Camorra e mafia alle origini dell’Italia unita di Eugenio Di Rienzo
Preceduto dai penetranti contributi di Marcella Marmo e Gigi Di Fiore, e dal meno felice saggio di Francesco Barbagallo1, il volume di Benigno è un libro importante, documentatissimo e coraggioso che fa luce sull’intreccio tra Stato e criminalità organizzata dalla vigilia dell’unificazione al morte del primo Re d’Italia e al primo attentato contro Umberto I.
Si tratta di uno studio, in cui non è possibile non riscontare l’adesione emotiva dell’autore alla materia trattata, perché lo stimolo primo per questa vasta ricognizione storiografica proviene a Benigno, studioso di statura nazionale ma anche orgogliosamente siciliano, dalla memoria del passato prossimo della sua terra. Un passato, snodatosi in una tragica e contorta dinamica, che va dalla strage di Portella delle Ginestre (1947), evento su cui grava il sospetto di aver sancito il primo patto tra Stato e Mafia dell’Italia repubblicana, al tentativo di Salvatore Greco di creare, nel 1970, le condizioni per favorire il colpo di Stato progettato da Junio Valerio Borghese, alla decisione di un altro boss di Cosa Nostra, Luciano Liggio (Leggio) di scatenare una strategia della tensione, culminata con l’assassinio del capo della Procura di Palermo, Pietro Scaglione, idonea a dimostrare la potenza della fratellanza delinquenziale e a condizionare il mondo politico siciliano, infine, alla trattativa Stato-Mafia sviluppatasi dopo la cosiddetta «locuzione delle bombe» del biennio 1992-1993.
Il libro di Benigno è stato accolto da un ottimo successo di critica e di pubblico (più di 4000 copie vendute nei primi mesi seguenti la sua pubblicazione, un vero primato per un libro di storia di circa quattrocento pagine, complesso e non di facile lettura), ma è stato fatto oggetto anche di alcune obiezioni rilevanti sulle quali vale la pena soffermarsi. A Benigno si è imputato, ad esempio, di aver operato una sorta di «diminuito dell’esperienza dello Stato nato col e dal Risorgimento» per aver forzosamente voluto riassumere «negli intrecci Stato-crimine la realtà e il senso della vicenda risorgimentale a Napoli o quella complessiva dello Stato italiano»2. Personalmente ritengo questa osservazione poco giustificata, perché l’esistenza di un nesso preciso tra processo di unificazione, presenza e attività delle mafie e della camorre non è una scoperta, in senso assoluto, di Benigno ma invece rappresenta una realtà storica già ampiamente testimoniata dalla documentazione contemporanea o immediatamente seguente la «liberazione» e/o «conquista» del Mezzogiorno.
Nel mio volume, dedicato al crollo del Regno delle Due Sicilie, ho richiamato l’attenzione sul dibattito, dedicato alla «questione napoletana», che si sviluppò della Camera dei comuni nel maggio 18633. In quelle sedute parlamentari, il deputato conservatore Henry Butler-Johnstone, analizzando la crescita esponenziale dei fatti criminosi registrata dopo il 1860, nel sud della Penisola, sosteneva che il nuovo Stato italiano era impegnato in una lotta a coltello per estirpare il secolare cancro della «society called the camorra, which exercises such terror over the public mind» da costringere il popolo napoletano a proteggerne gli accoliti con l’omertà piuttosto che rischiare di essere esposto alla sua vendetta. Questo male antico, aggiungeva Butler-Johnstone, era proliferato con maggiore virulenza grazie alla protezione di Ferdinando II, quando l’organizzazione malavitosa, ramificatasi nell’amministrazione, nella giustizia, nell’esercito, nella massoneria, aveva sottoscritto un pactum sceleris con la gendarmeria borbonica. La camorra trasformatasi in «polizia scismatica» collaborava» con le forze dell’ordine, in cambio di una larga tolleranza nei confronti della sua attività criminale, e spesso si sostituiva alla «polizia ortodossa» nella repressione dei reati comuni e nella sorveglianza, dei mercati, delle bische, delle case di tolleranza e di tutti i luoghi malfamati di Napoli, dove alle leggi dello Stato si era sostituita la «giustizia privata» degli «uomini d’onore».
