione della religione alla politica, ma viceversa, il che non significa subordinazione dello Stato alla Chiesa, bensì alla religione, al diritto naturale e alla morale naturale che deriva dalla religione cattolica.

Storicamente, il Regno di Napoli è sempre stato cattolico. Anche nel drammatico periodo delle eresie protestanti e delle guerre di religione non ci sono deviazioni di grande importanza. Napoli non fu toccata da alcuna interesse per il protestantesimo, che si concretò sostanzialmente nel semplice passaggio per il Regno di alcuni personaggi legati simpatia protestanti o ereticali (possiamo pensare ai casi più eclatanti di Tommaso Campanella e di Giordano Bruno), ma si tratta, al di là del poco tempo che passarono effettivamente a Napoli, di casi isolati che non toccarono minimamente la fede popolare e diffusa di tutta la nazione napolitana.

Quindi il cattolicesimo ha sempre trionfato nei cuori dei Napoletani e di ciò è un esempio eclatante viene dal caso di Masaniello, il noto capopopolo che prese il potere per una decina di giorni nell’estate del 1647 in seguito a una rivolta popolare, peraltro non antispagnola e assolutamente non caratterizzabile come rivoluzione, perché non si può definire tale una rivolta che esplode al grido di «Viva il Re di Spagna, muoia il malgoverno».

Una parentesi: la rivolta nacque non tanto per il rifiuto di pagare un determinato donativo al Re di Napoli (che era anche Re di Castiglia, di Leon, etc.) per finanziare la guerra contro gli eretici nelle Fiandre, bensì per combattere la modalità con cui questo donativo veniva prelevato, cioè tramite un balzello sulla frutta che andava a colpire soprattutto le categorie più misere del popolo, perché allora i Napoletani più semplici erano definiti mangiafoglie (non mangiamaccheroni, come diverranno successivamente), perché appunto carne e maccheroni erano considerate un cibo destinato alle fasce più alte della società, mentre le persone più semplici si nutrivano di verdura e frutta. Quindi imporre una tassa sulla frutta creava un malcontento soprattutto nelle fasce più bass e della popolazione.

Specificato questo, va detto che lo stesso Masaniello confermò la volontà popolare di riconoscere la necessità del donativo per finanziare la guerra nelle Fiandre, perché riteneva che la guerra agli eretici fosse condivisa dalla popolazione di Napoli (soltanto chiese che venisse finanziato attraverso un altro tipo di imposizione, possibilmente di tipo fondiario e non sulla appunto sulla frutta, come era avvenuto in un primo momento).

Questo esempio dimostra quindi la piena continuità tra mentalità e la fede popolare napoletana e il concetto che lo stato debba essere subordinato. alla religione cattolica e non debba riconoscere altre religioni e possibilmente nemmeno tollerarle.

Patria

Il secondo punto è la Patria. Abbiamo visto che il suo concetto deve essere inteso nel senso naturale: patria come madrepatria, come la terra in cui si nasce, in cui si vive e in cui si muore. Almeno questo era chiaro fino allo scorso secolo, quando – anche per le difficoltà logistiche che abbiamo visto – l’aspirazione della maggior parte delle persone era quella di non doversi spostare o addirittura emigrare: la persona fortunata era quella che poteva nascere, vivere e morire nello stesso luogo e quindi affezionarsi particolarmente ad esso.

La società attuale è molto cambiata per cui questo concetto va un pochino rivisto, ma rimane l’idea che l’attaccamento alla patria, alla terra che ci ha dato la vita, la cui aria abbiamo iniziato a respirare fine da appena nati, fa sì che si ami particolarmente e di più il luogo dove si nasce, la “piccola patria”, il villaggio (o il quartiere, se si nasce in una città) e mano a mano questo amore si amplia e, come noi partiamo dall’amore per la famiglia (nel senso di padre, madre e fratelli, poi lo ampliamo ai nonni e ai cugini e al più ampio cerchio familiare), così, per quanto riguarda la patria, amiamo il nostro villaggio o il nostro quartiere e poi, di conseguenza, n modo naturale apriremo il nostro amore verso la città o verso l’insieme di piccoli comuni, per poi arrivare, usando termini antichi, alla Contea e al Regno o, usando termini più moderni, alla provincia, alla regione e quindi allo Stato; ma l’amore verso l’ente più grande (il Regno, lo Stato) è subordinato all’effettivo amore che si ha verso la propria patria concreta, che è la propria piccola patria, non la grande patria, più ampia e che molti non arriveranno mai a conoscere (almeno a conoscere totalmente), così anche chi viaggia molto non conosce bene tutta l’Europa, anche se la si ama in subordine al fatto che si ama la propria terra ben nota.

