Alta Terra di Lavoro

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BORBONI e BONAPARTI di GIACINTO DE’ SIVO

Posted by on Dic 2, 2020

BORBONI e BONAPARTI di GIACINTO DE’ SIVO

Sovrani i più odiati dalla setta sono i Borboni, che il nome loro è congiunto a quanto fe’ di più eccelso l’eu­ropea famiglia, dalla prima crociata sino all’ultima impresa d’Algieri. Eglino furono spada del mondo cristiano, la legge, la ragione; sono egida della proprietà, diga alle ambizioni, propugnatori naturali della Fede; quindi a nemici tienli chi agogna vietate altezze, e rovesciamenti di culti e troni. I Borboni significano il dritto eterno, le sette inventano il dritto nuovo. Però in sul primo scocco del debaccare dicol­larono il buon Luigi XVI, appunto perchè buono.

Ma lo sfuriar violentissimo, poi che più anni non sazio, per lo abborrimento universale cadde, ebbe a cedere il seggio al Bonaparte, che fu prima metamorfosi della rivoluzione. Questi per ragion di stato rialzò gli altari voluti dalla uma­na coscienza; ma sendo egli stesso espressione,di filosofi ed Ugonotti, presto ebbe a seguitare il concetto settario interrotto; onde prese Roma, esautorò il Papa, ne abolì il dominio temporale, die’la scalata al Quirinale, e più anni tenne prigione Pio VII e i cardinali sparpagliati in castelli francesi. Ei si rideva della scomunica; perchè diceva essa non toglier l’arme di mano a’ suoi soldati. Eppure alla sua forza sterminata reagirono le forze sociali e la stan­chezza dello ingiusto; il Papa a Fontainebleu fu più che in Vaticano tremendo alla colpa, la religione guadagnò voti e simpatie; e coi ghiacci del 1812 cadder l’arme di mano a’vsoldati Napoleonici, nelle bianche lande di Russia.

Quella fu fermata della rivoluzione; il colosso restò solo; e come la nazione francese udì gli alleati a Parigi, gridò da tutte parti viva i Russi, viva i Borboni, abbattè le aquile, e rialzò i gigli. Egli abdicò, ottenne la sovranità della pic­cola Elba; ma presto a 26 febbraio 1815 volò a ripigliar l’imperio; e die’ alla storia delle ambizioni quei cento giorni che dicono gloriosissimi, ma che riallagarono di umano sangue l’Europa, e lui menarono a S. Elena. Spariti i Bo­naparti, seguirono trentatrè anni di pace.

REGNO DI GIUSEPPE

Ma prima di narrare le ripigliate rivoluzioni, debbo dire qualcosa de’ dieci anni di francese dominazione nel Napo­litano. Rientrarono i Francesi aprimi di febbraio 1806 nel regno, e al 14 in Napoli; dove l’ingresso trionfale lor prepa­rato da’ perdonati liberali plaudenti allo straniero, andò guasto dalla pioggia. Così dopo 54 anni vedemmo la pioggia guastar l’ingresso d’altro straniero plaudito dalla setta stessa. Ap­pena giunti fecero carcerazioni innumerevoli. Il dì seguente entrò Giuseppe fratello di Napoleone; e proclamò i Borboni aver cessato di regnare. Di poi fatto esso re, a 30 marzo entrò da re nella città; e il popolo restò muto. Prima opera reale fu pigliar d’assalto Maratea, e darle il sacco, e brut­tarla di sangue e supplizii. Al general Rodio che solo aveva osato fare qualche resistenza a’ conquistatori fecero in un dì due sentenze; con la prima dichiarato prigioniero di guerra e assoluto, con la seconda qual brigante condannato: la dimane lo fucilarono alle spalle. Ai traditori si dettero premii, gradi, e onoranze. Fu inventato il ministero di polizia; ministro il Giacobino Saliceti, fatto di liberale sgherro; quindi spie, carceri, morti, esilii senza giudizio, persecu­zioni di borboniani incessanti ed efferate.

