Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

UNA GIORNATA PARTICOLARE

Posted by on Mag 25, 2024

UNA GIORNATA PARTICOLARE

Nel marzo di quell’anno la primavera tardava proprio ad arrivare e la nottata in casa era stata freddissima, nonostante il fuoco crepitasse nel camino sin dalla sera precedente. Quando fu svegliato dai primi chiarori dell’alba e da una campanella lontana che chiamava i monaci a Mattutino, il giudice Maraldo pensò che sarebbe stato proprio bello potersene restare ancora a letto.

Ma quella mattina c’era un processo importante, che riguardava addirittura l’Abbazia di Montecassino. Si fece dunque coraggio, e saltò giù. Tirando fuori dalla cassapanca gli abiti per vestirsi, provò un attimo d’invidia per la moglie che dormiva ancora beatamente sotto le coperte. Ma poi pensò che aver trovato una moglie così innamorata e bella era stato un gran dono del Cielo, che gli toglieva il diritto di lamentarsi dei piccoli fastidi della vita quotidiana, come la levataccia di quella mattina.

Fece velocemente colazione, il cavallo era già stato sellato, vi saltò in groppa e partì alla volta del Castello Ducale. Doveva percorrere un tratto dell’Appia, venendo lui dalle parti di Foro Claudio. In realtà, un funzionario del suo livello avrebbe potuto risiedere direttamente a Palazzo, ma questo avrebbe significato venir continuamente importunato per qualsivoglia questioncella legale, grande o piccola, e la cosa sinceramente non gli sarebbe andata giù.

L’aria nel frattempo si era intiepidita e ad un certo punto gli comparve improvvisamente Sessa, splendidamente indorata dal primo sole del mattino. Tirò un gran respiro a pieni polmoni e si sentì felice di essere al mondo. Mise il cavallo al passo, per godersi lo spettacolo lungo tutta la salita, con il panorama della pianura che si apriva lentamente alla sua sinistra, la visione dell’intero Golfo, ed il mare che appariva in lontananza. Giunse così davanti al grande portone, gli armigeri di guardia lo salutarono e lo fecero entrare.

Importante per i suoi protagonisti, il processo di quella mattina dal punto di vista giuridico non rappresentava nessuna complessità; si trattava di dichiarare chi fossero i legittimi proprietari di un terreno. Processi simili se ne stavano celebrando tanti in quegli anni.

Era accaduto che nella lunga fase d’anarchia che si era avuta nel periodo precedente, molti terreni fossero stati abbandonati e vari personaggi, svelti e privi di troppi scrupoli, se ne fossero appropriati. Per rimettere ordine, era necessario celebrare dei processi; per stabilire i diritti legittimi, dei testimoni dovevano dichiarare di sapere a chi era appartenuto in passato quel fondo, e come gli fosse pervenuto.

In particolare, quella mattina l’Abate Galdo ed il Monastero benedettino di San Salvatore di Cucuruzzo resistevano alle pretese di un certo Gualfrid, affermando che il terreno in località Baloneo era il loro perché gli era stato donato da un devoto, Pergoaldo.

Ma la serenità e il buon umore che avevano accompagnato il giudice Maraldo sin dal mattino, si dissolsero come neve al sole quando si vide comparire davanti i testimoni. Erano gente onesta e affidabile, ma a cui probabilmente sarebbe stato impossibile far capire e giurare qualcosa di più complicato del proprio nome o del Segno di Croce.

“Bel guaio! E mo’ che facciamo?”, pensò tra sé e sé il giudice Maraldo, ma non lo diede a vedere, per non perdere quella gravitas che un magistrato doveva conservare in udienza. Mentre cercava disperatamente una soluzione, si ricordò che un suo collega a Capua, tre anni prima, si era brillantemente tolto d’impaccio da un problema identico con una trovata geniale. Aveva fatto giurare i testimoni su una formula non in latino, ma nella lingua del popolo, che era l’unica che questi villici fossero in grado di comprendere. Perché non fare la stessa cosa? Dopotutto, non c’era nulla che lo vietasse.

E così fece, immediatamente. “Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette”. I testimoni giurarono, e la causa fu vinta dal Monastero.

In una serata d’inizio primavera di marzo del 963, il giudice Maraldo, scendendo la rampa del Castello di Sessa per tornarsene a casa, probabilmente dovette pensare alla cena che lo aspettava e alla moglie a cui avrebbe raccontato tutto quello che era successo e che si sarebbe divertita molto. Dovette pensare che, tutto sommato, a parte quell’episodio era finita una giornata di lavoro come tutte le altre.

Ma che quella pergamena che lo scrivano Ildecaro aveva redatto con un malcelato senso di fastidio, a causa di quella volgarissima espressione adoperata, fosse custodita gelosamente a Montecassino ancora milleduecento anni dopo, questo non poté di certo immaginarselo.

(ricostruzione molto romanzata di un placito medievale)

Michele Scotto Di Santolo

michelescottodisantolo.wordpress.com

(Nella foto: un frammento del Placito Sessano del 963)

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