Va anche notato che l’amor patrio è un amore che non va in competizione con gli altri amori patrii. Il nazionalismo invece sì, mette gli uni contro gli altri, pone come nemici Francesi contro Tedeschi o Italiani del nord contro Napolitani, Sudtirolesi contro Altoatesini, ma questa è un deviazione del nazionalismo che non ha a che fare con il vero concetto di patria.

Chi ama la patria vede un proprio fratello in colui che ama a sua volta la propria patria: un po’ come chi ama molto la propria madre si ritrova in altri che nutrono un profondo affetto per la propria genitrice. L’amore patrio dunque non crea contrasto, come invece avviene con quello nato dal nazionalismo che appunto vuole pretende di vedere la prevalenza dell’uno sull’altro.

Fueros

Il terzo elemento è quello del fueros. Un giornale napoletano di simpatie carliste degli anni ’70 dell’Ottocento, Lo Trovatore – che peraltro pubblicò il primo romanzo carlista della letteratura italiana, Ernesto il disingannato, tradusse in uno dei suoi editoriali il nostro quadrilemma con «Dio, Patria, Diritto naturale, Re legittimo».

I due concetti sono vicini: fueros, originariamente indica i diritti locali acquisiti; in particolar modo si parla di fueros vascos, quindi delle regioni basche, però i fueros sono i diritti acquisiti da ogni regno e ogni località e località. Si tratta di diritti acquisiti, come quelli che lo stesso Masaniello rivendicava per sé e per i suoi compatrioti: cioè il diritto acquisito di non subire una nuova tassazione se non con il consenso del Seggio del Popolo.

I diritti acquisito sono diritti concreti, libertà (rigidamente al plurale) concrete, contrapposte alla “libertà” (rigidamente al singolare) astratta, strombazzata dalla rivoluzione francese: si tratta di libertà concrete, riconosciute dalla Corona e che ogni Re, all’atto dell’incoronazione si obbligava a rispettare, facendo un giuramento singolo per ognuno dei Regni, delle Signorie o dei Ducati etc. di cui assumeva la corona. Il Re giurava – direttamente o per interposta persona: a Napoli lo faceva attraverso il Viceré – vincolandosi appunto a rispettare le leggi locali, i diritti locali. Faceva questo a Napoli, in Sicilia, in Sardegna, come in Aragona, in Castiglia, Leon, etc. e in alcuni casi – come abbiamo visto – era molto indicativa la risposta che i rappresentanti (ad esempio quelli dell’Aragona) davano al giuramento del Re: «Tu hai giurato di rispettare i nostri diritti e noi giuriamo di rispettarti finché Tu sarai il difensore dei nostri diritti. Altrimenti noi, che siamo meno di Te, ma che tutti assieme possiamo valere più di Te, non Ti rispetteremo».

Era dunque esplicito il ritenersi sciolti dal giuramento nel momento in cui il Re non avesse rispettato il diritto locale.

Assieme al diritto locale, però, c’è anche il diritto naturale, che si lega al concetto di Dio e quindi il concetto di religione cattolica. Il Monarca nell’antico regime non è mai sovrano, perché è vincolato in basso dai doveri che ha verso popolazione e in particolare, dal punto di vista giuridico, dal rispetto del diritto locale acquisito; e soprattutto è vincolato dall’alto nei confronti del diritto naturale. Il Monarca di antico regime, dunque, non può essere considerato né sovrano, cioè al di sopra della legge, né assoluto, sciolto (dal rispetto della legge) perché è costretto a rispettare quella esistente e i principi del diritto naturale.

