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Storia del diritto nel Regno di Napoli di GAETANO ARCIERI (VI)

Posted by on Ott 2, 2022

Storia del diritto nel Regno di Napoli di GAETANO ARCIERI (VI)

Apro una parentesi. La cultura e la tradizione hanno anche a che fare con la tecnica, in vari sensi: da un lato, perché la maggior parte delle scoperte si basano su miglioramenti di tecniche già acquisite e tramandate ai posteri (si pensi al caso della bici­cletta)[1]; dall’altro, perché la tecnica di un determinato periodo influisce sulla cultura: è il caso dei viaggi per mare, che fino al Novecento sono stati più veloci di quelli su strada o strada ferrata.

Un esempio concreto: Napoli dista, in linea d’aria, 660 km da Milano. Mettendo i piedi sulla terra, i quasi 770 km autostradali, divengono, su strade comuni (quali quelle esistenti fino al XIX secolo), quasi 900 (a seconda del percorso scelto per valicare gli Appennini), corrispondente, con i mezzi di spostamento di allora (ed escludendo i pericoli del banditismo) a un paio di settimane di viaggio.

La distanza in linea d’aria tra Napoli e Barcellona è di 1.010: uno spazio maggiore, che però, percorso via mare, corrisponde, con i mezzi del Cinque-Seicento, a quattro giorni di navigazione, ipotizzando una media (calcolata in difetto) di 5 nodi[2]; senza tener conto della comodità del viaggio, privo di continue soste per il cambio dei cavalli, di fermate serali in locande (con necessità di smontare parte del bagaglio per passare la notte), della costrizione in un abitacolo, etc. Più o meno la differenza che passava, negli anni Cinquanta del secolo scorso, tra un comodo e ininterrotto viaggio notturno in vagone letto attraverso la penisola italiana e un continuo cambio di corriere, città dopo città.

Del resto, passando dai calcoli teorici al dato storico, basta ricordare il famoso (e faticoso) viaggio di Ferdinando II da Napoli a Bari, compiuto nel 1859 per andare ad accogliere la sposa dell’erede al Trono, Maria Sofia di Baviera, che sarebbe giunta da Trieste (ovviamente via mare e comodamente: 51 ore di traversata[3]). Anche il ritorno, come l’andata, sarebbe dovuto essere compiuto via terra, per visitare varie città e cittadine del Regno e salutare il popolo “fedelissimo”; ma i medici imposero al Re, dato l’aggra­varsi delle sue condizioni di salute, il viaggio via mare, che si concluse «dopo 50 ore di felice navigazione»[4]: una vera passeggiata rispetto alla settimana del lungo, estenuante ed esiziale (essendo causa della malattia che portò alla morte del Re – e del Regno) viaggio di andata.

Tutto questo per dire che, considerando il mare non un confine, ma una sorta di “autostrada” del tempo, gli scambi commerciali e culturali tra Napoli e l’Aragona erano estremamente più semplici e realizzabili di quelli tra il Regno di Napoli e il Ducato di Milano ed era quindi più che naturale lo sviluppo parallelo delle due culture, naturalmente affini[5]. Se Masaniello, nella sua follia, aveva sognato di costruire un ponte[6] (ovviamente di barche!) tra Napoli e la Spagna per agevolare la vicinanza umana, è chiaro che la navigazione permetteva comunque un rapporto più stretto tra la penisola iberica e quella italica meridionale di quanto non fosse possibile tra il Regno di Napoli e il Ducato di Milano.

Chiusa questa parentesi, torniamo a domandarci quale sia la caratteristica principale di uno Stato: la cultura, indubbiamente, più che i confini (il Regno di Napoli rimane il Regno di Napoli anche se perde lo Stato dei Presidi, strappatogli da Napoleone[7], e quello di Sicilia rimane tale anche se perde Malta, rubatagli dagli Inglesi) ed anche più che una Dinastia. Nessuno, infatti, può negare l’identità napolitana, pur passata attraverso Normanni, Svevi, Angioini, Durazzo, Aragonesi, Asburgo e Borbone (per tacer dei Longobardi).

Ma se la cultura prevale sulla geografia, se lo stile (per dirla con García Morente) prevale sui confini materiali, un elemento fondamentale della cultura che permane nel tempo è (oltre alla Religione) quello del diritto (naturalmente, riferendoci al diritto tradizionale), che può caratterizzare un determinato popolo più profondamente delle espressioni artistiche o delle conquiste tecniche e scientifiche.