Nel suo intervento Butler-Johnstone, dimenticava, però di ricordare, scostandosi da altre testimonianze, che l’intesa cordiale tra la «Bella Società Riformata» e il regime borbonico si era interrotta nel 1848, quando, dopo la partecipazione degli adepti della società criminale ai moti rivoluzionari, Ferdinando II decise di avviare una vigorosa offensiva poliziesca e giudiziaria contro i camorristi che si sarebbe prolungata fino alla stretta repressiva del 1858. Durante questo periodo, la «mala setta» si trasformò in «camorra liberale» e si pose al servizio del movimento costituzionale, proteggendone le riunioni clandestine, assicurando l’assistenza ai detenuti politici e facilitandone la fuga dalle prigioni. Il passaggio di campo di una forza potentemente insediata nel tessuto della capitale non mancò d’impensierire Francesco II. Il giovane monarca, infatti, fu a tal punto intimorito dal pericolo costituito da questa «opposizione criminale» da riferire, il 7 novembre 1859, all’ambasciatore austriaco, Anton von Martini, che molti degli sforzi del suo governo erano in quel momento concentrati a impedire che i suoi capi organizzassero, d’intesa con il partito unitario, una massa di manovra per attuare un’insurrezione a Napoli.
Non si trattava di timori infondati. Il 31 luglio 1860, l’ambasciatore britannico, Henry George Elliot, bene informato del radicamento territoriale della consorteria delinquenziale, informava il Foreign Office che numerose bande camorristiche (i Lazzaroni) erano pronte a scendere in campo per contrastare, armi alla mano, la mobilitazione dei popolani restati fedeli alla dinastia borbonica (i Sanfedisti). I camorristi si erano, infatti, impegnati con i capi del movimento unitario a presidiare il porto in modo da facilitare, in caso di bisogno, uno sbarco delle truppe piemontesi e a controllare le vie d’accesso a Napoli al fine di rendere possibile l’ingresso dell’esercito dei volontari. Proprio questo accadde, a metà agosto, quando i membri dell’«onorata società», inquadrati dal ministro degli Interni e direttore di Polizia, Liborio Romano nella «Guardia cittadina», in cambio dell’amnistia incondizionata, di uno stipendio governativo e un ruolo pubblicamente riconosciuto, divennero i veri padroni della città in attesa dell’arrivo di Garibaldi.
Come avrebbe ricordato, il russo Lev Illič Mečnikov, uno dei foreign fighters che parteciparono alla spedizione dei Mille, soltanto l’intervento della camorra (guidata Salvatore De Crescenzo e dalla «sanguinaria» sorella, Marianna, detta la Sangiovannara) riuscì a impedire in quel frangente una sommossa lealista, grazie a una seri di atti d’intimidazione violenta contro i sostenitori di Francesco II, e poi ad assicurare al «partito italiano» il controllo sistematico delle zone strategiche della città. Una testimonianza, questa di Mečnikov, che è avvalorata non solo dalla memorialistica e dalla propaganda borboniche (Giacinto De Sivo, Giuseppe Buttà, Francesco Durelli, Pietro Calà Ulloa)4, ma anche dalla lettera del 10 settembre 1860, scritta dal colonello garibaldino, Hugh Forbes, secondo il quale «le dimostrazioni di tripudio che accolsero il Generale, il 7 settembre, nella bella Partenope altro non furono che una frenetica mascherata imposta da lenoni e camorristi».
Nulla da stupirsi, allora, che «dopo aver reso questi servigi», come Elliot avrebbe annotato nelle sue memorie, la consorteria criminale acquistasse «una potenza e un’autorità spaventevole» destinata ad accrescersi nel periodo successivo5, quando la camorra fu incaricata di assicurare il successo del Plebiscito di annessione, vigilando le urne a voto palese (21 ottobre 1860). Questa «autorità» e questa «potenza» non sarebbero diminuite neppure dopo la nomina di Silvio Spaventa nella carica di Segretario generale del dicastero d’Interno e Polizia della Luogotenenza delle Provincie napoletane perché anche Spaventa utilizzò guardaspalle e mazzieri, reclutati in ambienti contigui all’«onorata società», per garantire sì l’ordine pubblico ma anche per utilizzarli come attori di una strategia volta a intimidire avversari politici e nemici del nuovo ordine6.