I popoli alzaron bandiera di gigli. Soccorseli l’ingle­se generale Steward con seimila Anglo-Napolitani; il quale disceso in .Calabria, ruppe su’ campi di Maida il fran­cese Regnier. E benché senza yalersi della vittoria poco stante si ritraesse, pur die’ animo a’ Calabresi, che in quella giornata avean valorosamente combattuto. Allora gli stra­nieri conquistatori posero nome di briganti a’ difensori del proprio paese e del patrio re. Cominciò guerra atrocissima. Punizioni terribili, giudizii sul tamburo, prigionie ingiuste, uccisioni nefande; non bastando mannaie, archibugi e ca­pestri, usavan lapidazioni e pali. Il Colletta (carbonaro) nota aver visto uno a Monteleone appeso al muro e lapidato, e un altro, per ordine di colonnello venuto di Turchia, con­ficcato al palo. Mancando le prigioni al numero de’ carce­rati, fingevan tramutarli, e per ira trucidavanli, o mandavanli a Campiano, a Fenestrelle e ad altre parti di Francia.

Qualunque propugnatore del suo paese era reo, e tal­volta pur punito chi di tal delitto era innocente. Crearono la guerra civile; fecero bande paesane e mandaronle a forza contro i paesani Briganti. Dopo le Calabrie, la Basilicata, i Pincipati e Molise formicolavano di Borboniani; fra Dia­volo movea Terra di Lavoro, un Piccioli gli Abruzzi. Le isole in mano agl’Inglesi.

Gaeta con memorando assedio durò sino a 18 luglio, difesa da’ Napolitani, duce il principe Philipstadt. Quindi il vincitore Massena volse onnipossente con l’esercito in Ca­labria; ma accolto con archibugiate, die’ il sacco a Laurìa, e l’arse, con entro vecchi, fanciulli e infermi. Ad Amantea il colonnello borbonico Mirabella con tre soli cannoni vec­chi ributtò due assalti diurno e notturno del generale Verdier; il quale ritrattosene, vi tornò a dicembre con più forze, pur anco respinto. Dopo quaranta giorni la fame, resa la difesa impossibile, fe’ capitolare i difensori, con patto di ritrarsi in Sicilia. Cotrone difendendosi forte, finito il pane, non aperse le porte; ma il presidio sfondata a forza la linea francese si fece il vaco a mare, a’ vascelli inglesi. Più era il rigore, più i briganti. Proclamarono amnistie; ma dove quei disgraziati si presentavano, ne fecevan macello; e il Colletta afferma aver visti molti cadaveri di presentati, nella valle di Morano.

In questo furor di sforzata guerra civile i dominatori tutte cose e ordini mutavano. Leggi amministrative e municipali trapiantate di Francia, liberali per forma, dispotiche in fatto; guardie civiche e provinciali; abolirono, e dissi il come, la feudalità e i fedecommessi, rifecero il catasto. Subito i bal­zelli che prima eran molti ma lievi, fecer pochi ma gravi: spogliarono i possessori degli antichi arrendamenti, e misero la tassa diretta fondiaria, calcolata sul quinto della rendita de’ fondi; poi tasse indirette sulle merci e sul consumo; e quella sul sale gravosissima vollero obbligatoria, cioè te­statico di cinque rotola a persona all’anno. Inventarono il Gran Libro del debito pubblico. Le Finanze, le percezioni, gli appalti, le forniture, date tutte a Francesi pubblicani. Disciolsero ordini religiosi; abolirono conventi ricchi, la­sciarono i poveri, venderon le robe, venderon demanii e fecer moneta, interessando molti alla causa loro. Per questa ragione stessa moltiplicarono impieghi e soldi, che pesando sulla nazione complicaron la macchina governativa. Stabi­lirono pubbliche case di giuoco, con tassa che die’ al fisco 240 mila ducati all’anno, e con uffiziali a guidarle; dove si rovinaron giovanetti e dame, e si corruppe il costume. Anche case di prostituzioni miser su, con tasse fisse, come di merci. In dicembre uscì il decreto Napoleonico del blocco continentale, che per osteggiare l’Inghilterra abolì il com­mercio; legge non più vista che parve delirio, ed era tiran­nide furibonda. Coteste ed altre moltissime mutazioni, lo­date da’ novatori, riuscivan poco gradite a’ popoli avvezzi al mite. Un bene furono i nuovi codici delle leggi.