Il diritto, che lo si voglia o no, impronta la vita di tutti, giorno dopo giorno. Non è possibile eluderlo, a meno di riuscire a vivere come eremiti o come – etimologicamente – fuorilegge. Se però non si sceglie la vita di Celestino da Morrone o dell’Innominato di manzoniana memoria, è impossibile prescindere dalla legge: ecco perché il diritto fa parte della tradizione che caratterizza un popolo rispetto a un altro. E il confine più palpabile tra Regno di Napoli e Regno di Sicilia o Stato Pontificio non era dato da un tratto di mare o da una serie di fiumi, bensì tra un diritto diverso (cioè dagli usi differenti) da quello degli altri popoli, che potevano anche essere governati dallo stesso Monarca – come di fatto avvenne, nel caso dei due distinti Reami citra e ultra pharum, per sei secoli, interrotti dai due di regno angioino.

Le sette dinastie che si sono succedute (Normanni, Svevi, Angioini, Durazzo, Aragonesi, Asburgo e Borbone) hanno sempre rispettato (fino alla Rivoluzione francese) il diritto napolitano, che è sempre rimasto tale fino all’avvento delle codificazioni mo­der­ne. Naturalmente, essendo un diritto tradizionale era in evoluzione, poiché la tradizione di per sé, prendendo il meglio di ciò che appartiene al passato, lo adatta alle esigenze del periodo successivo, e quindi subisce le necessarie modificazioni[1]. Il diritto, quindi, assai più delle dinastie, rappresenta un continuum presente nella storia, nell’essenza di un Regno[2].

Finora ho parlato di diritto tradizionale, ma data l’impor­tan­za fondamentale del diritto (quale che esso sia) nella cultura e nella vita di un popolo, si può anche affermare che qualsiasi diritto ne caratterizzi la mentalità: come negare l’in­fluen­za che hanno esercitato in passato (ed esercitano tuttora) la dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 e quella del 1948; le costituzioni spagnola di Cadice, siciliana del 1812, italiana del 1946; le legislazioni totalitarie nazionalsocialiste, comuniste (dall’U­nio­ne Sovietica alla Spagna) o liberal-democratiche, improntando enormemente non solo il modo di vivere, ma la mentalità stessa dei sudditi (pur se assurti al rango di cittadini)? Quali conseguenze porterà sulle generazioni future la propaganda (sostenuta e spinta dalla legislazione) delle teorie del cosiddetto “gender-diktat”, se non l’ap­piat­timento, apparentemente buono ma in realtà solo buonista, imposto dal politicamente corretto?

«Bisogna vivere come si pensa, se no, prima o poi, si finisce con il pensare come si è vissuto»[3] sostiene Paul Bourget, uno dei massimi scrittori cattolici del Novecento, in chiusura del suo capolavoro, Il demone meridiano (1914).

Ora, se il cittadino/suddito vive diversamente da come pensa, perché costretto a nascondere la propria fede in nome del divieto francese di ostentare i simboli religiosi[4]; ad accettare l’abbat­ti­mento delle croci carliste (spacciate in mala fede come residuo del regime franchista) in nome della legge spagnola della memoria storica[5] (e un popolo che distrugge il suo passato non merita di avere un futuro); ad evitare di difendere esplicitamente la famiglia naturale per non incorrere nelle sanzioni previste dalla legge italiana contro la “discriminazione di genere”[6], e gli esempi potrebbero continuare a lungo, senza dimenticare l’acquiescenza delle varie Conferenze episcopali di fronte al divieto di celebrare Messe durate la Santa Pasqua 2020 ed all’irruzioni delle forze dell’ordine (o meglio del nuovo ordine mondiale) per interrompere celebrazioni con pochi e ben distanziati fedeli, diventa naturale, per la maggior parte delle persone, “autocensurarsi”, evitare determinati argomenti, “vivere e lasciar vivere” (cullati dal ritornello: «tanto a te che fastidio dànno?») e rendere normale ed accettabile uno stato di cose, una mentalità, attraverso il “trasbordo ideologico inavvertito” che fa percepire come “ordinarie” cose che solo qualche decennio fa rappresentavano la (cattiva) eccezione: le volgarità e le sconcezze negli spettacoli cinematografici, teatrali e televisivi; i treni e i muri delle nostre città costantemente imbrattati di scritte e graffiti; i marciapiedi e i passaggi pedonali monopolizzati da venditori ambulanti abusivi, etc.

Pensateci: ci facciamo più caso? L’abitudine all’inciviltà, al­l’immondizia materiale avrà presto un riscontro nell’abitudi­ne all’immoralità, all’im­mon­dizia spirituale.

Che lo si voglia o no, una cattiva legislazione non è soltanto un danno immediato: è un tumore che pregiudica l’intera vita sociale del nostro futuro[7].