Importante su questo punto è ancora quanto attestato da Maxime Du Camp, un importante letterato francese, oscillante tra nostalgia per i principi repubblicani del 1848 e timida collaborazione con il regime bonapartista, arruolatosi nel 1860 come volontario nelle milizie garibaldine delle quali cantò l’epopea in un libro di ricordi dedicato alla spedizione dei Mille7. Per Du Camp, l’intesa tra nuovo regime e camorra si sviluppò soprattutto grazie all’iniziativa di Garibaldi che, durante il periodo della Dittatura (7 settembre-ottobre 1860), decise di inglobare i membri della setta nell’assetto istituzionale post-borbonico per utilizzarli nel controllo delle carceri e contestualmente per distoglierli dalla loro abituale attività delinquenziale.
Les camorristi font profession de n’avoir aucune opinion politique (c’est peut-être là qu’il faut chercher le secret de leur existence toujours tolérée), et, quelles que soient les révolutions qui agitent le peuple autour d’eux, ils n’en vivent pas moins à ses dépens. Ils connaissent le proverbe grec: “Que le vent souffle du nord ou du midi, il y a toujours des moutons à tondre”. Lorsque Garibaldi fut entré à Naples a il voulut disloquer la camorra d’un seul coup et utiliser en même temps l’énergie des camorristi et l’ascendant qu’ils exercent autour d’eux. II les envoya dans les chiourmes, dans les prisons, pour servir de gardiens; mais une fonction régulière ne pouvait leur convenir ils s’ennuyèrent vite de ce repos, qui du reste leur était moins profitable que leur agitation passée, et tous, sans exception, ils reprirent la clé des champs et la vie d’aventures qu’ils avaient menée jusqu’alors8.
Per lo scrittore parigino che in questo punto, preceduto e poi seguito da altri autori, forse esagera la qualità, la dimensione e la portata del fenomeno camorristico9, fu proprio il fallimentare progetto del duce dei Mille a permettere alla camorra di compiere un salto di qualità soprattutto sul piano organizzativo e gerarchico. Secondo Du Camp, infatti, la setta criminale riuscì a sottomettere i suoi aderenti a un’inflessibile tavola delle leggi, il cui rispetto era assicurato da un vero e proprio sistema giudiziario e da draconiane punizioni, e a fornirsi di una struttura di comando molto funzionale per capillarità e presenza territoriale estesa a Napoli e in tutta la Campania.
Depuis la chute des Bourbons, la camorra est plus forte et mieux organisée qu’autrefois. Elle continue à rançonner la population napolitaine, et inspire assez de crainte pour qu’on n’ait point encore osé porter la main sur elle. L’association embrasse toutes les provinces napolitaines, où elle a des ventes dans chaque grande ville; elle correspond avec le centre, qui est Naples, divisée elle-même en douze loges correspondant aux douze quartiers de la cité. Chaque loge est dirigée par un chef qui a pleins pouvoirs, auquel on obéit sans murmure, et qui a droit de vie et de mort sur les associés […] Cette étrange compagnie a sa hiérarchie; on parvient de degrés en degrés jusqu’au rang de chef supérieur qui est le plus élevé et le plus envié. On commence par être aspirant, picciotto (conscrit); c’est le premier grade de l’initiation, et pour l’obtenir il faut prouver d’une façon irrécusable qu’on n’appartient ni à la police, ni à la marine, ni à la gendarmerie, qu’on n’est ni voleur, ni espion, et qu’on n’a dans sa famille aucune femme se livrant à la prostitution. [..] A moins qu’une action d’éclat ne fasse franchir plusieurs degrés d’un seul coup, on doit rester un an picciotto: on arrive ensuite au grade de picciotto di sgarro, qu’on pourrait nommer aspirant de première classe. Des épreuves nouvelles et de nouveaux sermens sont exigés pour s’élever jusqu’au rang de camorrista de premier ordre. […] Chaque groupe exploitant un quartier a non-seulement un chef, mais une sorte d’agent comptable (cantarulo), qui chaque dimanche distribue aux camorristi purs le produit (barattolo) des taxes perçues pendant la semaine sur les pauvres gens, cochers, petits marchands, cabaretiers, pécheurs, domestiques de place. Le cantarulo en dehors de ses fonctions de comptable, règle les différends qui peuvent survenir entre les associés, et indique les opérations de contrebande qu’il croit devoir être fructueuses. Je dois dire qu’il n’y a pas d’exemple qu’un ballot ait été détourné par ces singuliers colporteurs. Les punitions sont sévères et, comme dans les sociétés régulières, la peine la plus grave est la mort : le condamné est exécuté au couteau par ses associés. Si un coupable cherche à s’enfuir et gagne le large, son signalement est immédiatement expédié à toutes les loges de province, qui sont par délégation chargées d’exécuter la sentence10.