Nel 1807 l’odio, cresciuto molto, scoppiò in congiure; suscitavanle le vendette de’ conquistatori; talvolta eglino stessi le inventavano o ingrandivano, per paura, per rabbia, per vanto. Declamatori virulenti contro le severità de’ nostri re, iniquissimi furon essi: caddero in dieci anni quarantamila per supplizii d’ogni sorta; decapitarono il duca Filomarino, impiccarono il marchese colonnello Palmieri; carcerarono principi, e gran numero dame, frati, e preti. Si vider monache giudicate da tribunali. Prima i beni de’ fuorusciti seque­strarono, poi confiscarono. Quindi rabbiose vendette. A 30 gen­naio 1808 saltò per mina in aria il palazzo Serracapriola a Chiaia, per uccidere l’odiato ministro Saliceti; ei fra le macerie andò salvo; onde nuovi patiboli e nuovi strazii. Dipoi Na­poleone che combattendo gli Spagnuoli, per illuderli si facea liberale, die’ uno statuto detto di Baiona, conceditore di certe libertà costituzionali; il quale fu anche a Napoli promesso, non posto in atto mai. In Ispagna combattevan pe’ Francesi alquante schiere napolitane, laudate molto. Servi noi, davamo il sangue per l’altrui servitù.

REGNO DI GIOACCHINO

A 2 luglio 1808Giuseppe fe’ l’editto d’esser passato a re di Spagna; e al 15Napoleone mandò successore il co­gnato Gioacchino Murat. Questi entrò in Napoli il 6set­tembre, nè fu spietato come Giuseppe; ma assicurato, per le vittorie francesi, potè mostrarsi generoso. Nondimeno la controrivoluzione brigantesca ingagliardiva in Calabria, e anche in Abruzzo. Per combatterla davano un braccio i Francesi occupatori dello stato papale, e mandavan bande paesane raccolte nelle Romagne; perlocchè Pio VII con dichiarazione del 24 agosto di quell’anno il proibì; la quale fu pretesto al generale Miollis, comandante in Roma, a infierire contro il Papa.

Gioacchino presto fe’ un esercito alla francese, ma per avervi partigiani curò poco la disciplina. Compì lo sciogli­mento de’ conventi, fe’ una schiera di cacciatrici dame; i beni de’ monaci finì di vendere, o regalò in premio di ci­vetterie a cotali dame; mandò reggimenti di soldati in Roma, che giunservi in fretta quella nera notte del 6 lu­glio 1809per coadiuvare alla grande impresa del pigliar d’assalto il Quirinale, e carcerare Pio settimo e i cardinali. Poscia indragato contro i briganti, fe’ tre leggi atroci: confiscazioni a’ combattenti per Ferdinando; inviti a disertare, promesse di premii, minacce di morte se cadesser pri­gioni; e liste di banditi. Nessuno disertò; e infierì la polizia. Nella state i Briganti respinsero i Francesi a Campotanese, su’monti di Laurenzano, e a S. Gregorio. La reggia in Napoli scintillava di ori e gemme; le provincie eran di sangue lorde.

