Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (XII)

Posted by on Feb 19, 2023

CALATAFIMI: LA BATTAGLIA CHE FECE L’ITALIA DI DOMENICO ANFORA (XII)

Salvate la bandiera! 

È giunta da Landi una staffetta con un ordine urgente del Luogotenente Castelcicala:[1]

La colonna mobile Landi deve ripiegare per Alcamo e schierarsi a difesa su Partinico, dichiarandovi lo stato d’assedio. Lì riceverà rinforzi e dovrà respingere ogni attacco dei ribelli.

Infatti, il comando borbonico di Palermo ha deciso di evitare attacchi su lunghe distanze, creando invece una forte difesa avanzata nella zona meridionale e orientale dei monti circostanti, con base principale d’operazioni a Palermo e secondaria a Monreale. Le brigate non costituiranno colonne mobili, ma forti posizioni difensive, e Partinico sarà una di esse.[2]

Immediatamente Landi invia a Sforza l’ordine di sganciarsi, consegnando il dispaccio a un cavalleggero che galoppa per la via consolare e si presenta al comandante di battaglione. Sforza rimane esterrefatto e non vuol cedere, chiedendo dei rinforzi e altre munizioni. Ma gli ordini sono quelli. Il problema è sganciarsi da un nemico che preme a distanza ravvicinata ed evitare di farsi chiudere la strada per Calatafini dalle bande degli insorti.

Alle spalle della prima linea, poco al di là della cima, c’è don Rafé, il cappellano del battaglione, che conforta i feriti e i moribondi trasportati lì dagli infermieri, per poi essere caricati sui carri e portati a Calatafimi.

Sulla corona di colline che circonda la valle, gli insorti e i rifugiati gridano contro i borbonici ed esultano a ogni avanzata dei garibaldini. Le loro urla fanno raggelare il sangue ai soldati napolitani.

In mezzo alle camicie rosse si vede qualche tonaca marrone. Sono fraticelli francescani che, armati di archibugi, battagliano con tenacia. Tra questi ci sono il cappellano dei Mille, fra Pantaleo da Castelvetrano, e fra Francesco da Marsala, gran tiratore. Se ne vede uno basso, magro, zozzo[3] che carica un vecchio trombone, sale su affacciandosi dal ciglio, spara contro il nemico e si rimette al riparo per ricaricare, tra gli applausi dei garibaldini, degli insorti e degli spettatori. Un altro, ferito da una pallottola alla coscia, se la cava via da sé e torna in linea sanguinante.[4]

Figura 56 – In cima al colle Pianto Romano c’è l’ultimo cruento scontro.

I garibaldini sono sotto il ciglio del settimo gradone, l’ultimo, sfiniti per il caldo e la fatica, arsi dalla sete che impasta loro la bocca. Il generale, al riparo dai tiri della mitraglia, osserva il nemico e lo studia per trovare una soluzione tattica al fine di scacciarlo dalla cima del Pianto Romano. Poi guarda i ragazzi, come se fossero figli suoi, e dice:

«Riposate figliuoli, pigliate fiato, poi due altri colpi ancora ed abbiam finito. Occorre un’ultima carica e il nemico fuggirà via».

Quella voce pacata e sicura infonde coraggio nel cuore dei garibaldini che si sentono ritemprati e pronti all’ultimo sacrificio. Vengono raccolte tutte le compagnie, pronte a scattare. Dall’alto piovono pietre e rotolano massi, perché con i fucili i napolitani non riescono a prendere di mira i garibaldini, defilati sotto il ciglio.

Sono circa le tre pomeridiane e la tromba di Giuseppe Tironi suona e suona ancora, fino a fargli perdere il fiato, fino a fargli uscire il sangue dalle labbra screpolate.

Il sole è ancora alto nel cielo e picchia in modo agostano. Il maggiore Sforza, preso un fazzoletto di tasca, si toglie il chepì e si asciuga la fronte madida, accaldato e intento a trovare una soluzione per potersi sganciare dal nemico e riportare i suoi uomini dentro Calatafimi.

Il tenente Di Napoli ha schierato in linea il suo plotone, malconcio ma ancora atto a lottare. I suoi cacciatori sono schierati su due linee, con le carabine cariche, pronti a uccidere, sfruttando quale ripari muretti a secco, rari alberi e siepi di fichi d’India. Francesco sente tremare il terreno sotto i piedi, alza gli occhi e vede avanzare una mandria urlante di mille diavoli infuriati, lanciati in avanti alla baionetta. Egli immagina già il ferro freddo della lama penetrare nel suo corpo e ne prova la paura e l’orrore, ma il presentimento è spezzato dalle urla del tenente Di Napoli che ordina di puntare e di fare fuoco.

Figura 57 – Le truppe borboniche si ritirano verso Calatafimi.