L’altro appunto, che è stato fatto a Benigno, consiste nell’addebito di aver utilizzato fonti diverse e di differente di valore documentario, mettendo sullo stesso piano atti parlamentari, rapporti di polizia, biografie, ricordi e opere di finzione (come quelle appunto di Alexandre Dumas). Anche qui non mi sento di concordare pienamente con gli amichevoli critici dell’autore de La mala setta, in considerazione del fatto che poche o forse nessuna delle storie della criminalità organizzata ottocentesca, londinese, marsigliese, londinese, (compreso il classico studio di Louis Chevallier, Classes laborieuses et classes dangereuses à Paris pendant la première moitié du XIXe siècle del 1958) hanno rinunciato ad utilizzare le opere di Balzac, Dickens, Eugene Sue, che sono sì rappresentazioni letterarie del fenomeno criminale molto spesso costruite, però, sulla base di memorie di protagonisti, di documenti ufficiali e su una attenta osservazione oculare della realtà poi trasposta nell’universo narrativo e solo parzialmente trasfigurata.
Secondo Benigno, queste fonti non svolgono una funzione di semplice «rispecchiamento» della realtà ma finiscono, invece, per modificarla, plasmandola secondo i giudizi e i pregiudizi dell’osservatore e la sua volontà di fornire una rappresentazione consapevolmente o inconsapevolmente tendenziosa dell’evento osservato. La finzione narrativa sull’evento criminoso, sostiene Benigno, è un atto che non si limita a descrivere lo stato delle cose ma è un’azione che permette di produrre immediatamente una modificazione del reale, esattamente, come accade per la letteratura istituzionale sull’argomento dove molto spesso, ieri come oggi, la lettura del fenomeno delinquenziale è utilizzata per influenzare il contesto politico e sociale secondo finalità che attengono più alla lotta politica che all’indagine poliziesca11.
Si tratta di una conclusione, che assunta nel suo valore assoluto, può apparire storiograficamente traviante. Solo a condizione, però, di non tenere conto della natura «performativa» di tante corrispondenze diplomatiche ad esempio, a torto sempre ritenute neutrali e obiettive, e soprattuto di dimenticare l’uso politico del gioco di simulazione e dissimulazione (disonesta), al quale, in Italia, nel lontano e nel recente passato, si sono ispirate inchieste poliziesche, parlamentari, governative sulla criminalità organizzata, costruite più in funzione di una prassi di disinformazione e di manipolazione che in funzione dell’accertamento dei fatti.
Performativa, in ogni caso, come Benigno ci ha rilevato, fu la narrazione che della camorra fece Silvio Spaventa nel 1861. In quella narrazione, l’invenzione di un’organizzazione criminale, provvista di una perfetta e quindi temibile autonoma capacità socio-organizzativa, fu funzionale creare una campagna d’opinione indispensabile per ottenere il consenso necessario ad allontanare i gruppi garibaldini rifiutatisi di integrarsi nel Re Esercito, che, restati a Napoli, avevano stretto pericolosi legami con sottoproletariato cittadino e camorristi, e a purgare Guardia nazionale e forze di polizia da infiltrazioni di elementi politicamente radicali e di nostalgici del regime borbonico12.
Per il resto, il libro di Benigno, che si è sempre iscritto nella schiera dei novatores storiografici, si presenta, a prima vista, come uno studio costruito in ossequio al più classico paradigma della «storia generale», fondamentalmente politica ma attenta alle vicende dell’economia, della società e della storia istituzionale, dove poco spazio, in fondo, viene concesso alle riduzioni sociologiche, giuridiche, medico-psicologiche dell’Historiographie de la criminalité e dell’History of Crime francesi e anglosassoni. Ma la fedeltà di Benigno alla storiografia cosiddetta “tradizionale”, nella cui schiera, e tra i più fedeli adepti, personalmente, io continuo a inserirmi, finisce qui. E’ proprio ne La Mala setta, infatti, che Benigno rende il più convinto tributo a quella storiografia d’ispirazione decostruttiva, a lui cara, che depotenzia sistematicamente il ruolo della sfera statale e istituzionale nella dinamica storica.
