Von Stroheim intimo di Alfredo Saccoccio
Erich von Stroheim è era un uomo fiero, pieno di dignità, con quel suo collo da lottatore, la cicatrice sul sopracciglio destro, la sua correttezza militare.
“Amare il proprio lavoro”, sospirava sorridendo con i suoi occhi vivi e penetranti, “amare il proprio lavoro ed eseguirlo con entusiasmo. Esiste forse una gioia più grande sulla terra? Non si fa niente di buono, per forza. Domandatemi tutto ciò che voletesapere. Sono felice di parlare con qualcuno che mi conosca meglio di coloro che ho visto giornalmente per molti anni. MI è successo di stare mesi e mesi senza dire altro che “buon giorno” o “grazie”. A me invece piace discorrere. L’importante è che in Europa non si raccontino su di me cose noiose. Ho in orrore le leggende sul mio conto. Non mi vergogno davvero di tutto ciò che ho fatto. Ho pulito le scuderie, ho venduta carta moschicida in una stazione ove non c’erano mosche,, ho anche lavato i piatti, ho fatto l’usciere, sono entrato negli “studios” come comparsa : non lo nascondo; ma non voglio che si raccontino fandonie sul mio conto”.
Il biglietto della lotteria
Eric Oswald Hans Stroheim von Nordenwall nacque a Vienna nel 1888. Figlio di un colonnello austriaco, entrò all’Accademia militare di Neustadt. quando una disgrazia politica rovinò la sua famiglia. Nel 1909 sbarcò in America. Per meglio rompere ogni legame con il mondo che abbandonava, piuttosto che servirsi delle lettere di raccomandazione di cui era munito, preferì fare tutti i mestieri. Umiliazioni, viaggi in vagoni merci e caffè nero invece dei pasti quotidiani. Il suo lungo vagabondaggio terminò a San Francisco.
“Affamato, al mio ingresso in quella città”, raccontava Stroheim, “decisi di entrare in una trattoria per essere in gamba l’indomani. Disgraziatamente ignoravoi i prezzi eccessivi della città californiana, e mi accorsi, deopo essermi sfamato, di avere appena da pagare la metà del conto che mi presentò un formidabile “yankee” dagli occhi bovini. Inutile cercare di discutere con quel tipo. Riuscii a placare la sua collera, offrendogli il solo bene che possedevo : un biglietto per la lotteria messicana, che avevo pagato due dollari. Tre giorni dopo, il biglietto vinse e l’oste intascò trentamila dollari.
“Ricordavo il numero del biglietto. Ero senza lavoro. Mi recai dall’oste a domandare una parte del guadagno, ma quello non ne volle sapere. Dovetti farmi forza per contenere la rabbia contro quel bruto. “Sono io che vi ho portato fortuna”, insistetti dolcemente, “se non volete darmi un soldo su ciò che vi ho fatto guadagnare, permettete ch’io venga qui a mangiare, finché non mi trovi in grado di pagarvi”
“Il padrone del locale mi spinse bruscamente verso la porta d’uscita, ricordandomi che la legge americana proibiva il traffico dei biglietti delle lotterie, e non mi restava che scomparire se non volevo finire in prigione”.
Incontro con Flora
Quando von Stroheim era in cerca di fortuna, negli studi di New Jersey, verso il 1915, in compagnia di due cineasti irlandesi, uno dei quali andò in prigione, indicò all’altro, dietro il vetro del vagone che si approssimava a New Jersey, la scuola militare di West Point. George Hill si chinò, ammirando a lungo i famosi edifici, finché un granello di polvere di carbone gli entrò nell’occhio. La sua palpebra arrossata batteva ancora comicamente all’arrivo a New Jersey. George Hill, che era l’uomo d’azione del trio, gridò imperiosamente a un autista di tass’ di condurli in un buon albergo.
“Potete fidarvi di me”, disse l’uomo, rispondendo ad una strizzatina di occhi involontariamente ammiccante di George Hill, e li condusse in una casa così ospitale e confortevole, che iln solo abitante mascolino era il portiere. I tre amici, spossati da quattro giorni di viaggio in treno, non si accorsero, se non dopo qualche ora, di come l’autista aveva interpretato l’infermità passeggera di George Hill. Essendosi ormai installati, restarono in quell’albergo fino a quando la polizie lo fece definitivamente chiudere.
Durante una sinistra notte di un inverno newyorkese, Stroheim, le mani nelle tasche, erava senza soprabito, lo stomaco vuoto, attendendo il momento di morire congelato, quando si imbattè in una donna, vestita con eleganza chiassosa, che gli lanciò uno sguardo di pietà. Avendola riconosciuta, attraversò la strada, vergognoso di offrirle lo spettacolo della sua miseria. Ma ella pure lo aveva riconosciuto e lo raggiunse. Era Flora, una sua antica amica. Flora lo condusse a casa sua, lo vest’ a nuovo, gli dette di che vivere fino al momentoi in cui potette ritrovare lavoro e rimborsarla. Eric von Stroheim visse da Flora e dormì su un sofà, nella camera ove lei pure viveva insieme a un suo amante.