Sul finir del 1810andò in Calabria il general Manhes; de’ cui misfatti inorridisce l’umanità. Questi nato a 4no­vembre 1777ad Aurillac del Candal, ambiziosissimo, che volea fama, buona o rea aogni costo, stato Giacobino, aiutante di campo di Gioacchino, ora scelto dal Saliceti ebbe potestà dittatoria. Visto caduto indarno in più anni il fiore de’ Francesi in quella guerra parteggiata, inventò nuovissimo supplizio di nazione. Spinse tutta la Calabria contro i Calabresi. Mise soldati in città per isforzar cittadini a combatter briganti. Liste di banditi, ordini a popoli d’uc­ciderli, armar tutti e a forza, sospinger padri, figli e fra­telli, contro fratelli, figli, e padri, mogli contro mariti, amici contro amici; togliere le greggi a’ campi, la coltura alle terre, divieto di portar cibi fuor di città, inesorabile morte a qualunque si negasse; gendarmi e soldati, non a perseguitar briganti, ma a obbligar la pacifica gente a quelle atrocità; morti, busse, sangue, lagrime da per tutto; contadini, vecchi, femminelle, fanciulli fucilati per un briciol di pane in tasca; sciolti i legami sociali e naturali, non pa­rentela, non amistà, non sesso, non rimembranze d’affetto tener più; spie, denunzie, vendette, tradimenti, menzo­gne, accuse, tutto lecito a salvar sè, pera il mondo. Poi supplizii subitanei, torture, membra mozze; padri co’ figli trucidati; padri sforzati a veder prima di morire la morte de’ figli; mogli premiate a contanti d’aver uccisi i mariti; giustiziate nudrici di bamboli di briganti, città disertate tutte, popolazioni intere condannate a morir ne’ boschi, a esser rigettate fuori, pena la morte, da ogni abituro; preti in massa chiusi in fortezza; il Manhes pronunziare inter­detti, abolire in pena i sacramenti, e sinanco il battesimo. Tante ruine di popolazioni per sorreggere il trono a stra­nieri! E così predicarono estirpato il brigantaggio! Cotesto Manhes sì bravo contro le pacifiche popolazioni, fuggì dal Liri, quando ebbe a combattere i Tedeschi invasori.

Soldati Napolitani fur mandati alla guerra di Russia, e vi perirono a migliaia. Dopo il rovescio di fortuna, Gioac­chino abbandonò il cognato che l’avea fatto re. Acremente ne fu ripreso, e più acremente rispose. Allora i Carbonari per far pro di quell’ira gli proposero la corona d’Italia, col consueto pretesto del farla una; presentavangli la penisola a quel tempo vuota di Francesi e di Tedeschi, Bonaparte percosso non far timore, dargli addosso meritar premio dai sovrani alleati, potersi aver l’Inghilterra amica e soccorre­vole; e di leggieri persuasero quel leggiero cervello. Corser pratiche con gl’Inglesi; il Bentink aderiva, e prometteva venticinquemila soldati brittanni per aiutarlo all’impresa. Ma per nuove carezze Napoleoniche richiamato lui al campo a Dresda, il disegno cadde.

Ricominciarono i rigori contro i carbonari. Uno di que­sti detto Capobianco, nel 1813, invitato a mensa da un generale Jannelli, uscendo di tavola è da esso carcerato, e la dimane giudicato in poche ore e decollato a Cosenza. Gioacchino volteggia di nuovo; si collega con Austria a 11 gennaio 1814:trenta mila Napolitani congiunti a’ Tedeschi scaccerebbero i Francesi d’Italia; egli avrebbe incremento di paese sul Romano, epace con Ferdinando di Sicilia. A’ 26 firma armestizio con l’Inghilterra, cessa il blocco con­tinentale e s’apre il commercio. Incomincia la campagna; ma Gioacchino fra l’ingratitudine e il desio di regno fa guerra irresoluta; piglia Ancona; gl’Inglesi sospettan di lui, egli degl’Inglesi. In quelle sue dubbiezze Pio VII torna trionfatore sulle braccia de’ popoli da Fontainebleu a Roma; e i carbonari si sollevano in Abruzzo contro lui, corso a far l’Italia per loro instigazione. Vistosi inviso ad amici e nemici, tenta riconciliarsi col cognato, e ne prega Eugenio viceré; ma questi il rifiuta, e anzi accusalo agli alleati. La ruina di Napoleone rese inutile quella guerra.