Sovrano e assoluto, in tutti i sensi, diverrà paradossalmente dopo la rivoluzione francese quella persona o quell’ente (ai nostri tempi: lo Stato) che non deve più rispettare la legge acquisita perché la può modificare in qualsiasi momento e non riconosce la legge naturale perché si pone giuspositivamente, cioè con rispetto del solo diritto positivo, non riconoscendo la presenza di un diritto naturale a cui il diritto positivo debba essere assoggettato, per cui la legge è valida se emessa secondo le regole previste in quel dato ordinamento. Un soggetto sovrano assoluto – noi non ci pensiamo, ma è così – in Italia è il parlamento, che può modificare a proprio piacimento qualsiasi tipo di legge, senza dover rispettare il diritto esistente, perché la nuova legge cancella la precedente, e senza riconoscere il diritto naturale, perché siamo in una situazione di diritto positivo secondo cui l’unico diritto esistente è quello creato dalla volontà di una determinata maggioranza in un determinato momento. Il che può portare ad aberrazioni come quella di dichiarare, come è stato fatto recentemente in Francia, l’aborto come diritto “inalienabile” del cittadino, tanto da inserirlo nella costituzione; oppure ha portato in passato alla. decisione di perseguitare alcune categorie (pochi anni fa è avvenuto nei confronti dei non vaccinati, perché ritenuti un pericolo per la società; negli anni ’40 del Novecento è avvenuto invece con la persecuzione degli Ebrei nei territori controllati dal Terzo Reich, perché anche in quel caso si riteneva che costituissero un pericolo per la società).

Quindi se la legge in un determinato momento stabilisce che Tizio o Caio devono essere eliminati perché non rispondono a determinati requisiti, cioè è possibile da un punto di vista del diritto positivo, purché si seguano le necessarie trafile burocratiche. Una volta superate queste ultime, qualsiasi legge, compresa quella che discrimina gli Ebrei o quella che permette di uccidere i bambini nel ventre della propria madre, o quella che stabilisce che una persona non ha diritto di vivere (“vita indegne di essere vissute” si diceva sempre nel Terzo Reich per eliminare gli handicappati) è legale (non lecita!) e ci sono state alcune sentenze che hanno portato all’eutanasia coatta, in certi casi contro la volontà dei genitori che avrebbero voluto mantenere i loro figli ancora in vita.

Tutto ciò è ovviamente rifiutato dall’ideario carlista:  il diritto naturale è un elemento fondamentale della costruzione politica del Carlismo.

Re legittimo

Ultimo elemento del quadrilemma è Re (inteso come Re legittimo).

Sul concetto di legittimità ricordiamo velocemente che esiste una legittimità di origine e una di esercizio. La legittima di origine, la prima in senso cronologico, stabilisce chi debba essere Re. Il Carlismo (e solo il Carlismo) provenendo. dal pensiero tradizionale politico ispanico, ha introdotto esplicitamente un’ulteriore elemento che è quello della legittimità di esercizio. Se la legittimità di origine è fondamentale per stabilire chi sia Re, ma una volta stabilito chi debba cingere la corona, costui deve dimostrare di essere un buon Re e la legittimità di esercizio lo legittima, appunto, a continuare ad esserlo.

Se non abbiamo un buon Re, se questi non rispetta i principi fondamentali (la religione, la patria, i diritti acquisiti) non è legittimo e decade.

Abbiamo visto come concretamente la legittimità di esercizio è stata fatta valere all’interno del Carlismo in due occasioni, verso Giovanni III nell’800 e verso Carlos Hugo nel ’900, sostituendoli rispettivamente con Carlo VII e con Don Sisto Enrico, ovverosia Enrico V (Enrico I per noi Napoletani).

Orbene: la legittimità di esercizio è connaturata al diritto napolitano? Sì: se ripercorriamo la storia del diritto napolitano ci accorgiamo che esiste al suo interno un filone di pensiero che possiamo definire “tradizionalista napolitano” perfettamente parallelo a quello tradizionalista ispanico.

Infatti vi ritroviamo in nuce alcuni elementi della legittimità di esercizio che, ripeto, è del tutto sconosciuta al pensiero tradizionalista o al pensiero monarchico, chiamiamo italiano, europeo o francese (sostanzialmente quello europeo e quello italiano sono di marca francese), estremamente filo-assolutisti (non dico che affermino esplicitamente che «il Re non sbaglia mai», ma comunque tendono a giustificare ogni atto del Re, anche i più assurdi, semmai addossando la colpa ai ministri, al governo, etc.