Su questo approccio si può consentine o dissentire (come a me accade). Quello che è certo, però, è che lo Stato italiano, dall’unificazione al 1878, emerge correttamente, dalla ricostruzione di Benigno, come un organismo politico incapace di fornire una risposta efficace e univoca alla piaga della delinquenza organizzata. Il potere statale, allora come nel futuro, oscillò troppo frequentemente, infatti, tra un atteggiamento di scarsa comprensione e sottovalutazione, tolleranza e rigore, strumentalizzazione e tentativi d’intesa verso «mafiusi» e «uomini di parola», cui fece spesso riscontro la capacità delle organizzazioni criminali d’infiltrare e di condizionare l’apparato amministrativo, giudiziario, poliziesco a livello locale e centrale.
Se Benigno declina giustamente sempre al plurale le parole «mafia» e «camorra, per far intendere che mai il mondo delle «male sette» è stato portatore di un programma “politico” condiviso, egualmente di «Stati», di spezzoni dello Stato, tra di loro contrapposti e concorrenti in programmi e obiettivi, e non di «Stato», nell’accezione classica del termine, forse converrebbe parlare per la strategia dispiegata dall’autorità costituita nell’affrontare l’emergenza criminale in tre delle più gravi crisi del periodo post-unitario. Intendo parlare della situazione dell’ordine pubblico a Napoli, tra 1860 e 1863, e della composita rivolta antiunitaria di Palermo del settembre 1866, nella quale l’apporto decisivo della fratellanza mafiosa appare ancora oggi, persino dopo la serrata analisi di Benigno, avviluppato da ombre e nebbie non del tutto dissipate13.
Ancora non del tutto chiariti sono anche l’entità e il significato politico del contributo militare che le squadre della mafia agraria (i cosiddetti «picciotti»), utilizzate come guardia privata e «armata baronale» da latifondisti e «gabellotti», offrirono alle formazioni garibaldine, durante la campagna siciliana. Un contributo, che secondo alcune stime, si elevò a diverse migliaia di uomini, già prima dell’ingresso di Garibaldi a Palermo14, e che finì per trasformare, fino al passaggio in Calabria,
l’«Esercito meridionale», originariamente composto da 1162 uomini, tra volontari settentrionali e da «combattenti stranieri», in una sorta di «milizia feudale» di ben più vaste proporzioni. Quello che appare evidente, in questa congiuntura, è che la convenzione tra il movimento anti-borbonico e le mafie, già sperimentata nel 1848-1849, fu siglata ancora prima dello sbarco a Marsala. Su questo punto si esprimeva, con comprensibile reticenza ma infine anche con sufficiente chiarezza, un esponente del partito unitario siciliano, il principe Francesco Brancaccio di Carpino, che nelle sue memorie scriveva:
In vista della sommossa del 12 ottobre 1859 a Palermo, si diede bando alle chiacchiere e non si mirò ad altro che a raccogliere armi e munizioni a fine di essere pronti a insorgere al momento opportuno. Si andava giornalmente nelle vicine campagne per arruolare sotto la bandiera tricolore quei contadini animosi, che per istinto nativo odiavano la tirannide pari alle classi più colte, le quali la detestavano per convinzione e per principi. Era dura necessità il reclutare gente di ogni risma; vi si era sventuratamente costretti da forza maggiore, e non potendosi essere arbitri della scelta , si doveva accogliere tutti coloro che dicevano di essere pronti a combattere. Il volersi però sostenere da taluni che i gregari, componenti le squadriglie rivoluzionarie, erano tutti malfattori e camorristi, ciò non è esatto, anzi erroneo. Uomini tristi ce n’erano pur troppo, ma gli onesti non facevano difetto, né è giusto confondere gli uni con gli altri in un fascio, e giudicarli tutti alla stessa stregua15.