Gioacchino tornato in Napoli, smaccato, re nuovo fra re antichi che s’andavan ripristinando, studiò farsi bene­volo a’ soggetti: moderò i tributi, per gratificare Albione allargò il commercio, abolì la dogana del cabotaggio, fe’ libera l’uscita de’ grani, tolse dazii, ordinò che soli Napo­litani, non più Francesi avessero uffizii. Questi che con lui avean tradito Francia restàr senza patria e senza soldo; però reclamazioni e accuse, cui rimediarono battezzandoli cittadini; quindi burla, e sdegno a’ nostrani. Volle crescer l’esercito, e designò fare un reggimento di Napolitani re­duci da Sicilia; ma nol trovò a fare.

Sendo Napoleone all’Elba confinato, tosto con messi e con lacci di parentela si rappiastrarono e riconfederarono. Gioacchino sciente de’ disegni nuovi di lui, quand’egli a 26 febbraio 1815 con mille soldati volò in Francia, scrisse a in­gannar gli alleati esser loro fedele; ma come.udì il cognato trionfare, tosto a’ 15marzo lor dichiarò la guerra. Il 22 uscì con 40 mila soldati per via di Roma e per le Marche, fe’ proclami per sollevare Italia tutta, ebbe sonetti e canti. Fugò il Papa; superò uno scontro sul Panaro, prese Ferrara, e volse in Toscana; poi indietro tradito da’ suoi duci è vinto a Tolentino da’ Tedeschi, e perseguitato rientra nel regno.

Pensò in quelli estremi guadagnar la nazione, dando costituzione con data finta del 30 marzo, pubblicata il 18maggio: due camere, stampa libera, magistrati inamovibili. Ma i Carbonari che poco innanzi bramavanla per combattere il poter regio, erano impossenti allora contro i vincitori; e la nazione che voleva quiete, stette prima a guardare, poi gridò Borboni. Ei fuggì a S. Leucio, indi a Napoli, e, per Pozzuoli ad Ischia, cheto s’imbarcò per Francia.

I tempi di questi Giuseppe e Gioacchino, tenuti da Napoleone re di nome, prefetti di fatto, stretti per non più visto assolutismo, lordi di supplizii, lagrimosi per esilii, confische e blocchi continentali, tristi per brigantaggio, per infelici guerre, per vite spente in conflitti lontani per gare altrui, vergognosi per due invasioni di stranieri, tristissimi per costumi corrotti, sfogate vendette e percossa religione, son pur laudati da certi che si vantan liberali e patrioti. I Carbonari che cospiraron contro quel governo straniero, e il lasciaron con vergogna cadere, finser di lodarlo e sospirarlo, quando avevano a cospirare contro il governo legittimo. Dappoi, per preparar cospirazioni nuove, avendo a infamare i Borboni, presero a esaltare i Napoleonidi. Ma il popolo che sente i suoi interessi giudicò giusto; e la storia, che narra fatti, lamenta i travagli di que’ dieci tri­bolati anni.

Gioacchino prima di partire avea mandato da Napoli i generali Carrascosa e Colletta a trattar col nemico; e co­storo a 20 maggio convennero co’ generali Bianchi e Neipperg cedere Capua e Napoli co’ castelli, garantirsi il debito pubblico, confermarsi i militari ne’ gradi e soldi. Questa convenzione, fatta a tre miglia da Capua in una Casina Lanza, dissesi di Casalanza. Il Principe Leopoldo Borbone entrò il 23 in Napoli, plauditissimo; in mentre Carolina Murat stata regina, rifugiata su vascello inglese, nel porto udiva le feste della sua cacciata, e per via le salve di can­none a re Ferdinando che entrava.