Recentemente un articolo del notiziario della TFP, appunto, esaltava la monarchia inglse, definendola una ottima monarchia cristiana, semplicemente perché la regina (o adesso il re) svolge un ruolo puramente rappresentativo senza poter incidere sul governo effettivo: per questo motivo – a loro dire – bisognerebbe considerarla positivamente. Nutro fieri dubbi su questa interpretazione…

Peraltro secondo il Carlismo il Re non si deve limitarsi a «regnare senza governare», come fanno attualmente tutti i monarchi costituzionali, bensì deve «regnare e governare», assumendosi la piena responsabilità di tutti i propri atti, venendo quindi sottoposto al giudizio che è quello della legittimità di esercizio, per cui deve compiere il suo mandato divino nel pieno rispetto della religione, della patria e dei diritti acquisiti dal popolo.

Dicevo che, in nuce, questi concetti sono espressi dal pensiero tradizionale napolitano, che noi troviamo rappresentato nel ’500 da Giovanni Lanario; nel ’600 da suo nipote Francesco Lanario, che scrisse un interessante saggio intitolato Il Principe bellicoso, che costituisce la risposta ispano-napolitana al Principe di Machiavelli; altri pensatori dello stesso filone sono sempre nel ’600 Ottavio Sammarco; mentre la cerniera fra tra ’600 e ’700 è rappresentata da Giambattista Vico. Abbiamo poi, nella seconda metà del ’700, Nicola Spedalieri, il cui pensiero venne ripreso da Antonio Capece Minutolo, Principe di Canosa, che è attivo soprattutto nei primi trent’anni dell’Ottocento, il quale si può considerare un “pre-carlista”, perché muore nel 1838, mentre si stava svolgendo la prima guerra carlista, aderendo esplicitamente al campo di Re Carlos, ma nei suoi testi precedenti al 1833 noi troviamo il rifiuto dell’assolutismo e quindi, in nuce, vicino al concetto di legittimità di esercizio che sarà poi esplicitata dalla Principessa di Beira nella sua celebre Lettera agli Spagnoli (1864).

Siamo dunque di fronte a un pensiero tradizionalista napolitano che è perfettamente parallelo a quello ispanico. Qual è la grande differenza? Che in Spagna c’è stata una più forte e corrente tradizionalista, politicamente di grande importanza, e c’è stata una vera e propria scuola tradizionalista. Da noi non possiamo parlare di una scuola nel senso di “rapporto diretto tra docente e discente”. Ci sono salti temporali, ma è anche indubbio che c’è continuità, sia pure non diretta. Il Principe di Canosa, ad esempio, aveva letto le opere di Spedalieri ben prima di conoscerlo direttamente e non andò a scuola da lui. Chi nel ’900 ha ripreso il pensiero del Principe di Canosa, facendolo conoscere alle nuove generazioni è stato l’avvocato Silvio Vitale, che per ovvie ragioni anagrafiche non poté conoscere il Principe (essendo nato conto anni dopo la morte di Antonio Capece Minutolo), però ne è indubbiamente stato il primo riscopritore e chi, ai nostri tempi, continua l’opera di rivalutazione della importante opera saggistica del Canosa, a maggior ragione neppure lo ha potuto conoscere direttamente, il che però non significa che non riprenda quel filone di pensiero, come quello dei più antichi Lanario, Sammarco e Vico che abbiamo citato. Anche senza aver potuto seguire una scuola vera e propria, con il passaggio di testimone da docente a discente.

Rimane comunque il fatto che esista un pensiero tradizionalista napolitano che è perfettamente compatibile (e in qualche caso addirittura anticipatore) del pensiero tradizionalista ispanico.

Concludo, dopo aver parlato di Carlismo per Napolitani e sperando di aver dimostrato la perfetta connaturalità del Carlismo con il pensiero politico napolitano – e quindi con l’auspicio che Napoli accetti le idee carliste e riconosca Enrico V (per noi Enrico I) come unico Re legittimo – devo dire che si può parlare non solo di Carlismo per Napolitani, ma anche del suo antecedente, cioè di Ispanismo per Napolitani.

