UNA LUNGA STORIA DI ODIO…( E NON È ROMANZATA).

I lager non sono un’invenzione dei nazisti: già 150
anni fa i Savoia, hanno massacrato in Piemonte e Lombardia migliaia di soldati
borbonici, rei di non essersi sottomessi al loro dominio. Vi dice qualcosa
Fenestrelle? In seguito, i savoiardi pensarono di estendere il trattamento
all’intero Mezzogiorno recalcitrante. Comunque “i meridionali dovrebbero essere
deportati in un luogo disabitato e lontano migliaia di chilometri dall’Italia.
In Patagonia, per esempio”. Non si tratta dell’ultima provocazione leghista
delle rozze sanguisughe razziste Bossi e Borghezio. E’ una cosa seria ammantata
ancora oggi dall’eterno segreto di Stato. Provate a fare richiesta di atti e
documenti in materia al Ministero degli Esteri. Intenzioni e progetto portano
la firma di un Presidente del Consiglio italiano: Luigi Federico Menabrea (che
era nato nell’estremo Nord Italia, a Chambéry, oggi in territorio francese).
Imperversa il 1868: l’Italia “unita” con la violenza, il saccheggio, l’inganno
e il denaro dei massoni inglesi – certo non i Mille di Garibaldi – muove i suoi
primi passi e deve affrontare il brigantaggio al Sud. Nemmeno la pena di morte
senza processo (con la famigerata legge Pica) sembra dissuadere i briganti,
vale a dire i partigiani dell’epoca che sempre più numerosi si riuniscono in
bande. Così il governo italiano, avendo già sterminato interi paesi, compresi i
neonati (ad esempio: a Casalduni e Pontelandolfo) decide di cambiare strategia:
deportare i briganti e loro sostenitori dall’altra parte del globo terrestre, in
modo da recidere affetti e rapporto con il territorio. Un progetto perseguito
per oltre un decennio e che fallì solo per la ritrosia dei Paesi stranieri a
cedere aree per impiantare mattatoi per meridionali italiani.
DEPORTAZIONE DI MASSA
– Il piano di deportazione è scritto nero su bianco: il progetto delle
«Guantanamo» di casa Savoia si rintraccia nei documenti diplomatici conservati
all’Archivio storico della Farnesina. Secondo alcune carte seppellite
dall’oblio, il presidente Menabrea provò prima a sondare gli inglesi, chiedendo
loro un’area nel Mar Rosso, senza riuscirci. Quindi, il 16 settembre del 1868,
il capo del governo italiano contatta il Ministro Della Croce a Buenos Aires,
perché domandi al governo argentino la disponibilità di una zona «nelle regioni
dell’America del Sud e più particolarmente in quelle bagnate dal Rio Negro, che
i geografi indicano come limite fra i territori dell’Argentina e le regioni
deserte della Patagonia». Anche questo secondo tentativo, però, annega in un
buco nell’acqua, perché tre mesi più tardi, il 10 dicembre, Menabrea è già
all’opera per trovare soluzioni alternative. Contatta il console generale a
Tunisi, Luigi Pinna, e gli chiede di «studiare la possibilità di stabilire in
Tunisia una colonia penitenziaria italiana». Ma anche i tunisini oppongono un
no. A questo punto Menabrea ritorna alla carica con gli inglesi. Prima chiede
loro di poter costruire un «carcere per meridionali» sull’isola di Socotra (tra
la Somalia e lo Yemen), quindi domanda loro di farsi perlomeno da tramite con
l’Olanda, perché conceda un’autorizzazione identica per un’area del Borneo.
Menabrea e il governo italiano sono assolutamente convinti della necessità di
deportare lontano dalla terra madre i criminali del Sud. Il senatore Giovanni
Visconti Venosta, più volte ministro degli Esteri, incontrando il ministro
d’Inghilterra sir Bartle Frere, si spingerà a dirgli: «Presso le nostre
impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce
più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte».
È l’idea di abbandonare la famiglia, il Paese natale, il deterrente che il
governo considera la carta giusta per sconfiggere la lotta contadina. Tanto più
che in quegli anni sta nascendo il mito di alcune figure come Carmine Crocco
(detto Donatelli) brigante che riesce a riunire intorno a sé una banda composta
di almeno 2500 uomini e che viene visto come un eroe dalla popolazione locale e
lo stratega imprendibile Michele Caruso di Torremaggiore.Campi di
concentramento – Le istanze del governo italiano, però, cadono nel vuoto. Il 3
gennaio 1872 il governo inglese fa sapere di non vedere di buon occhio la
creazione di un enorme centro penitenziario per i meridionali italiani. Il 20
dicembre di quell’anno anche l’Olanda si defila: concentrare criminali italiani
in un luogo circoscritto viene visto come un problema per la sicurezza interna.