I garibaldini corrono a fatica per quell’erta, utilizzando le ultime energie. Giò procede al fianco di Paolo, dietro al capitano Mosto e al luogotenente Savi, capi coraggiosi dei genovesi. Giò guarda quella barriera d’uomini e d’armi, poste in cima al monte come le mura di una fortezza. Gli appare invalicabile e invulnerabile, e già sente il dolore di una pallottola che gli lacera le carni.Sirtori s’inerpica in groppa al suo cavalluccio, ma l’equino è trapassato da una pallottola e crolla al suolo trascinando con sé il proprio cavaliere. Crolla colpito il carabiniere Enrico Raffaele Casaccia; è colpito a morte Sebastiano Galigarsia di Favignana della 3a compagnia, tornato nella sua terra per lasciarvi le ossa; si accascia l’anziano veneto Luciano Marchesini della 2a compagnia, barbiere di Vicenza; muore Cesare Gattai di Livorno, anch’egli della 2a compagnia; è ferito leggermente il sergente Antonio Burlando, ma continua a salire, intrepido; sono feriti gli ufficiali Achille Majocchi, Moisé Maldacea e Giacomo Griziotti, ma anch’essi continuano ad avanzare. Urlano i feriti gravi. Germano De Martini della 6a compagnia è stato colpito alla testa e ha il volto coperto dal sangue; Annibale Ulisse Pedotti, giovane lombardo dai nomi di grandi condottieri dell’antichità, è stato ferito gravemente all’inguine e piange dal dolore. Cadono e cadono, morti o feriti, per lo più bergamaschi dell’8a compagnia, pavesi della 7a e genovesi. Il fumo avvolge gli uomini, gli impedisce la vista, acceca gli occhi e ammorba l’aria col puzzo acre dello zolfo. A fianco di Giò e di Paolo, sale il giovane carabiniere genovese Francesco Carbone[5], scavalcando un gradino roccioso. Una scarica di colpi lo respinge giù. È un massacro.

Il capitano Orsini, ex ufficiale borbonico, ha schierato i suoi quattro antiquati pezzi d’artiglieria sulla strada consolare, in contrada Calèmici. È stato accompagnato sul posto dal vitese Isidoro Spanò[6], un operaio murifabbro dall’occhio esercitato alle linee e alle distanze, nonché conoscitore di quelle campagne. Il giovane, inizialmente, non si è unito alla squadra dei vitesi, aggregati al reparto di Sant’Anna e di Coppola, ma poi, incuriosito, ha seguito i carri dell’artiglieria.

Orsini, prima di mettere in batteria i pezzi, ha dovuto perdere tempo con lavori di sterro per proteggersi da un’eventuale carica della cavalleria napolitana, già pronta sulla consolare, verso Calatafimi. Egli osserva la battaglia attraverso un binocolo ed attende il segnale del generale per iniziare il fuoco. È preoccupato dallo sviluppo dello scontro, perché vede cadere tanti compagni e ha notato la vantaggiosa posizione dove il nemico si è arroccato. Garibaldi gli fa un segno: è giunto il momento di usare i cannoni.

Spanò si è piazzato dietro la colubrina, accanto agli artiglieri garibaldini e al picciotto trapanese Antonio Ficalora. Orsini ispeziona la postazione e, in segno di approvazione, batte la mano sulla spalla di Spanò e gli ordina di fare fuoco, mirando alla cima del Pianto Romano, in mezzo allo schieramento nemico. L’operaio prende la mira, regola l’alzo e dà il segnale a Ficalora, il quale dà fuoco alla miccia. La palla piove in mezzo allo schieramento borbonico, seguita dai proietti degli altri cannoni. Tra i napolitani è lo scompiglio!

Il rintonare dell’artiglieria amica incoraggia gli assaltatori garibaldini, e via, di corsa, verso l’alto, verso il muro di baionette nemiche. Il tricolore di Valparaiso è passato dalle mani di Bixio a quelle di Menotti Garibaldi. Augusto Elia, marittimo anconitano, Simone Schiaffino, timoniere di Camogli, e Menotti Garibaldi, figlio del generale e di Anita, sembrano i tre moschettieri di Dumas, eroi supremi, coraggiosi, belli! Le cannonate di Orsini li hanno spinti ad avanzare troppo, oltre le proprie linee, infilandosi nello schieramento nemico.

Figura 58 – Menotti Garibaldi (2° da sx), figlio del generale e di Anita.

Francesco, durante le esercitazioni di Capua, aveva creduto che le battaglie si svolgessero con un certo ordine, con soldati che marciano inquadrati, con i comandanti in testa e con le bandiere spiegate. Invece la battaglia non è che una confusa zuffa, dove gli uomini si lanciano gli uni contro gli altri, distribuendo morte a casaccio e che in disordine resistono e poi cedono.