È fondamentale a questo fine riconoscere che l’ispanità non è soltanto qualcosa che lega la madrepatria ispanica alle regioni dell’America ispanica, che vanno dal Messico a all’Argentina e al Cile, la cui storia politica potrebbe naturalmente sfociare nell’accettazione del Carlismo; ma l’ispanismo l’ispanità è qualcosa che riguarda anche i territori della Penisola italica che per tanto tempo hanno avuto formato parte delle Spagne ed hanno condiviso il proprio Signore con il Re Cattolico; in particolare mi riferisco al Regno di Napoli – ovviamente anche ai Regni di Sicilia e di Sardegna, al Ducato di Milano ed allo Stato dei Presidi – ma Napoli è forse il Regno che ha più di ogni altro avuto un legame forte con i Re delle Spagne, essendo, secondo quanto diceva Francisco Elías de Tejada, «la perla più fulgente della corona del Re delle Spagne», poiché nel periodo che va dall’inizio del ’500 alla fine del ’600 Napoli rappresentava la città più importante dal punto di vista culturale e storico di quelle su cui dominavano i Re Cattolici, sicuramente più di Madrid (che allora era un poco più di un villaggio, come ammettono gli stessi storici spagnoli, e più di altre città, pur importanti, come Toledo da un lato o Barcellona, che non si era sviluppata come lo è adesso).

Quindi Napoli era veramente la prima città delle Spagne, non la seconda, anche se il Re risiedeva nella Penisola iberica e non in quella italiana.

Riconoscere l’ispanismo, essere orgogliosi del periodo ispanico è fondamentale per poter riconoscere un momento della nostra storia che la storiografia italiana, in funzione filo-unitaria, ha sempre voluto gettare nel fango. Purtroppo va detto che gli stessi storiografi borbonici hanno spesso ripetuto la vulgata secondo la quale Napoli era stata “liberata” da un “giogo straniero” grazie all’avvento di Carlo di Borbone (il futuro Carlo III di Spagna). Si tratta di una falsità, di un artificio retorico che però purtroppo ha avuto successo e si è creata una leggenda nera non soltanto anti-spagnola ma anti ispano-napoletana. Si è considerato il periodo tra ’500 e ’600, che in realtà fu uno dei più fulgidi della storia di Napoli, come il periodo di massimo avvilimento di schiavitù, di subordinazione a un Re straniero. Nulla di tutto questo: il Re di Napoli si considerava napolitano, come si considerava castigliano per il Regno di Castiglia, leonese per il Regno di Leon, Aragonese per la corona d’Aragona, etc.

Noi dobbiamo leggere il periodo ispanico, dal punto di vista politico, come lo facciamo quando affrontiamo la storia dell’arte coeva, riconoscendo che anche per noi fu un “secolo d’oro”. Ma non ci può essere un secolo d’oro dell’arte, riconosciuto da tutti, se non c’è alla base una mentalità, appunto quella ispanica, che lungi dall’essere oscurantista e retrograda, è estremamente aperta e positiva.

Concludo ricordando soltanto la definizione di tradizione, che «non è venerare le ceneri, bensì mantenere acceso il fuoco», che consiste non nel mantenere le cose come sono (questo semmai è proprio del conservatorismo, che è una falsa tradizione, un falso tradizionalismo), ma consiste nel prendere ciò che si è ricevuto dalle generazioni precedenti, migliorarlo per consegnarlo (dal latino tradere) alle generazioni successive.

Questo è il vero tradizionalismo, contrapposto da un lato all’idea rivoluzionaria di cancellare tutto, fare tabula rasa e partire da zero, e dall’altro da quella conservatrice, che pretende di lasciare le cose come stanno, mantenendo intatte anche tutte le storture esistenti.

Ti ringrazio, cortese lettore, per l’attenzione e spero che questo libretto sia potuto servire a far conoscere una dottrina politica poco conosciuta, ma di estrema importanza per tutti.

link
https://www.edizionisolfanelli.it/carlismopernapolitani.htm

https://www.carlismo.it

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La “Barbajada” è una bibita inventata dal mio bisarcavolo Domenico Barbaja, mischiando cioccolato, caffè e latte, per stimolare, irrobustire e addolcire. La presente rubrica intende rivolgersi al lettore stimolandolo con il caffè delle considerazioni, irrobustendolo con il cacao delle dimostrazioni e, possibilmente, addolcire il tutto, rasserenandolo con lo zucchero dell’ironia o la panna della leggerezza.

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