Ecco perché è fondamentale conoscere il diritto del passato per renderci conto della naturalezza della legge tradizionale, che scaturiva dall’uso, si consolidava attraverso la consuetudine e diventava legge in quanto riconoscimento di un diritto esistente, senza dunque pregiudicare la vita sociale, a differenza – anzi, all’opposto – di quanto accade con l’attuale legislazione, ingiunta dall’alto da una ristretta lobby e che, in tempi non lunghissimi, modifica radicalmente la mentalità stessa di un popolo, che finisce per pensare come è costretto ad agire.


[1] «Quanto abbiamo ricevuto dagli antenati non è letteralmente lo stesso che trasmettiamo ai discendenti: poiché, nel coacervo culturale che ri­tra­smettiamo, abbiamo inserito il nostro apporto, i frutti del nostro agire personale. E questo apporto che ogni generazione aggiunge a quanto dalle generazioni precedenti ha ricevuto, è il progresso». Francisco Elías de Tejada, Rafael Gambra Ciudad, Francisco Puy Munoz, Il Carlismo, Solfanelli, Chieti 2018, § 74, p. 104.

[2] Naturalmente ciò è valido soprattutto per il diritto tradizionale, che non è influenzato da una determinata dinastia. Quando essa (non un governo dittatoriale) impone invece il diritto “nuovo”, riesce a influenzare pesantemente la mentalità del popolo, come vedremo fra breve.

[3] Paul Bourget, Il demone meridiano, Solfanelli, Chieti 2013, p. 433.

[4] Legge n. 228 del 15 marzo 2004.

[5] Legge n. 52 del 26 dicembre 2007.

[6] Legge del 13 luglio 2015, n. 107 “La buona scuola” e l’ampliamento della c.d. legge Mancino (n. 205 del 25 giugno 1993) al c.d. reato di omofobia, più varie e cangianti proposte di leggi, continuamente aggiornate alle esigenze del mutevole mondo degli invertiti…

[7] Si pensi alle leggi che, in tutto il mondo, hanno introdotto il divorzio, minando alle fondamenta la famiglia, cellula base della società, e legalizzato l’aborto, spacciando un crimine come “diritto” e banalizzandolo come mero intervento ambulatoriale, quasi si trattasse di chirurgia estetica.


[1] Nel campo tecnico non avremmo avuto l’attuale comodissima bicicletta in fibra di carbonio se non ci fossero stati prima il celerifero (1791, silhouette lignea di un cavallo con due ruote al posto delle zampe anteriori e posteriori, privo di sterzo, pedali e freno), la draisina (1816, con sterzo), il velocipede o biciclo (1864, completamente in metallo, caratterizzato dall’enorme ruota anteriore), la safety bicycle (1884, antesignana delle moderne biciclette, con ruote di dimensioni uguali e trasmissione a catena, alle cui ruote metalliche fu successivamente adattato il pneumatico, inventato nel 1888 da John Boyd Dunlop) e quindi le tardonovecentesche (e assai più confortevoli) bici da corsa, da cross, da turismo, city bike, mountain bike, etc.

[2] 1 nodo = 1,852 km/h.

[3] Mauro Musci, Cronaca storica ufficiale del viaggio nelle Puglie di S. M. il re Ferdinando II e del matrimonio di S.A.R. il Duca di Calabria Principe ereditario del Regno con S.A.R. la Duchessa di Baviera Maria Sofia Amalia, Andrea Cancelliere, Napoli 1859, p. 101.

[4] Ivi, p. 94.

[5] Il deputato liberale Moreno Guerra, in un suo discorso alle Cortes del 2 aprile 1821, affermò: «Napoli è una parte della Spagna come la Catalogna. […] ancora uno è il sangue di Napoletani e Spagnoli». L’originale suona: «Nápoles es una parte de España, como Cataluña, y debemos auxiliarla», «Nápoles es como una cosa propia; todavía está la sangre mezclada entre los de Nápoles y los de Madrid», Diario de las actas y discusiones de las Cortes. Legislatura de los anos de 1820 y 1821, tomo XIV, n. 13 («Sessione straordinaria della notte del 2 aprile 1821»), p. 18 e 47-48.

[6] Cfr. Giuseppe Donzelli, Partenope liberata, Ottavio Beltrano, Napoli 1647, p. 62.

[7] Con la pace di Firenze (28 marzo 1801) il suo territorio fu sottoposto alla Francia e il Congresso di Vienna, in nome di una Restaurazione che restaurò ben poco, lo assegnò al Granducato di Toscana.

Gianandrea de Antonellis

2022 – D’Amico Editore di Vincenzo D’Amico
Via Pizzone, 50 – 84015 Nocera Superiore
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Finito di stampare
nel mese di aprile 2022
presso Infolio srls
via Alfonso Albanese 26
84010 Sant’Egidio del Monte Albino (Salerno)

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