Vita di comparsa
La vita dell’antico cadetto austriaco è piena di contrasti. Affamato, scoraggiato, grazie alle sue qualità di cavallerizzo riuscì a trovare un posto di agente di polizia a cavallo. Promosso maestro di equitazione, filò a gran galoppo verso Los Angeles, dove sapeva che si facevano film. Come comparsa, fi impiegato regolarmente in parti di personaggi odiosi.
Ogni mattina andava a piedi ad uno studio, mentre tutti gli altri vi si recavano in vettura. Hollywood era ancora un villaggio. Non avendo mai i quaranta “cents” necessari per pagare un tassì, Stroheim subì, ogni giorno, l’affronto di essere ricoperto di polvere dalle automobili di attori oggi dimenticati, mentre compiva con accanimento la sua passeggiata di cinque miglia.
Ma ecco che gli Stati Uniti dichiarano la guerra alla Germania. Gli studi girano una serie di film di propaganda, nei quali c’è, di solito, una parte di ufficiale tedesco. Nessuno, a Hollywood, è in grado di avere una faccia di “boche” come lui. Un personaggio del cinematografo era nato così e si imponeva. Questo ufficiale di un’eleganza gelida, educato, corretto e ipocrita, con la sua impassibilità convenzionale, rivelava una sensibilità e una crudeltà insolite agli schermi di Hollywood.
Quelle prime composizioni valsero a von Stroheim una scrittura di Carl Laemmle, il fondatore dell’Universal, nel 1919. Egli stesso diresse lo scenario che aveva composto. Il suo nome divenne subito celebre. “La legge delle montagne” (“Blind Husbands”) ebbe un tale successo che, subito dopo quel film, gli permisero di ricostruire Montecarlo alla Universal City, per girare “Femmine folli”.
L’uomo che amereste odiare
Gli agenti di pubblicità circondarono Stroheim di una “réclame” strepitosa. “Si pubblicò la mia fotografia e mi si chiamò “l’uomo che amereste odiare”. Si può essere più idioti?” grida Stroheim spegnendo il furore della sua collera in un bicchiere colmo di “whisky”. “Come se la gente amasse odiare! … E mi recarono un danno immenso, facendomi apparire una specie di energumeno megalomane e arrogante. Io ero il fauno, il sadico, il munifico, il genio pazzoide. Credevano di farmi piacere! Non hanno visto che l’apparenza delle cose ed hanno cercato di influenzare il pubblico, nella persuasione di assecondare i suoi vizi. Ho avuto il torto di non darvi subito peso, perché in seguito, quando ho avuto dei fastidi coi produttori, tutti dicevano : “Non è da stupire, è uno stravagante, egli ha buttato abbastanza denaro dalla finestra”.
“Si dimenticava che i miei film dovevano durare tre volte più degli altri. Oggi dsi ammette chre un film occupi tutto il programma d’una serata. Ciò che il ben noto Capra è riuscito a imporre con “Deeds” e “Lost Horizon” mi faceva passare, dodici anni fa, per un demente. Ci volevano sei ore per vedere “Greed”, nel mio montaggio originale. Ero d’accordo anch’io che fosse un po’ lungo, ed ho passato diversi mesi a cercare di ridurre alla metà il film. Hanno trovato che era ancora troppo lungo. Allora ho piantato tutto. Hanno tratto dal mio lavoro un film che non ho mai voluto vedere.
“Fui accusato di aver fatto durare “Greed” più a lungo di un film normale per guadagnar denaro. La verità è che avevo ricevuto una somma “a forfait”, per girare il film. Dopo aver lavorato quasi due anni, mi restava appena di che sfamarmi, e mia moglie npn aveva che un solo abito.
“Se mi sono intestato su “Greed”, è perché sapevo che era la cosa migliore che avrei mai fatto. Il dramma, per chi fa il cinema, non è l’insuccesso , ma il fatto che il film non può resistere per sempre. Il metallo, il marmo, la pergamena, la carta, talvolta, resistono al tempo, ma la pellicola è fragile. Non si conosce il valore d’un’opera d’arte che molti anni dopo che ha visto la luce. Tra venti anni, che ne sarà dei nostri film? Se frattanto non sono stati distrutti!”.
Superstizioni
Fervente cattolico, Eric von Stroheim è, nondimeno, estremamente superstizioso. Se a tavola rovesciate il sale, diventa verde e vi obbliga a buttare,come lui, un pizzico di sale dietro le spalle. Essendosi accorto, in strada, che il fusto di un fanale lo aveva separato dall’amico, mentre parlavano, tornò indietro e fece il giro del fanale per venire a prenderlo a braccetto. “Non voglio perdere la vostra amicizia”, gli disse, impermalito per il suo sorriso ironico.
