“VOCI, SUONI E CANTI DI BRIGANTI IN TERRA DI LAVORO” NELLE PAROLE DI MICHELE SCOTTO DI SANTOLO
LE PAROLE DEI VINTI
Ho provato ad immaginare cosa avrebbero pensato Fra’ Diavolo o Michelina Di Cesare se si fossero trovati in platea, confusi tra gli spettatori dell’Aula Pacis, per assistere ad uno spettacolo che parlava di loro. Anzi, ad uno spettacolo in cui parlavano loro. Perché, bisogna chiarirlo subito, “Voci di briganti” non è una messa in scena a cui si possa assistere standosene distaccatamente seduti in poltrona, ma la ri-creazione di un mondo in cui lo spettatore viene improvvisamente e completamente proiettato.
È il mondo dei briganti, di quegli uomini e di quelle donne che probabilmente non erano mai usciti dall’ombra del proprio campanile, ma che quando la violenza e la sopraffazione si fecero più feroci e più prossime, la fame più acuta e tormentosa, e il crimine divenne diritto, non esitarono a trasformare in armi quegli stessi, poveri attrezzi, che fino al giorno prima avevano usati per coltivare i campi. Perché briganti si diventa un giorno, con la pancia e con il cuore, non con la testa. Non c’è bisogno di complesse analisi storiche o sociologiche per capirlo. E da quel giorno, volenti o nolenti, per costrizione o per scelta, briganti lo si resta per tutta la vita, fino al probabile patibolo.
Ma la storia la scrivono i vincitori, e per narrare quella dei vinti c’è bisogno di un’enorme pietas. Perché, se è vero che per scrivere bene bisogna avere qualcosa da dire, come pare abbia consigliato un ottantenne Manzoni ad un giovane aspirante scrittore, è anche vero che per scrivere e interpretare bene i vinti bisogna avere un immenso amore per loro. Che poi siamo noi, perché non saremmo come siamo se loro non ci fossero stati.
Questo amore e questa pietas si toccano con mano, in “Voci dei briganti”. Mi astengo dal farne lodi sperticate (e meritatissime) perché secondo me significherebbe tradire lo spirito e le intenzioni di tutti coloro che lo hanno ideato e realizzato. Essendo amico di qualcuno di loro, so perfettamente che lo scopo che si prefiggono, in questa ed in tutte le altre loro realizzazioni, non è quella di dare spettacolo, ma di rendere giustizia ad un passato ignorato, quando non infangato. E questo non come mera ricostruzione antiquaria, ma come invito a portare nuovi frutti a partire da quelle nobili, ma spesso vilipese, radici.
Ma cercare di ridare voce ai briganti e al loro mondo, in teatro, in una sera di marzo, non significa farsi avvocati di una causa persa, di una causa che è stata legittimamente e sacrosantamente persa? Lo Spirito all’opera nella Storia, se c’è e comunque lo si voglia intendere, non era comunque contro di loro, inesorabilmente? Forse. Dicevano i Latini che non vi è nulla nel diritto che non possa essere facilmente capovolto, figuriamoci nella narrazione e nella interpretazione delle umane vicende. Ma alcune cose sono fuor di dubbio: il coraggio e la buona fede di questi uomini e di queste donne e il fatto di essersi sostanzialmente difesi da chi li invadeva, giuste o sbagliate che fossero le ragioni degli invasori. E ancora: il fatto di essere stati fatti oggetto di brutale violenza, di torture e sevizie, inammissibili da parte di truppe regolari e regolarmente addestrate.
Salendo sul patibolo, Eleonora Pimentel Fonseca citò un verso di Virgilio “Forsan et haec olim meminisse iuvabit”, forse un giorno ci gioverà ricordare tutto questo. Queste sue parole furono realmente profetiche e per una di quelle temerarie capriole di cui la Storia è maestra, e che i dotti chiamano eterogenesi dei fini, è necessario tenerle continuamente a mente. Soprattutto qui, sopratutto ora.
Michele Scotto di Santolo