A Brancaccio di Carpino faceva eco il barone Niccolò Turrisi Colonna, rampollo della grande aristocrazia isolana che «gattopardescamente» aveva partecipato alla rivoluzione del 1848, come deputato alla Camera dei Comuni di Sicilia, e ai moti del 1860, in qualità di comandante della Guardia nazionale di Palermo, per poi essere eletto deputato nel 1861, indossare il laticlavio nel 1865 e assumere per due volte la carica di sindaco della città panormita (dal 1881 al 1882 e dal 1886 al 1887)16. Nell’opuscolo del 1864, Cenni sullo stato della sicurezza pubblica in Sicilia, il «barone rampante» parlava esplicitamente del patto d’azione tra criminali e oppositori del gabinetto napoletano, sostenendo che, come nel 1848, anche nel 1860, contro il regime borbonico «era scesa in armi tutta la vecchia setta dei ladri, tutta la gioventù che viveva col mestiere di guardiani rurali e la numerosa classe dei contrabbandieri dell’agro palermitano». Né la testimonianza della brochure si arrestava qui. Niccolò Turrisi Colonna, di cui ormai sono noti i legami organici con il sistema mafioso, sosteneva, infatti, che dopo la partenza di Garibaldi dall’isola, a causa dell’incapacità del nuovo governo a mantenere l’ordine, i grandi proprietari terrieri si erano trovati costretti a siglare in particolare pp. 46-47; C. DUGGAN, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 204 ss. e pp. 226-227; S. LUPO, Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni, Roma, Donzelli, 2004, pp. 56 ss. una «componenda» con la «setta» alla quale si erano affiliati delinquenti comuni, faccendieri, trafficanti di poco scrupolo e il numeroso esercito dei guardiani rurali della provincia palermitana17.
Che il travaso di forze dal mondo delle consorterie criminali al fronte della sovversione antiborbonica potesse essere uno scenario possibile, se non addirittura probabile e quasi scontato, era cosa cognita al governo napoletano e ai suoi rappresentanti nell’isola già tra fine degli anni 1830 e inizi del decennio successivo. Nelle Considerazioni sullo stato economico e politico della Sicilia del 3 agosto 1838, Pietro Calà Ulloa, allora Procuratore Generale del Re presso la Gran Corte criminale nella provincia di Trapani, palesava al Ministro di Grazia e Giustizia, Nicola Parisio, che, «se un sovvertimento politico nella Sicilia per la situazione dell’Isola posta sotto l’immediata vigilanza di Malta, in prospetto alla Corsica e del nascente regno di Grecia, in vicinanza della Sardegna, e toccando quasi i nuovi possedimenti francesi in Africa, generar potrebbe nuove e inestricabili difficoltà alla politica situazione di Europa», tale sconvolgimento poteva essere facilitato dalla precaria situazione dell’ordine pubblico nei domini borbonici situati di là dallo stretto di Messina18.
La secolare miseria tra le plebi urbane e rurali, aggravata dagli scarsi risultati ottenuti dall’eversione delle feudalità e dal rincaro dei prezzi, prodotto «dal molto numerario sparso nel decennio dagl’Inglesi», da una parte, la corruzione della giustizia, della polizia e dell’amministrazione, dall’altra, avevano spinto larghi settori della popolazione, nelle campagne e nelle città, a «ricorrere a rimedii oltremodo strani e pericolosi», che più che il sempre vivo desiderio del patriziato siciliano di essere governato da «un Lord Alto Commissario, nominato a Londra, come in Malta e nelle Isole Ionie», mettevano a repentaglio la saldezza e la durata del dominio della Corte di Caserta nell’isola.
Vi ha in molti paesi delle Unioni o Fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo. Il popolo è venuto a tacita convenzione coi rei. Così come accadono i furti, escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivono nei partiti e molti alti funzionari li coprono di un’egida impenetrabile19.
Privo di un preciso programma politico, il «governo nel governo», eretto della criminalità organizzata, grazie al concorso del notabilato siciliano, non si proponeva, per il momento, secondo Calà Ulloa, di rovesciare il regime borbonico, anche se non era da escludersi che Unioni e Fratellanze criminali avrebbero potuto favorire un processo eversivo in coincidenza di una crisi interna o internazionale. Questa previsione si profilava nettamente, invece, nella relazione del sottintendente del distretto di Termini, Antonio Puoti, redatta il 23 ottobre 1841, dove si sosteneva che «i ladri in Sicilia senza intenderlo sono i mezzi di una rivoluzione e saranno l’istrumento d’una rivolta di cui ne godrà chi li protegge».
Secondo Puoti, le «male sette» siciliane non erano espressione della delinquenza comune perché avevano sovrapposto l’animus dominandi all’animus furandi, come dimostrava la loro organizzazione interna. La mafia, o proto-mafia se si preferisce, era strutturata, infatti, in tre livelli, organizzatori (vicini o interni alle istituzioni), mediatori (in grado di formare l’anello di congiunzione tra popolo e amministrazione), esecutori (attori di furti, rapine, omicidi, intimidazioni, estorsioni, ritorsioni), in modo da formare un «sistema integrato», dove malessere sociale, attività criminale e opposizione politica si fondevano insieme in una miscela esplosiva20.