A Parigi, scelse il suo alloggio in un appartamento ammobiliato, il cui lusso falso e stupido avrebbe dovuto allontanarlo a prima vista. Fu necessario che, nel corso di una discussione telefonica con un produttore, alzasse gli occhi al cielo e che ilm suo sguardo scoprisse dei pavoni nei riquadri decorativi del soffitto, perché si decoidesse a sgomberare. Perché le penne, il grido e l’effige del volatile consacrato a Giunone gli isiprano la più grande sfiducia. Inutile dire che tutti gli affari che trattò durante il suo soggiorno nella casa dei pavoni ebbero un esito disgraziato.
Nel 1937 Eric von Stroheim, diventato divo del cinema francese, fu in causa con due produttori. Se è evidente che una certa sfortuna lo perseguitava e che attraversava spesso lunghi periodi neri; se è penoso che quest’uomo, la cui fede gli impedisce di naufragare nella disperazione , sia stato colpito nella persona del figlio, che è restato, per diversi anni, paralitico, e della moglie, che è stata atrocemente sfigurata nell’incendio di una sala di parrucchiere, è permesso di pensare che questo leone potente ed indomabile ha talvolta dei colpi di zampa maldestri o si regola come un gatto spaventato dalla tempesta imminente. A dispetto della sua affabilità e della sua intelligenza, le reazioni di Stroheim sono molto spesso inattese ed inquietanti e quantunque viennese, colto e di spirito lucido e maturo, dopom venti anni di soggiorno negli Stati Uniti, questo americano naturalizzato, che non sa più parlare tedesco senza una punta d’accento “Yankee”, ha le meraviglie puerili di un americano. Così, vi spiegherà che non capisce come in Francia si lasci il pane a portata di mani anche non pulite, invece di involtarlo nel cellofan come negli Stati Uniti, nonostante che la Francia sia la patria di Pasteur!
Peccatore pentito
“E’ passato molto tempo”, raccontava Eric von Stroheim, “dall’epoca in cui ebbi la possibilità di scrivere, di dirigere e d’interpretare le mie produzioni. Quando fui obbligato a girare film di altri, ho incontrato qualche regista che mi ha trattato gentilmente, ma troppi colleghi gelosi mi hanno fatto duramente capire che era giunto il mio turno d’ubbidire. Ho serbato un triste ricordo di quelle umiliazioni, e, sul piroscafo che mi conduceva in Francia, mi domandavo quale accoglienza avrebbero fatto, a me che parlavo appena il francese. Vestito della mia uniforme dedesca, mi trovai abbastanza a mio agio… giacché sono 23 anni che mi fu affidato per la prima volta la parte di ufficiale tedesco. Entrando nello studio mi dicevo : “Ecco a che punto mi trovo; ricominciare dal principio””.
Eric tremava di paura, entrando nello studio dove si girava “Marta Richard”. Tempo prima, Stroheim era stato colpito da una zampata di un cavallo alla nuca e, prima della partenza, soffrendo di quella vecchia ferita, dovette subire un intervento chirurgico. “Sulla banchina avevo 38° di febbre”, raccontava Stroheim, “e una fasciatura mi copriva la testa. Non potevo toglierla. Siccome la prima scena si svolge al principio della guerra, era verosimile che l’ufficale degli ulani, che dovevo rappresentare, fosse stato colpito da uno scoppio di granata. La proposta fu subito accettata dal regista Raymond Bernard. Tuttavia non mi sentii a mio agio a Joinville, che quando, tra due riprese, un elettricista mi venne incontro e mi parlò in inglese.
“Mi trovai talmente bene in quello studio, e restai così commosso per l’amicizia che mi dimostrava tutta la compagnia degli attori, cominciando dalla stella Edvige Feuillère, che dimenticai l’attitudine grave e contegnosa che esigeva la mia parte di spia, e, alla fine di un lungo giorno di lavoro, essendo stato obbligato a rappresentare la parte di chi combatte il proprio paese, caddi a unm tratto in una crisi di pentimento, e mi ricordai di non essere altro che un tremendo peccatore”.
Stroheim raccontava come pretese che lo trasportassero a Santa Rita, affinché potesse inginocchiarsi davanti al suo confessore abituale. Durarono molta fatica a convincerlo che era a Parigi e non a Vienna e che dovevano essere passati trent’anni da che aveva cambiato confessore. Le lacrime sollevarono la sua disperazione momentanea e tutto sarebbe terminato dignitosamente e discretamente se l’infermiera, che egli era stato costretto ad assumere per vegliare sulla sua salute, non avesse creduto, da buona puritana, di dover assumere una sfumatura d’ironia per le parole consolatrici con cui gli amici colmavano Stroheim.
L’attore prese fuoco di colpo e, in un momento d’isterismo, ingiuriò “i miserabili mangiatori di ranocchi”, che sembravano dimenticarsi l’onore di aver presso di sé un genio. Questo genio voleva confessarsi a Santa Rita ed essi non erano capaci di dargli ciò che voleva. La serata finì alla Basilica del Sacro Cuore di Montmartre.
Alfredo Saccoccio