Il sergente Certosini ha notato l’avanzata di un temerario terzetto di nemici e chiama a raccolta la sua sezione. Bisogna eliminare quei tre e conquistare la bandiera! Il sergente è seguito da Francesco, Rucchitto, Carmine Cap’e Vacca, Luigi Lateano, Francesco Serratore, Angelo De Vito, Saverio Caruso, Vincenzo Convinto, Tommaso Del Pizzo e altri. Ci si avvicina ai tre, quasi sull’orlo del ciglio. Una palla colpisce la mano del portabandiera nemico che cede il vessillo al suo commilitone alto e barbuto.

Menotti è stato ferito alla mano e ha ceduto la bandiera all’amico Schiaffino. I tre scaricano i loro revolver sul drappello di cacciatori nemici che si avvicinano minacciosi, poi caricano alla baionetta. I napolitani circondano il terzetto e due cacciatori afferrano la bandiera e ne strappano un lembo, ma sono respinti da Elia e Menotti. Avanza verso essi un sergente, alto nella persona e rosso di capelli, dallo sguardo che pare gettar fiamme. È seguito da sette o otto cacciatori.

Il sergente Certosini e i cacciatori Lateano e Serratore appoggiano le baionette sul petto del portabandiera nemico e fanno fuoco a bruciapelo. Il nemico vola all’indietro e lascia cadere la bandiera, subito presa da De Vito. Un urlo di vittoria si alza dalla schiera di cacciatori, per la bandiera conquistata e per l’ufficiale nemico ucciso. È il comandante dei piemontesi?

Cap’e Vacca sente una forte botta sulla coscia, come una sassata. Vede colare del sangue che gli riempie la scarpa. La foga non gli fa sentire il dolore, ma la rabbia lo spinge in avanti a testa bassa, come un toro infuriato, menando baionettate a destra e a manca.

Il generoso e coraggioso Schiaffino è caduto. Elia ha portato al riparo, dietro una trincea naturale, il suo amico Menotti, ferito. Ora vede salire, solo, verso il nemico, il generale che avanza sciabola alla mano e urla di assaltare. Elia, preoccupato per la sua incolumità, si slancia verso il generale e gli dice di non esporsi, perché se fosse colpito sarebbe la fine di tutti. Garibaldi risponde roteando la sciabola e urlando «Avanti», esortando le compagnie ad attaccare. In quel momento Elia si gira verso il nemico e vede un cacciatore puntare la carabina verso il generale, fa un passo avanti e …

Rucchitto ha visto due ufficiali sulla sua linea di tiro, ambedue in camicia rossa e con la barba. Fa qualche passo, punta verso il più anziano dei due, ma l’altro si porta avanti e lo copre, ricevendo il colpo in faccia e stramazzando con la schiena per terra.

Elia si sente soffocare dal sangue che gli ha riempito la bocca e che gli scende per la gola. La pallottola gli ha perforato il mento, sfigurandolo. Se i due preti di Quarto ai quali ha chiuso le bocche con la merda di vacca sapessero che il loro carnefice è stato ferito da una palla in bocca, loderebbero pubblicamente Dio per l’appropriata vendetta.[7]

«Salviamo la bandiera», è l’urlo che spinge in alto i garibaldini!

Bixio grida come un demonio ed esorta i compagni a seguirlo dentro quella nebbia di fumo puzzolente che nasconde il nemico e il tricolore rubato. Bandi, Maldacea, i fratelli Cairoli, Froscianti e i carabinieri genovesi vanno dietro a Bixio. Ne nasce una zuffa violenta, dove vengono usate tutte le armi: fucili e revolver, baionette e pugnali, sciabole e pietre. Paolo Fasce ha notato, tra il fumo, un cacciatore nemico che sta ricaricando la carabina, s’inginocchia, mira al cuore e preme il grilletto…

Rucchitto, colpito al cuore, crolla di schianto e invocando flebilmente «Mamma»!Francesco si precipita dall’amico e cerca di porlo al riparo, ma si accorge che il suo sguardo è perduto nel vuoto, la sua bocca è aperta e immobile, il suo cuore non batte più. Ha un fremito di dolore e di rabbia. Riesce a scovare quel nemico che ha ucciso il suo migliore amico, lo vede avanzare, fa collimare la tacca di mira, il mirino e il petto del nemico e spara.

Giò cerca con lo sguardo il suo amico Paolo e riesce a scorgerlo attraverso il fumo che il vento porta via a tratti. Eccolo, alla sua sinistra, salire affaticato. Poi, colpito al petto, con la giubba squarciata, Paolo allarga le braccia come Cristo in croce, strabuzza gli occhi emettendo un sommesso gemito e cade all’indietro con un tonfo secco. Appare tutto come un sogno, come un incubo! Le orecchie rimbombano e si sentono lontane, attutite, le urla di dolore e di rabbia dei combattenti.