Gli ultimi tentativi risalgono al 1873. Il lombardo Carlo Cadorna, Ministro a
Londra, prende contatto con il conte Granville, Ministro degli Esteri inglese,
ancora per il Borneo. E ancora una volta, da Londra, arriva un rifiuto. Nel
frattempo, le carceri dell’Italia Unita traboccavano di meridionali e i
briganti continuavano a combattere. L’11 settembre 1872, il “Times” pubblicò
una lettera giunta da Napoli che metteva in luce la recrudescenza del
brigantaggio in Italia. Il “Times” ci aggiunse un articolo di fondo in cui non
si risparmiavano sferzate ai Piemontesi per l’incapacità di «eradicare
completamente una così grave piaga».
Oltre il patibolo – Convinto che la paura della deportazione in terre lontane
avrebbe spaventato i meridionali più di qualunque tortura e perfino della
morte, il Ministro degli Esteri, Visconti Venosta, decise di mettere alle
strette gli inglesi. Il 19 dicembre 1872, a Roma, incontrò il ministro
d’Inghilterra Sir Bartle Frere e gli parlò chiaro. Il suo discorso è ancora
agli atti, negli Archivi della Farnesina. Disse: «Se ci ponessimo in Italia ad
applicare la pena di morte con un’implacabile frequenza, se ad ogni istante si
alzasse il patibolo, l’opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero, i
giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere in ogni caso le
circostanze attenuanti. Bisogna dunque pensare – disse il Ministro della
neonata Italia – ad aggiungere alla pena di morte un’altra pena, quella della
deportazione, tanto più che presso le nostre impressionabili popolazioni del
Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce
più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti
all’idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno col
più grande stoicismo incontro al patibolo». Sir Bartle Frere prese tempo ma i
piemontesi non si arresero. È del 3 gennaio 1873 un documento confidenziale in cui
Cadorna ragguaglia Visconti Venosta sul colloquio avuto col conte Granville
relativamente alla «cessione di una parte della Costa Nord Est dell’isola di
Borneo». Il rappresentante del Governo italiano disse al Ministro degli Esteri
inglese che i briganti «avvezzi a mettere la loro vita in pericolo, resi più
feroci dalla stessa lor vita, salgono spesso il patibolo stoicamente,
cinicamente (esempio tristissimo per le popolazioni!). Invece la fantasia
fervida, immaginosa di quelle popolazioni rende ad essi ed alle loro famiglie
terribile la pena della deportazione. In Italia, e massime nel Mezzodì, ove è
grande l’attaccamento alla terra, ed al proprio sangue, il pensiero di non
vedere più mai il sole natale, la moglie, i figli, di passare, e finire la vita
in lontano ignoto paese, lontani da tutto, e da tutti, è pensiero che
atterrisce». Granville però fu irremovibile: l’Inghilterra non avrebbe aiutato
l’Italia a deportare i Meridionali.
Sepolti vivi – Ma quanti erano i detenuti del Sud che marcivano nelle galere
italiane? Secondo la rivista «Due Sicilie» (diretta da Antonio Pagano),
un’indicazione si trova in una lettera del savoiardo Menabrea, al Ministro
della Marina, il nizzardo Augusto Riboty. Menabrea sostiene che sarebbe stato
«utile e urgente» trovare «una località dove stabilire una colonia
penitenziaria per le molte migliaia di condannati» che popolavano gli
stabilimenti carcerari. A proposito della Marina Militare, la Forza armata si
prestò ad esplorare una serie di luoghi adatti alla deportazione dei
meridionali. Il Borneo e le isole adiacenti, innanzitutto, ma anche – secondo
documenti pubblicati da «Due Sicilie» – «l’est dell’Australia». L’anarchico
Giovanni Passannante che la sera del 17 novembre 1878 attenta con un temperino
alla vita di Umberto I di Savoia, rimedia decenni di segregazione e torture
fino a quando muore nel 1910 all’interno del manicomio di Montelupo Fiorentino.
Il suo cranio ed il cervello sono stati esposti fino a qualche anno fa in un
museo criminologico, ma ora riposano a Salvia di Lucania. I libri di storia
tricolore dopo un secolo e mezzo ancora nascondono la verità. Chissà perché?
Altro che “Unità d’Italia”: è in atto ancora la morte civile. Infatti, solo
negli ultimi dieci anni, ben 700 mila giovani laureati sono stati costretti ad
abbandonare il Sud. E anche se non vige più la pena di morte, va in scena la
morte per pena.
Blog. Ninconanco per STOPEURO
segnalato da celestino filomena