Il volume di Benigno non si concentra però solo sul filo nero, intessutosi nel Mezzogiorno tra potere politico e criminalità (comune e organizzata) durante la stagione risorgimentale. La mala setta si apre, infatti, con la narrazione e l’analisi dei torbidi che ebbero luogo a Parma, nell’ottobre 1859, dove le redini del potere erano passate, dal 15 agosto, dopo la fuga della reggente Maria Luisa, al Dittatore dell’Emilia Luigi Carlo Farini. Si trattò di un «sombre affaire», che vide come attori della vicenda lo stesso Farini, le autorità civili a esso devote, agenti dell’intelligence militare e della polizia politica piemontesi impegnati in «attività coperte», insieme il sottobosco delinquenziale della città emiliana utilizzato come massa di manovra21. Lo stesso intreccio politico- criminale, dunque, che si era già visto all’opera nella capitale del Ducato, quando un’oscura congiura, decisa e organizzata presumibilmente proprio da Cavour, portò, il 27 marzo 1854, all’uccisione di Carlo III di Borbone-Parma, eliminando così uno dei maggiori ostacoli che si opponevano all’espansione del Regno Sardo nella pianura padana22.
1 M. MARMO, Quale ordine pubblico. Notizie e opinioni a Napoli tra luglio 60 e la legge Pica, in Studi sull’Italia preunitaria, a cura di P. Macry, Napoli, Liguori, 2003, pp. 179-227; EAD., Il coltello e il mercato. La camorra prima e dopo l’Unità, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2011; G. DI FIORE, La camorra e le sue storie, Torino, Utet, 2005; F. BARBAGALLO, Storia della camorra, Roma-Bari, Laterza, 2010.
2 G. GALASSO, Criminali di Stato, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 settembre 2015.
3 Sul punto e per quel che segue, rimando a E. DI RIENZO, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee, 1830-1861, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 193 ss.
4 Si veda a titolo d’esempio G. BUTTÀ, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, Memorie della Rivoluzione, 1860-1861, Brindisi, Edizioni Trabant, 2007, pp. 107-109; G. De Sivo, I Napolitani al cospetto delle Nazioni civili, Livorno, s. t., 1861, pp. 34 ss.; P. CALÀ ULLOA, Delle presenti condizioni del reame delle Due Sicilie, Roma, Angelo Placidi, 1862, pp. 28-29; F. DURELLI, Colpo d’occhio su le condizioni del Reame delle Due Sicilie nel corso dell’anno 1862, Napoli, s. t., 1863. Leggo questo testo nella ristampa a cura di V. D’Amico e M. Errico, Battipaglia, Rispostes, 2010, pp. 77 ss.
5 H. G. ELLIOT, Some Revolutions and Other Diplomatic Experiences, cit., pp. 90-91.
6 Sui rapporti tra camorra, movimento unitario napoletano e governo di Torino tra 1860 e 1863, si veda M. MARMO, Quale ordine pubblico. Notizie e opinioni a Napoli tra luglio 60 e la legge Pica, in Quando crolla lo Stato. Studi sull’Italia preunitaria, a cura di P. Macry, Napoli, Liguori, 2003, pp. 179-227; G. DI FIORE, La camorra e le sue storie, Torino, Utet, 2005, pp. 60 ss.; N. PERRONE, L’inventore del trasformismo. Liborio Romano, strumento di Cavour per la conquista di Napoli, Soveria Mannelli, Rubbettino 2009; F. BARBAGALLO, Storia della camorra, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 5 ss.; M. MARMO, Il coltello e il mercato. La camorra prima e dopo l’Unità, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2011, pp. 59 ss.; F. BENIGNO, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878, Torino, Einaudi, 2015, pp. 45-47; 49 ss.; 55 ss.