«Serrare i ranghi, serrare i ranghi», urla il capitano Palumbo, viste le file sfoltite dal fuoco nemico.

«Serrare i ranghi»,ripetono i comandanti di plotone e di sezione.

Arretrano i cacciatori, ormai prossimi ai cannoni e alle riserve giunte in rinforzo. Sono rimasti indietro, feriti da colpi di baionette, i cacciatori Caruso e Del Pizzo, e il cacciatore Convinto immobile col femore spezzato per un colpo di calcio di fucile. In mezzo a quel violento parapiglia si muove a suo agio il camorrista Gennaro Tagliafierro, maestro di coltello, combattendo ferocemente con la sua baionetta.

La guida piacentina Giò Maria Damiani si è procurata una cavalcatura e ora sprona verso il nemico che ha trafugato il tricolore. Impennando il cavallo sul drappello nemico, riesce a strappar via un nastro dalla bandiera di Valparaiso, ma il cacciatore nemico è risucchiato dalla linea dei suoi camerati e la bandiera scompare.


[1] C. Cataldo, Prima e dopo Garibaldi – Sicilia occidentale, 1789-1870, Arti Grafiche Campo, Alcamo, aprile 2007, pag. 292.

[2] G. Delli Franci, Cronica della campagna d’autunno del 1860 fatta sulle rive del Volturno e del Garigliano dall’Esercito Napoletano, Napoli 1870, pag. 48.

[3] Sporco.

[4] Riguardo ai francescani durante la battaglia di Calatafimi v. G. C. Abba Da Quarto al Volturno – Noterelle d’uno dei Mille, Garzanti, Milano 1991, pag. 37.

[5] Francesco Carbone, nato a Genova nel 1840, fu ferito al collo, all’orecchio sinistro, allo zigomo e all’avambraccio destro. Sopravvisse alle ferite e intraprese la carriera militare, raggiungendo il grado di colonnello. Morì a Genova nel 1914.

[6] Vedi A. Gioia, Trecento anni di storia civile ed ecclesiastica del Comune di Vita, Tipografia della Pia Società San Paolo, Catania, maggio 1950, pagg. 257-282.

[7] Fu lo stesso Augusto Elia a testimoniare sull’episodio:

Io non ero aggregato a compagnia né a battaglione. Fra Menotti Garibaldi, Schiaffino e me, si era stabilito un patto di non accettare pel momento alcun servizio, ma tutti e tre rimanere al fianco del Generale. Allorché i Cacciatori napoletani, che provarono ad assalire i nostri, si dovettero ritirare inseguiti dai Carabinieri genovesi, Menotti, Schiaffino colla bandiera, ed io ci slanciammo dietro ai fuggenti, ma tanta fu la foga entusiastica, che arrivati su l’erta posizione nemica, ci accorgemmo d’esser soli, ed era naturale che dovessimo pagare il fio della nostra arditezza. Diffatti il bravo Schiaffino cadeva trafitto da numerosi colpi, e lo stesso sarebbe avvenuto a Menotti che, nel raccogliere la bandiera, fu ferito in una mano, se io abbracciatolo, non  mi fossi lasciato cadere con lui da un rialzo, che formava una specie di trincera. Quivi rimasti un poco a prender fiato, io nel volgermi per rispondere al capitano Froscianti che mi chiedeva cartucce, vidi che il Generale Garibaldi, distante un buon tratto dalla colonna garibaldina, s’avanzava solo a piedi contro l’inimico. Immediatamente mi slanciai verso di lui, e raggiuntolo, mi sovviene avergli indirizzato queste parole: «Generale, perché esporvi così? Una palla che vi colga siam perduti noi e con noi l’Italia nostra». Egli rispose col grido di «Avanti» e roteando la sua spada ad incoraggiamento, invitava all’assalto le nostre colonne. Io avea appena pronunciate le suddette parole, che, volta la faccia al nemico, vidi che un cacciatore napoletano, avanzatosi verso di noi, spianava la sua carabina alla direzione del Generale. Ebbi appena tempo di fare un passo avanti, e un colpo terribile mi colse alla bocca, e mi stramazzò a terra col ventre in alto. Pareva che soffocassi, e nel mentre cercava di rivolgermi, il Generale Garibaldi s’inchinò verso di me e m’indirizzò queste parole: «Coraggio, mio Elia, di queste ferite non si muore». E stese la mano per istringere la mia.

Vedi G. Garibaldi, Memorie, BUR, Milano 1998, pagg. 35-36.

Domenico Anfora

tratto da

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.