RESTAURAZIONI

Questi scendeva a Baia il 4 giugno, festeggiato da tutto il reame; accoglieva benigno ogni maniera di persone, e insieme generali e uffiziali Murattini e Siciliani, che si spre­giavano a vicenda. Mise agli 11 di quel mese la prima pietra del tempio a S. Francesco di Paola avanti la reggia, per voto nell’esilio. Il Papa e gli altri Principi spodestati ri­tornarono senza guerra a loro sedi; e l’Italia e l’Europa ri­composte riposarono. A Vienna, col trattato dei 9 giugno di quell’anno 1815, i sovrani fermaron le basi dell’avvenire. Ferdinando nostro vi aderì; al 12 fermò alleanza con Au­stria, e a 26 settembre si unì alla santa alleanza. Fu sta­tuito il regno uno, delle Due Sicilie; Ferdinando però di quarto s’appellasse primo. Per patto Austria difenderebbe il regno co’ suoi eserciti; e noi per le guerre austriache daremmo venticìnquemila uomini, poi ridotti a dodicimila per nuova convenzione del 4 febbraio 1819; patto per parte nostra non più eseguito. I Tedeschi lasciarono il regno nel 1817; e il re l’anno dopo fe’ ì’il concordato con Roma, che mise fine legale alle garose ecclesiastiche quistioni, co­minciate dal Tanucci mezzo secolo innanzi.

Ma quel trattato di Vienna del 1815 non restituì tutte cose all’antico; riconobbe valide e sublimò a dritto alquante opere della rivoluzione. A parlar d’Italia sola, restarono spenti due legittimi antichi stati benemeriti della Cristianità; Genova cadde immolata all’ambizione Sabauda, data per afforzare il Piemonte a guardar le alpi dal Francese; e Ve­nezia, già venduta a Campoformio nel 1797 dal general Bonaparte, restò all’Austria in cambio delle cedute Fiandre. Malta, pur dall’arme di Francia tolta a’ Cavalieri, rimase in man d’Inglesi. Italia pagò le spese delle guerre rivoluzio­narie. E mentre Piemonte ingrossava, il nostro reame sce­mava; che ne si tolsero i presidii di Toscana, possessi se­colari. Così il trattato del 15 non tutto riparatore, modificò l’Italia con riconoscimenti di schiacciati dritti, lasciò un lembo dell’opera rivoluzionaria, e fu pretesto e seme di futuri guai. Un altro seme ne restò in Francia con la co­stituzione. E fu curioso che ai Francesi vinti si die’ questa libertà che i vincitori non volevan per se. L’Inghilterra volle lasciar vivo nella sua rivale il fuoco per nuovi in-cendii: la stampa libera, e la rappresentanza.

Ma Gioacchino Murat, quanto prode di braccio fievole di mente, pensò lieve gli fosse il ripigliare il trono; e in Corsica reclutò gente per sorprendere il reame; se non che spiato da un Carabelli Corso già da esso beneficato , il governo napolitano era sull’avviso. Egli raccolti 250 uomini mosse da Aiaccio, ebbe tempesta, e con solo diciotto per­sone l’8 settembre 1816 sbarcò a Pizzo di Calabria. Era giorno di festa, molta gente in piazza; al Viva Murat, niuno risponde, ond’ei volge a Monteleone; ma inseguito con archibugiate da’ popolani, tenta rifuggire a mare. Chiama la sua barca; e il pilota, Maltese, fatto da esso capitano e barone, per rubargli i danari lo abbandona. È raggiunto, schiaffeggiato, e menato in castello. Ito colà il generale Vito Nunziante, è tenuto con onore, ma sentenziato da sette giu­dici, tra’ quali tre e il procurator della legge stati suoi uffiziali, carchi d’onoranze e gradi, ebbe applicata una sua stessa legge, e sofferse la fucilazione a 13 ottobre. Nato in Cahors, surto dalla polvere, trionfato in molti campi di battaglia, regnato sette anni, caduto in inglorioso cimento per man di plebe, tornò nella polvere; esempio solenne di fortuna.

N.B. La fine di Gioacchino Murat è rimasta nella memoria popolare grazie al proverbio:

“Gioacchino fece la legge e Gioacchino ci capitò”

Pagg. 65-75 della “Storia delle Due Sicilie

curato da Raimondo Rotondi

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