7 M. DU CAMP, Expédition des Deux-Siciles. Souvenirs personnels, Paris, Librairie Nouvelle, 1861.
8 ID., Naples et la société napolitaine sous le roi Victor-Emmanuel, Paris, Imprimerie de J. Claye, 1862, p. 21.
9 Si veda l’anonimo Natura e origine della misteriosa setta della Camorra, a cura e introduzione di F. Benigno, Roma, Editori Internazionali Riuniti, 2012, in particolare pp. 58 ss. Queste analisi, insieme a quella di M. Monnier, La Camorra. Notizie storiche raccolte e documentate (Firenze, Barbera Editore, 1862), condizioneranno strettamente quella di Cesare Lombroso, L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza e alla psichiatria (cause e rimedi), Torino, Fratelli Bocca, 1897, pp. 261 ss.; 274 ss.; 284-285.
10 M. DU CAMP, Naples et la société napolitaine sous le roi Victor-Emmanuel, cit., pp. 19-21. Il brano dipende strettamente da M. MONNIER, La Camorra. Notizie storiche raccolte e documentate, Firenze, Barbera Editore, 1862, pp. 5 ss.
11 Sul punto si veda anche ID., L’imaginaire de la secte. Littérature et politique aux origines de la camorra (seconde moitié du XIXe siècle), in «Annales. Histoire, Sciences sociales», 68, 2013, 3, pp. 755-789.
12 F. BENIGNO, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878, cit., pp. 59 ss. e 62 ss.
13 ID., La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878, cit., pp. 190 ss. Si veda anche L. RIALL, La Sicilia e l’unificazione italiana. Politica liberale e potere locale, 1815-1866, Torino, Einaudi, 2004, pp. 240 ss.; EAD, Il Sud. I conflitti locali, in L’unificazione italiana, a cura di G. Sabatucci e V. Vidotto, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana-Aspen Institute, 2011, pp. 140-141; E. DI RIENZO, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee, 1830-1861, cit. pp. 207 ss.
14 N. COLAJANNI, Nel Regno della Mafia, dai Borboni ai Sabaudi, Roma, Edizioni della Rivista Popolare, 1900. Leggiamo questo testo nella ristampa, a cura di M. Donaviri, Brindisi, Edizioni Trabant, 2009, pp. 33 ss.; D. MACK SMITH, Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari, Laterza, 1983 pp. 584 ss.; F. RENDA, Storia della mafia, Palermo, Sigma, 1988, pp. 54 ss.; A. RECUPERO, La Sicilia all’opposizione (1848-1874), in Storia d’Italia Einaudi. La Sicilia, a cura di M. Aymard e G. Garrizzo, Torino, Einaudi, 1987, pp. 41-88,
15 F. BRANCACCIO DI CARPINO, Tre mesi nella Vicaria di Palermo nel 1860. Le barricate-Milazzo. Ricordi, Napoli, Libreria Dekten e Rocholi, 1901, pp. 57-58.
16 Portale storico del Senato della Repubblica (http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf/afd735b7ce2b2efbc125711400599a0e/023e8ea1190104404125646f 00614180?OpenDocument# ).
17 N. TURRISI COLONNA, Cenni sullo stato attuale della sicurezza pubblica in Sicilia, Palermo, G. Lorsnaider, 1864, ristampato col titolo Pubblica sicurezza in Sicilia nel 1864 a cura di M. Turrisi-Grifeo, Palermo, I.L.A. Palma, 1988, pp. 29-39; 43 e 48. Sul punto, si veda S. LUPO, Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni, cit., p. 64; ID., L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, pp. 136-137.
18 E. PONTIERI, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell’Ottocento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1965, pp. 232-242.
19 Ivi, p. 235.
20 G. FIUME, Le bande armate in Sicilia (1819-1849): violenza e organizzazione del potere, Palermo, Università degli Studi di Palermo, 1984, pp. 74-75.
21 F. BENIGNO, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878, cit., pp. 3 ss.
22 B. M. CECCHINI, La danza delle ombre. Carlo III di Borbone Parma. Un regicidio nell’Italia del Risorgimento, Lucca, Istituto storico Lucchese-Archivio Storico di Parma, 2001; E. DI RIENZO, Delitto politico e diplomazia, in ID., Il diritto delle armi. Guerra e politica nell’Europa moderna, Milano, Franco Angeli, 20082, pp. 202-217.
EUGENIO DI RIENZO
ordinario di Storia contemporanea, Università degli Studi di Roma La Sapienza. Tratto da: «Pensiero giuridico e riflessione sociale: Liber amicorum Andrea Bixio», G. Giappichelli Editore, Torino 2017, pp. 81-88